U n giorno d’estate di pochi anni fa, una ragazzina di sedici anni affrontava l’oceano su una barca a vela. Aveva un principe come scudiero, la barca era il suo cavallo bianco e come nelle migliori storie doveva salvare il mondo. Per questo si dirigeva verso New York: lì i Sette Grandi potenti del mondo si sarebbero presto riuniti e lei era partita per affrontarli.
Era l’agosto del 2019, la giovane attivista ambientalista Greta Thunberg attraversava l’oceano partendo dal porto di Plymouth, nel Regno Unito, e navigando per due settimane, ospite dello skipper Boris Hermann, raggiungeva le conferenze sul clima di New York con un viaggio a zero emissioni. Se raccontarlo come fosse un mito non pare poi un esercizio troppo forzato è perché in questi anni Greta Thunberg ha fatto quello che mancava da tempo: creare una narrazione, fare nascere, appunto, un mito, ergersi a simbolo di una delle lotte più importanti della Storia.
Lo storico e mitologo torinese Furio Jesi – e prima di lui il filologo e storico delle religioni ungherese Karol Kerényi – scrisse che esistono due tipi di mito: il “mito genuino” e il “mito tecnicizzato”.
Lo storico e mitologo torinese Furio Jesi – e prima di lui il filologo e storico delle religioni ungherese Karol Kerényi – scrisse che esistono due tipi di mito. Per prima cosa c’è il “mito genuino”: è il mito nel momento in cui si crea, quando è vivo, legato al presente e dunque alla vita degli esseri umani. Essendo così connesso con il suo mondo, dal quale proviene e nel quale confluisce, è anche curativo e nutritivo per l’uomo e la società. E poi c’è il “mito tecnicizzato” o più semplicemente “strumentalizzato”: è un mito che guarda a un passato grandioso raccontato come un’epoca di perfezione, senza contraddizioni, un passato sublimato a cui cercare di ritornare. Essendo un mito del passato, ha ormai perso il suo potere curativo e il suo contatto con la vita umana. Non essendo più vivo, si trasforma in un oggetto – utilizzabile da chiunque, in qualunque modo: può essere rimesso in funzione artificialmente e spacciato per detentore di presunte qualità normative. Può servire per creare un’identità di gruppo. La società che si rifà a questo tipo di mito si sente depositaria di un’eredità da ricostruire nel presente.
Ne abbiamo alcuni esempi ben scolpiti nella nostra memoria storica: il fascismo e il nazismo operano esattamente in questo modo. Sono modelli sociali che prendono il mito della razza ariana o del fascio romano o qualsiasi altro “mito delle origini”, lo imbevono di desiderabilità da età dell’oro, lo investono di prestigio e rilevanza proprio perché viene dal passato, lo adattano alle proprie esigenze e lo usano per creare un’identità, contrapporre un “noi” agli “altri”, imporre norme, valori, costumi.
Ma questa funzione del mito, che secondo Jesi è uno degli elementi che definisce una cultura di destra, la ritroviamo anche in parole come Giustizia, Libertà, Religione: basta svuotarle di vita e significato e continuare a usarle come generatori di valori e visioni del mondo cristallizzate. Tutti i miti politici, secondo questa interpretazione, diventano “di destra”. Che si parli di Uguaglianza o di Democrazia, ogni ideale che perda la sua necessità presente, perde anche la sua autenticità, diventa astratto, lontano dalla realtà. Queste parole entrano a far parte di un linguaggio fatto di stereotipi, luoghi comuni, concetti vuoti. Non sono più “interrogabili”, abdicano a complessità e contraddizioni e quindi diventano reazionari.
Il “mito genuino” non è creato intenzionalmente: si dà, e per questo non è mai definitivo. Accade soprattutto in momenti di festa o di rivolta: ossia quando le regole del quotidiano vengono sospese.
Il “mito genuino” invece non è creato intenzionalmente: si dà, e per questo non è mai definitivo. Accade soprattutto in momenti di festa o di rivolta: ossia quando le regole del quotidiano vengono sospese. Per spiegare come il mito della rivolta rinasca (e riviva, genuinamente) ogni volta che la rivolta si rende nuovamente possibile, Jesi prende a esempio la rivolta spartachista, lo sciopero generale improvvisato e spontaneo che riempì le strade di Berlino nel gennaio del 1919. Era stato promosso dalla Lega Spartachista (che prendeva il nome dal gladiatore Spartaco, guida di una rivolta antischiavista contro la Repubblica Romana nel I secolo a.C) e aveva coinvolto inaspettatamente centinaia di migliaia di persone. Il mito che rivive è quello di Spartaco, in quel momento di rivolta, ma anche lo stesso momento di rivolta, cui partecipò e in cui fu giustiziata Rosa Luxemburg, si fa mito mentre accade.
Non appena si cristallizzi, però, anche un mito nato come genuino può essere “strumentalizzato”. Che Guevara è stato l’incarnazione di un “mito genuino”. Se oggi un movimento di liberazione in qualche angolo dell’America Latina decidesse di chiamarsi “Movimento Che Guevara” lo starebbe facendo rivivere. Al tempo stesso, quando Che Guevara diventa solo una faccia astratta su una maglietta e si svuota di significato ecco che rischia di trasformarsi in oggetto, nel nome del quale produrre identità.
In quell’agosto del 2019 tutto il mondo seguiva il viaggio di Greta. E il viaggio creava il mito. I più non lo capivano, screditandolo, ridicolizzandolo. Ma non essere capiti è destino di molti eroi in quasi tutte le saghe mitologiche del mondo, e così toccava anche a lei. Fra chi la derideva c’erano quelli che parteggiavano per i “cattivi” e non avrebbero mai rinunciato ai loro privilegi fossili. Poi c’erano quelli che avrebbero dovuto parteggiare per lei perché dagli anni Sessanta dicevano di volere una rivoluzione e solo ora si accorgevano che tutto sommato non era vero. Infine c’erano quelli che se si fossero ascoltati avrebbero parteggiato per lei: ma non erano più abituati a credere alle storie ed erano diventati diffidenti. Questi due gruppi erano composti soprattutto di adulti che da tempo avevano fatto del sarcasmo la loro principale cotta di maglia e se ne servirono in ogni caso per proteggersi.
Diverso fu per i giovani: le storie che avevano letto – di eroi, di pirati, di avventure e cattivi da sconfiggere – erano sempre ambientate nel passato. Finalmente questa storia accadeva sotto i loro occhi. L’entusiasmo, la rabbia e l’urgenza di centinaia di migliaia di giovani si risvegliarono dopo molto torpore. Si riversarono nelle piazze di tutto il mondo, invasero le stanze del potere, urlarono talmente forte da farsi sentire in un mondo terribilmente sordo.
Greta Thunberg è un “mito genuino”. Da quando ha cominciato a sedersi davanti al Parlamento svedese fino al “bla bla bla” della PreCop a Milano nel 2021, la sua portata ha continuato a crescere.
Da allora sono passati tre anni che sembrano secoli. Pandemie, guerre, trombe d’aria, siccità. Sono cambiate le parole che usiamo, i discorsi che facciamo, i riferimenti temporali e spaziali che abbiamo. Certo, gli ambientalisti e gli scienziati quelle parole e quei discorsi li facevano da ben prima, però ora la crisi climatica è il discorso intorno a cui ruotano tutti gli altri: dal problema (caldissimo) dell’energia, alle pubblicità di biscotti o cosmetici che affermano di usare “solo prodotti naturali”, alle aziende che sostengono di essere “carbon neutral”. Piuttosto sotto forma di greenwashing, ma è pervasivo: che se ne parli in buona fede o in mala fede, è entrato nel vocabolario di chiunque.
Siccità ed eventi atmosferici estremi in tutto il mondo quest’anno hanno dato una forte spinta sull’acceleratore, ma un enorme lavoro sul nostro immaginario già dal 2018/2019 l’avevano fatto Greta Thunberg e l’immenso movimento per il clima che si è costruito prima intorno a lei e poi oltre lei, al di là di lei. Un movimento che col tempo è mutato, ha preso consapevolezza, si è radicalizzato, è uscito dai confini dell’Occidente bianco e ha cercato confronto e alleanza in tutto il mondo, soprattutto in quei territori che più di tutti risentono della crisi climatica e che meno hanno contribuito a provocarla: dunque i più arrabbiati.
Greta Thunberg è un “mito genuino”. Da quando ha cominciato a sedersi davanti al Parlamento svedese per chiedere la riduzione delle emissioni di CO2 a quando un anno dopo si dirigeva in barca a vela verso il G7 di New York, fino al “bla bla bla” della PreCop a Milano nel 2021, la sua portata ha continuato a crescere. Cresceva sotto ogni aspetto: nei contenuti (dalla CO2 in Svezia alla giustizia climatica nel mondo), nella sua stessa visibilità, nel numero di persone che mobilitava (da poche centinaia a Stoccolma a diversi milioni in centinaia di città sparse per tutto il Pianeta).
Ma come abbiamo visto con Jesi, ci vuole pochissimo poi perché il mito si cristallizzi, si distacchi dalla realtà e dal presente, e così si svuoti. Allora Thunberg ha fatto un’altra cosa inaspettata, inspiegabile al nostro pantheon di politicanti divorati dal protagonismo. Quando tutti si erano abituati a guardarla, si è spostata.
Il 25 luglio 2022 alla conferenza stampa del Climate Camp di Torino, i giornalisti erano convinti di trovare Greta Thunberg. Non solo: erano convinti che fosse a Torino già da due settimane, che stesse intessendo relazioni lì, che sarebbe andata anche in Val di Susa. Lei non aveva smentito nulla ma, quando cominciò la conferenza stampa, Thunberg non c’era. Non c’era mai stata, non aveva messo piede a Torino e non sarebbe venuta. Però i giornalisti ormai erano lì. Lei si limitò a parlare circa tre minuti da remoto, dicendo sostanzialmente “Bravi che siete lì, in bocca al lupo”. E basta.
Thunberg ha luglio ha fatto un passo indietro: l’attenzione che la stampa avrebbe voluto dare a lei era necessario che fosse data ai rappresentanti del movimento provenienti dalle zone più gravemente colpite dalla crisi climatica.
L’attenzione che la stampa avrebbe voluto dare a lei era necessario che fosse data a qualcun altro: in particolare ai rappresentanti dei Mapa (Most Affected People and Areas) provenienti dalle zone più gravemente colpite (e meno responsabili) dalla crisi climatica – Indonesia, Messico, Uganda. Rappresentanti ventenni e arrabbiatissimi di paesi che la stampa occidentale e soprattutto italiana non ascolterebbe mai e non racconterebbe mai. E poi in generale a un movimento che sta maturando facendosi sempre più radicale e sempre più consapevole della necessità di far convergere le lotte. “La lotta per la fine del mondo e per la fine del mese sono la stessa cosa” si legge spesso sui cartelli: a quel Climate Camp non c’era Thunberg ma c’erano i sindacati, Usb e SiCobas, e i portavoce della GKN di Campi Bisenzio, il movimento NoEni. E, appunto, i Mapa. Operai, indigeni, attivisti: insieme con tutte le difficoltà e contraddizioni che questo comporta. E Greta che facendosi da parte diceva, in qualche modo, che anche i contenuti del movimento per il clima stanno cambiando e sono molto meno addomesticabili di quanto la i media e la politica avessero voluto credere. La stessa immagine-Greta, sottraendosi, si rende ben poco addomesticabile.
Se tre anni fa l’obiettivo era portare la questione climatica all’interno delle stanze del potere e farsi ascoltare dai governi perché prendessero decisioni e iniziative, ora le cose sono completamente cambiate. Greta è riuscita a entrare nelle stanze del potere, mettendo anche in difficoltà i politici nei vari momenti di COP e Pre-COP, ma nella sostanza questo non ha avuto alcun effetto. Si continua a investire in combustibili fossili e al massimo si è affinata l’arte del greenwashing. Al contrario il movimento ha capito di essere molto più forte e più potente quando agisce fuori da quelle stanze, quando si confronta con fabbriche e operai, quando esce dal proprio universo bianco e privilegiato e fa i conti con il colonialismo e il post colonialismo, con l’eurocentrismo e l’estrattivismo. Quando, soprattutto, si mette in gioco per modificare la realtà dal basso, visto che dall’alto non arriva niente.
Secondo Ruggero Tallon, esponente di Fridays For Future, l’uscita di scena di Greta trova una spiegazione proprio in questo percorso di consapevolezza politica del movimento: “Una figura come Greta, il cui ruolo era diventato sempre più quello di parlare con la politica e con governi che non faranno mai niente contro la crisi climatica, se prima dava visibilità adesso diventa problematica. Ci chiedevamo fra di noi che cosa avrebbe fatto: si sarebbe potuta istituzionalizzare fondando un partito ed entrando così in quei palazzi del potere sempre criticati; oppure poteva radicalizzarsi e smettere di andare nelle stanze del potere. Ha stupito tutti facendo una scelta interessante e nobile: si è fatta da parte e ha lasciato che a livello globale prendesse spazio una componente non prettamente europea ma sempre femminile”.
La lotta al cambiamento climatico è uno spazio di rivolta in cui nascono nuovi modi di pensare e di stare al mondo, è un momento incredibilmente fertile per il nostro immaginario.
I nuovi volti di Fridays for Future infatti ora sono quelli delle ugandesi Vanessa Nakate e Patience Nabukalu o l’indonesiana Michellin Sallata: esponenti dei Mapa, che portano il peso di secoli di colonialismo, estrattivismo e ora eventi climatici sempre più estremi.
L’impressione a Torino è stata quasi – e non importa quanto fosse scientemente calcolato – che Greta volesse dire: “non è me che dovete guardare, sono loro il punto”. Per uscire dalla crisi climatica serve giustizia climatica, e giustizia climatica vuol dire che non basta scambiare le macchine a benzina con le macchine elettriche qui, ma che bisogna soprattutto smettere di disboscare l’Amazzonia, estrarre litio in Cile e Bolivia e costruire oleodotti in Uganda. E sarebbe il caso che i media occidentali cominciassero a parlarne.
La lotta al cambiamento climatico è uno spazio di rivolta in cui nascono nuovi modi di pensare e di stare al mondo, è un momento incredibilmente fertile per il nostro immaginario, di critica rispetto ai valori e sistemi in cui siamo stati immersi negli ultimi secoli e quindi di immensa apertura.
Perché cominciasse c’era bisogno di immagini simboliche forti, come quella di Greta sulla barca a vela. Quell’immagine c’è ancora e continua a essere potente proprio perché nel momento in cui rischiava di cristallizzarsi, si è spostata. È rimasta un “mito genuino”, non ha consentito di essere idolatrata e nemmeno di essere usata dai media per semplificarsi il lavoro e concentrarsi su una figura ormai conosciuta. Dovranno fare la fatica di seguire un movimento che è vivo e dunque si trasforma continuamente, è vivo e dunque non è mai definitivo.