Alessio Giacometti
/ immagine: Immagine: Between Red_101 (dettaglio). Di Lee, Seahyun e 이세현. Korean Art Museum Association South Korea
1.2.2022
Prendere le misure al mondo
La civiltà è inconcepibile senza strumenti di misura: una conversazione con il fisico Piero Martin, autore di Le sette misure del mondo.
Alessio Giacometti è editor del Tascabile e dottorando in scienze sociali a Padova. Suoi testi sono stati pubblicati su Il Tascabile, la newsletter MEDUSA, RADAR Magazine, Singola e altre riviste.
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ifficilmente alla NASA potranno mai dimenticare l’epic fail del 23 settembre 1999. La sonda Mars Climate Orbiter si accingeva a entrare nell’orbita di Marte per studiarne il clima, ma anziché posizionarsi come da programma tra i 140 e i 150 chilometri dalla superficie del pianeta rosso, scese incomprensibilmente a un’altezza di soli 57 chilometri – troppo in basso per resistere all’attrito dell’atmosfera. In pochi minuti il contatto radio con la Terra fu perso e mai più ristabilito: errore di progettazione o imprevedibile sventura? Nei giorni successivi al distacco del segnale, un’indagine interna alla NASA rilevò che il software di navigazione della sonda e quello della centrale di comando a terra, usati per calcolare impulso e posizione della navicella, erano impostati su unità di misura della forza differenti: l’uno sulla libbra forza del Sistema consuetudinario statunitense, l’altro sul newton del Sistema Internazionale. La mancata conversione tra le unità dei due sistemi di riferimento determinò la perdita del satellite e il fallimento della missione. Con oltre 125 milioni di dollari andati in fumo, fu indubbiamente l’errore di misurazione più costoso della storia.
Piero Martin, professore di Fisica sperimentale all’Università di Padova, considera quello del Mars Climate Orbiter un caso studio paradigmatico dell’importanza e della pervasività della misurazione nella società moderna, perché ci ricorda quanto per l’umanità sia indispensabile poter fare affidamento su unità di misura precise, stabili e universalmente valide. Nel suo nuovo Le sette misure del mondo (Laterza, 2021), Martin scrive che “misurare è un gesto quotidiano e permea ogni aspetto delle nostre vite anche se tipicamente lo diamo per scontato, salvo renderci conto di quanto sia cruciale quando gli strumenti di misura non funzionano o non sono disponibili”. Salta una misurazione ed evaporano investimenti milionari, crollano ambiziosi progetti di ricerca, il riscaldamento di casa si blocca e i semafori vanno in tilt. Oggi non ci facciamo nemmeno più caso, ma misuriamo di tutto, costantemente, sempre di più: venissero meno i nostri capillari sistemi di misurazione regnerebbero l’incertezza e l’anomia. “Società, scienza e tecnologie moderne semplicemente non potrebbero esistere senza misurazione”, commenta Martin. “La civiltà del XXI secolo è inconcepibile senza strumenti di misura”. Registrare misure dopo misure ci serve a organizzare la vita comune, a pianificare e ad amministrare le attività economiche, a comprendere quel che ci succede attorno e ad anticipare quel che potrebbe accadere. Misurare è sfuggire al caos e, per quanto possibile, all’ignoranza.
Eppure, come insegna il caso limite del Mars Climate Orbiter, accordarsi sulle unità di misura non è mai stata un’operazione priva di asperità e complessità, tutt’altro. Racconta Martin che per millenni abbiamo commerciato stoffe che in un villaggio si misuravano in un modo e in quello successivo in un altro, impiegato braccia, gambe, dita e piedi come strumenti di misurazione rudimentali e variabili, ma comodi e comprensibili per tutti. Fino in epoca moderna le unità di misura sono rimaste un affare per lo più locale, ogni comunità aveva le proprie e non era raro trovarne i campioni esposti direttamente nei luoghi pubblici. Grandi civiltà come quella egizia, cinese e romana cercarono di uniformare e centralizzare il sistema di pesi e misure, ma ogni volta che quegli imperi venivano rovesciati l’uniformità metrica conquistata a fatica si sfaldava e le unità di misura locali tornavano presto a proliferare. Alla vigilia della rivoluzione francese, esemplifica Martin, si stima che nella sola Francia fossero in uso circa 250.000 unità di misura diverse. Lo sviluppo di sistemi di misurazione via via più stabili, condivisi e precisi è perciò anche la storia di una continua lotta contro le forze dell’arbitrarietà.
Negli ultimi secoli, lo sforzo incessante di associare le grandezze fisiche dei fenomeni a unità di misura accurate e riconosciute ovunque ha attraversato tre momenti di svolta: l’introduzione del metodo sperimentale con la rivoluzione galileiana, l’adozione del sistema metrico decimale a seguito della rivoluzione francese e da ultimo la definizione del Sistema Internazionale delle unità di misura alla Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure del 1960. “Proprio negli anni della guerra fredda”, fa notare al riguardo Martin, “quando più rigidi diventano i confini tra le nazioni, i confini della misura vengono abbattuti” con unità finalmente universali e basate non più su manufatti umani arbitrari, ma su fenomeni naturali. Le copie dei nuovi campioni furono depositate in ogni archivio nazionale, e tuttavia si trattava di unità convenzionali già in rapida obsolescenza e da riformare, dacché la fisica del Novecento spingeva verso l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, e anche le più impercettibili imprecisioni avrebbero condotto a spettacolari errori di misurazione.
Nel mondo in notazione scientifica delle particelle elementari e dello spazio profondo, spiega Martin, “si rischiava quindi di precipitare in un nuovo medioevo scientifico senza certezze di misura”. Servivano grandezze di riferimento ancora più precise e possibilmente immutabili, così tra il 2018 e il 2019 si è arrivati a quella che è l’ultima rivoluzione metrologica: la revisione delle unità di misura in funzione di costanti universali come quelle di Planck e di Boltzmann, la velocità della luce e il numero di Avogadro. Da allora gli scienziati dispongono di sette unità fondamentali basate su costanti fisiche e capaci di scendere con precisione alle misure infinitesimali dell’atomo o di salire a quelle macroscopiche del cosmo. Le loro definizioni si sono fatte decisamente più astruse e lontane dall’esperienza, ma consentono di lavorare al meglio alle frontiere della scienza e regolano in maniera impeccabile tecnologie come lo smartphone e i satelliti. Sono le sette misure del mondo da cui deriviamo tutte le altre: a detta di Martin, “un inno alla natura”. Lo abbiamo incontrato di persona per parlare delle implicazioni scientifiche, politiche, etiche ed estetiche che si celano dietro a queste sette unità fondamentali.
Il suo libro si divide in sette capitoli, uno per ognuna delle unità di misura fondamentali del Sistema Internazionale – metro, secondo, chilogrammo, kelvin, mole, ampere e candela. L’evoluzione di queste unità, scrive lei, è uno specchio delle vicende storiche: ripercorrendone le tappe principali si passa dalla nascita della geometria nell’antico Egitto alla relatività generale e alla meccanica quantistica del Novecento. Ci si imbatte, soprattutto, in aneddoti e storie di vita degli scienziati che hanno segnato i momenti di svolta della metrologia moderna: viene in mente Planck, che a distanza di undici anni scrisse due volte a Hitler per chiedere clemenza nei confronti degli studiosi ebrei in fuga dalla Germania e del figlio Erwin, tra gli organizzatori dell’Operazione Valchiria per attentare alla vita del Führer. O Fermi, che nel 1945 stimò l’energia atomica liberata dal Trinity Test lasciando cadere dei fogli di carta e misurandone lo spostamento prodotto dall’onda d’urto dell’esplosione. Come è stato per lei rileggere la storia delle unità fondamentali intrecciandola alla vita degli scienziati che ne hanno rivoluzionato il corso?
Devo dire che dal mio punto di vista è stato molto interessante ripercorrere la grande storia a partire dal nostro rapporto con le unità di misura. In un certo senso, ho voluto attribuire alla misurazione l’importanza che credo meriti, cercando di estrarla dai sotterranei della storia in cui è stata a lungo confinata. E questo perché la misurazione è una di quelle azioni talmente comuni nella vita quotidiana che non ce ne rendiamo più nemmeno conto. Tutti quanti effettuiamo misurazioni in continuazione: dal dare un’occhiata al tachimetro dell’automobile per non superare il limite di velocità a misurarci la temperatura del corpo quando abbiamo la febbre. Eppure, se pensiamo alla storia dell’umanità, ci vengono in mente guerre, conquiste e magari anche grandi invenzioni scientifiche, ma non certo gli eventi legati a quell’azione per noi così irrinunciabile che è appunto la misurazione. Ebbene, quello che ho cercato di far emergere scrivendo questo libro è quanto, di fatto, lo sviluppo della civiltà umana sia intimamente legato al processo di misurazione e ne sia pervaso da sempre. Con un gioco di parole potremmo dire che misuriamo per prendere le misure della realtà che ci circonda, come se la misurazione fosse una sorta di linguaggio aggiuntivo e universale che ci permette di abitare il mondo. E misurare il mondo è qualcosa che porta con sé molto di più di numeri e proiezioni: porta con sé la comunanza, ossia la possibilità di vivere assieme in una comunità, e porta con sé anche la fiducia reciproca, perché l’esistenza di unità di misura condivise rappresenta quello sfondo condiviso che aiuta gli umani ad interagire e a fidarsi gli uni degli altri. Poi naturalmente, siccome la scienza è fatta da uomini e donne in carne e ossa, è inevitabile che il percorso della scienza si intrecci con le vicende umane e personali. Noi ci immaginiamo la scienza come qualcosa di astratto e a sé stante, quando in realtà è inseparabile dalle personalità che se ne occupano. Ciò significa che spesso i grandi momenti della scienza si sovrappongono ai momenti decisivi della storia, così come alle vicende, tragiche o entusiasmanti, degli scienziati stessi.
A tal riguardo, nel suo libro ricorrono spesso i nomi di “giganti” – Galileo, Einstein, Planck – ma non mancano menzioni d’onore a scienziati meno noti, che tuttavia hanno dato un contributo imprescindibile allo sviluppo dei sistemi di misurazione. Epica è ad esempio la vicenda di Jean-Baptiste Delambre e Pierre Méchain, che a fine Settecento misurarono manualmente l’arco di meridiano tra Dunkerque e Barcellona per fornire una definizione più affidabile del metro. Questo ci ricorda che sì, la scienza procede anche attraverso lampi di genio e profonde discontinuità, però in fondo si tratta di una grande impresa collettiva, alimentata da avanzamenti graduali e diffusi verso una comprensione sempre migliore del mondo e sempre perfettibile. In un passo del libro lei contesta anche l’immaginario della “folgorazione istantanea” del ricercatore, che definisce “una visione purtroppo più diffusa di quanto si possa pensare e che non rende giustizia a una scienza i cui momenti più alti, ma anche quelli quotidiani, sono frutto di una felice combinazione di studio, disciplina, dubbio e, certamente, pura improvvisazione”. Nella storia delle unità di misura fondamentali troviamo un pizzico di intuizione geniale in mezzo a dosi abbondanti di dedizione, fatica, rigore, cooperazione e confronto comunitario…
Sì, senza dubbio. Il processo che ha portato alla definizione del Sistema Internazionale di Misura è esso stesso l’archetipo della collaborazione scientifica, essendo il frutto del lavoro di innumerevoli scienziati e scienziate che, ciascuno con i propri piccoli avanzamenti, hanno permesso di arrivare a questo linguaggio universale. Nel libro a un certo punto racconto la storia di Erwin Freundlich, astronomo berlinese e studioso appassionato delle teorie di Einstein, che in qualche maniera è l’epigono dell’umana sfortuna che alle volte accompagna il lavoro degli scienziati. Freundlich aveva infatti capito quale poteva essere l’evidenza corretta per provare sperimentalmente la teoria della relatività generale: un riscontro che Einstein stesso cercava, di nuovo nell’ottica della collaborazione tra scienziati. Einstein era il genio che era, eppure per poter validare la sua teoria aveva bisogno del lavoro altrui, in questo caso di astronomi che misurassero empiricamente la curvatura dello spazio-tempo. Freundlich ebbe un’intuizione che raccolse l’appoggio e l’approvazione dello stesso Einstein: fu infatti uno dei primi a lanciare l’idea di sfruttare le eclissi per misurare la deviazione della luce causata dalla massa lunare. E tuttavia Freundlich passerà alla storia per aver scelto l’eclissi sbagliata al momento sbagliato: verrà infatti bloccato e arrestato in Crimea, con tutta la sua apparecchiatura per l’osservazione di un’eclissi imminente, pochi giorni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Questo fa capire come spesso il destino della scienza e degli scienziati sia influenzato da accadimenti che nulla hanno a che vedere con la scienza in sé. Il merito della misura fondamentale per la prova della relatività generale è oggi riconosciuto ad Arthur Eddington, ma se quel giorno in Crimea la storia avesse preso una piega diversa il povero Freundlich godrebbe di una notorietà ben maggiore.
Viviamo in un tempo agitato dallo scetticismo scientifico, e pare abbastanza chiaro come la scienza evidenced based – quella con dati e misure alla mano – non goda di ottima fiducia. Il suo libro, invece, è anche un tentativo di riabilitare lo status della misurazione come pratica scientifica irrinunciabile, da cui dipende ogni aspetto della convivenza civile. Tornare a raccontare la genealogia delle misure fondamentali può proteggerci, in qualche modo, da questa avversione nei confronti della scienza, vale a dire della possibilità di pervenire a una comprensione comune delle realtà?
Penso che in un certo senso possa aiutare, questo sì. Io credo che la crisi attuale e profonda nell’accettazione del lavoro degli scienziati in fette non trascurabili della popolazione possa essere superata sul piano della comunicazione delle scienze. Un errore che non deve fare chi si occupa di scienza è quello di salire sullo scranno, posizionarsi un gradino sopra gli altri. Perché sì, gli scienziati devono fare anzitutto ricerca, ma è necessario anche lo sforzo di raccontare i risultati del proprio lavoro per stabilire una sorta di “patto sociale” con i pubblici non specialistici. Questo è stato un po’ quel che ho cercato di fare anch’io con questo libro, a partire da un tema scientifico – quello della misurazione, appunto – che riguarda in prima persona anche i più convinti e strenui oppositori della scienza, non fosse altro perché, banalmente, anche loro regolano la temperatura del forno per cuocere i cibi. Spiegare la scienza che sta dietro al funzionamento della lavatrice e a tante azioni quotidiane, renderne evidente la pervasività, è secondo me un passo importante. O almeno uno dei tanti che dobbiamo fare.
Leggo dal libro: “da sempre l’uomo misura il mondo, lo misura per conoscerlo ed esplorarlo, per viverci, per interagire coi suoi simili, per dare e avere giustizia”. La misurazione è un potente generatore di diplomazia e coesione sociale, di fiducia reciproca e di tenuta dei sistemi politici. Ma è anche un dispositivo che conferisce un potere ambivalente: possiamo usarlo per comprendere il mondo, oppure per controllarlo, per liberare o per dominare. Pensiamo a come vengono misurati i nostri comportamenti online dai colossi digitali, o a come la misurazione venga applicata in maniera spesso acritica e indiscriminata alle attività umane. Nell’ultimo capitolo del suo libro lei sottolinea giustamente come non abbia senso misurare il successo di un sistema sanitario soltanto dalla quantità delle prestazioni che eroga, o valutare il lavoro degli scienziati esclusivamente in base al numero delle loro pubblicazioni. Il fatto è che la cultura corporate oggi egemone ha prodotto un vero e proprio feticismo della misurazione, imponendola in ogni ambito della vita. Esiste un uso più etico della misurazione, contro questa deriva?
Credo che l’aspetto dell’etica sia centrale: tutto quel che facciamo, quindi anche la scienza e la misurazione, dovrebbe operare per il bene nostro e dei nostri simili. Ciò vuol dire che non tutto si può, o si deve, misurare. L’abuso della misurazione è un’estremizzazione, l’esempio della profilazione online è calzante: vengono misurati tutti i nostri comportamenti, anche quelli più nascosti, per mettere a profitto i nostri dati e intrappolarci nelle piattaforme. Allo stesso modo, talvolta si eccede nella misurazione anche nella classificazione delle nostre prestazioni scolastiche e lavorative, della produttività delle industrie e di quant’altro. Se valutiamo le persone solo attraverso asettiche griglie prestabilite senza valorizzarne le potenzialità e le aspirazioni, perdiamo una parte della nostra umanità e, incidentalmente, rendiamo meno produttivo l’ambiente in cui lavorano. Ritengo che l’antidoto agli estremismi sia la conoscenza, perché quando sappiamo cos’è la misurazione e a cosa può davvero servirci, possiamo anche farne un uso più consapevole. È chiaro che con la scienza si possono commettere azioni magnifiche o terrificanti: la differenza, come sempre, sta nella nostra consapevolezza.
Raccontando la storia delle unità di misura fondamentali, lei si sofferma spesso a sottolineare il valore estetico di questi costrutti intellettuali. C’è indubbiamente della bellezza negli stratagemmi di pensiero che abbiamo messo a punto per imbrigliare e misurare il tempo, ad esempio, mentre nella fisica dell’ultimo secolo il suo concetto diventava sempre più sfuggente. Ma lo stesso discorso vale anche per le altre grandezze fondamentali, e vale anche per le misurazioni attualmente in via di definizione. “Oggi”, scrive lei, “c’è una inimmaginabile quantità di misure di altissima precisione che consentono la verifica di nuove teorie e sono il viatico per futuri Nobel – la misura del bosone di Higgs o la rilevazione delle onde gravitazionali, per esempio”. Cosa possiamo aspettarci dal futuro delle unità di misura?
Con la ridefinizione delle misure nel 2018, le unità fondamentali sono ora basate su costanti fisiche universali, e tali rimarranno. Si sono affrancate dalla deperibilità dei manufatti umani che usavamo per rappresentarle. A partire dalle unità così ridefinite, però, in futuro assisteremo a misurazioni di fenomeni naturali sempre più precise e al passo con lo sviluppo delle tecnologie. Negli Stati Uniti, ad esempio, alcuni scienziati stanno lavorando a un orologio atomico di ultima generazione che diventerà presto lo standard internazionale, perché in grado di misurare il tempo con una precisione tale da perdere soltanto un secondo nell’intera età dell’universo. È davvero incredibile: un margine di errore di un secondo in 14 miliardi di anni. Grandi sviluppi li vedremo poi sul fronte della misurazione del corpo umano, con sistemi non invasivi di rilevazione costante di parametri medici che saranno di grandissimo aiuto per il miglioramento della qualità della vita. Ancora una volta, il futuro della misurazione dipenderà da noi e dall’uso che decideremo di farne.