L’ immagine vincitrice dell’edizione 2015 del concorso Wildlife Photography of the year, scattata dal fotografo Don Gutoski, raffigura l’attacco mortale di una volpe rossa nei confronti di una volpe artica, in Canada. Solitamente i due predatori hanno areali di diffusione ben separati ma, con il cambiamento climatico di questi ultimi anni, i loro territori hanno iniziato a sovrapporsi. La volpe rossa si sta espandendo verso nord, trovandosi così in competizione diretta con la specie artica, originariamente meglio adattata agli ambienti freddi delle alte latitudini. La scelta della giuria è stata anche simbolica: ha voluto rappresentare un mondo naturale che cambia sotto i nostri stessi occhi, dove quello che era originariamente un predatore diventa preda di un animale quasi identico a lui, ma più grande e aggressivo.
Il riscaldamento globale sta avendo un drammatico impatto sugli ambienti di buona parte del pianeta ma, dove le specie sono più sensibili ai cambiamenti di temperatura, i danni sono particolarmente evidenti. L’esempio di una specie adattata agli ambienti freddi come la volpe artica non è casuale. Molti animali che vivono nelle zone fredde si trovano in crescente difficoltà. Gli orsi polari in particolare stanno vivendo un periodo di grave crisi, costretti dallo scioglimento dei ghiacci a nuotare più a lungo per trovare le loro prede. Spinti dalla fame, in questi ultimi anni alcuni esemplari sono stati osservati mentre si avventuravano sulla terraferma alla ricerca di uova di volatili, con risultati peraltro scarsi.
L’esempio dell’orso polare è il più noto al grande pubblico, ma non è certo l’unico. Tra le specie nordiche più colpite ci sono molti animali adattati agli ambienti marini, soprattutto quelli che fanno affidamento sulla ricchezza di nutrienti tipica delle correnti fredde. In questi ultimi mesi si è osservata una drammatica moria di uccelli marini nel mare di Bering, nel nord Pacifico. In particolare i variopinti pulcinella di mare, che sono solitamente eccellenti e organizzatissimi pescatori, sembra stiano affrontando un crollo nelle loro popolazioni. I cadaveri degli uccelli sono stati raccolti a centinaia lungo le spiagge della piccola isola di St. Paul, una lingua di terra dispersa a metà strada tra l’Alaska e la Russia, nell’arcipelago delle Pribilof. Le cause di questi decessi non sono ancora certe, ma l’ipotesi più accreditata al momento è che gli animali siano morti di fame. E questo è un aspetto decisamente sorprendente: le acque del mare di Bering, di solito, sono ricchissime di quei piccoli pesci di cui si nutrono i volatili.
Sebbene sia normale, per i normali cicli climatici naturali, che le acque del Pacifico portino meno nutrienti con sé nei periodi particolarmente caldi, le temperature di questi ultimi anni hanno superato di gran lunga le oscillazioni medie registrate in passato, e gli effetti sugli ecosistemi non hanno tardato a farsi vedere. Un rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha descritto nel dettaglio questa migrazione in massa delle specie più colpite dal riscaldamento globale. Le specie che migrano verso nord o verso acque più profonde, secondo lo studio, sono sempre più numerose.
Gli effetti dei cambiamenti climatici influiscono sugli ecosistemi a vari livelli. Eventi naturali come le fioriture nelle fanerogame o l’accoppiamento e la deposizione delle uova negli uccelli sono anticipate. In questo modo vengono a loro volta modificati i cicli vitali di impollinatori e predatori. Ma tutti gli ecosistemi sono regolati da connessioni tra le varie specie che ne fanno parte. Così, le interazioni ecologiche riescono a far percepire gli effetti del riscaldamento globale anche a quelle specie che non ne risentono direttamente.
Il rapporto preda-predatore, ad esempio, è un equilibrio estremamente delicato e direttamente connesso alle variazioni nelle popolazioni animali. Una carenza di prede si risolve con una moria di predatori, un aumento di predatori si tramuta in una sensibile diminuzione delle prede. I numeri oscillano ciclicamente in maniera naturale, ma questo equilibrio può essere completamente stravolto da improvvise variazioni del clima. Nel Pacifico settentrionale, le grandi oscillazioni nelle popolazioni animali alla base della catena alimentare finiscono col colpire in maniera drammatica tutte le specie presenti. In particolare i copepodi, piccoli crostacei che rappresentano uno dei più importanti componenti dello zooplankton e una delle maggiori fonti di nutrimento dei pesci di piccole dimensioni, sono sensibilmente diminuiti in questi ultimi anni. Tante specie di pesci marini stanno migrando verso nord in cerca di acque più fresche e ricche di copepodi e altri nutrienti. Molti loro predatori, però, non sono in grado di fare altrettanto.
Questo perché, semplicemente, determinate specie sono in grado di migrare verso climi più adatti alle loro necessità, altre no. E quelle che ci riescono non è detto che lo facciano senza difficoltà e dispendio di energie. Molti uccelli marini, tra cui proprio il pulcinella di mare, sono costrette a viaggiare sempre più a lungo per trovare acque sufficientemente ricche di prede.
Il rapporto preda-predatore è un equilibrio delicato e direttamente connesso alle variazioni nelle popolazioni animali. Può essere completamente stravolto da improvvise variazioni del clima.
Il pinguino di Adelia è un altro esempio di specie adattata ai climi freddi che deve fare i conti con temperature degli oceani sempre più alte. La preda principale di questi uccelli è il krill. Questi piccoli crostacei solitamente si concentrano in grandi numeri sotto le lastre di ghiaccio marino, dove possono trovare protezione e le alghe di cui si nutrono. Con il ritiro dei ghiacci antartici le popolazioni di krill sono sensibilmente diminuite. Per i pinguini questo significa nuotare di più e più a lungo per trovare il nutrimento sufficiente per sopravvivere. Il risultato, di conseguenza, è un maggior dispendio energetico e un forte rischio di morire tra le fauci dei loro nemici naturali, le foche leopardo. L’energia spesa e la minore disponibilità di cibo si riflette sulla sopravvivenza dei piccoli e sulla stessa fertilità delle coppie nidificanti.
Le migrazioni, nella maggior parte dei casi, sono un evento naturale per molte specie animali. Col cambiamento climatico, però, le rotte abituali stanno cambiando. Una mappa sulle future migrazioni delle specie più colpite dal riscaldamento globale è stata creata dallo sviluppatore Dan Majka della ONG The Nature Conservancy. In essa sono raffigurate tutte le vie percorribili da mammiferi, uccelli e anfibi per trovare rifugio in aree con un clima sufficientemente fresco per le loro necessità. Non sono indicate le rotte migratorie di singole specie ma i percorsi ipotetici che, verosimilmente, saranno seguiti dagli animali col futuro innalzamento delle temperature. Il risultato visivo è impressionante: in pratica ci sarà uno spostamento in massa lungo corridoi preferenziali verso territori dalle temperature più basse, distribuito uniformemente su quasi tutte le terre emerse. Le conseguenze di cambiamenti ecologici così radicali sono praticamente impossibili da prevedere, stando alle nostre conoscenze attuali.
Anche le migrazioni degli uccelli sembrano trovarsi in una fase di profondi cambiamenti, così come gli areali di distribuzione di molte loro specie. Cambiano non solo le tratte percorse, ma anche i periodi dell’anno in cui i viaggi vengono intrapresi: ora gli uccelli si accoppiano e depongono le uova in anticipo, partono per svernare sempre più tardi e si spingono verso aree sempre più a nord. Anche se gli studi scientifici in tal senso sono ancora pochi, si tratta di un trend osservato empiricamente in molte specie da birdwatcher e osservatori occasionali.
Gli spostamenti non riguardano solo la posizione geografica, ma anche l’altitudine. Un esempio è dato dai babbuini gelada, endemici agli altopiani freddi dell’Africa orientale, che stanno progressivamente migrando verso quote più alte per restare in ambienti a loro adatti. E, anche se sembra difficile da credere, una “migrazione” vera e propria verso altitudini più elevate sta avvenendo anche per alcune specie vegetali. Ne ha parlato la giornalista Elizabeth Kolbert ne “La sesta estinzione”, premiato col Pulitzer 2015: gli alberi del genere Schefflera, in alcune parti del mondo, stanno avanzando verso quote maggiori all’incredibile velocità di 30 metri all’anno, grazie ai loro ritmi riproduttivi e alla buona capacità di disperdere i semi in lontananza. E, anche se con passo meno spedito, altre specie (in particolare sulle Ande, dove questo fenomeno è attualmente studiato nel dettaglio) stanno seguendo lo stesso trend. Ma il problema è che le migrazioni “verso l’alto” non possono spingersi avanti all’infinito. In questo senso, le specie che si possono trovare solo su cime montane isolate sembrano destinate a soccombere per prime.
Più in generale, molte specie arboree potrebbero scomparire. La loro risposta a questo tipo di stress ambientali, in particolare la dispersione dei semi, è un sistema troppo lento e imprevedibile per poter garantire una sopravvivenza a un aumento delle temperature rapido come quello attuale. Il rischio maggiore riguarda chi si è specializzato per sopravvivere solo in un determinato ambiente, come i coralli: l’aumento delle temperature e l’innalzamento del livello delle acque già adesso stanno decimando le colonie di madrepore di tutto il mondo, data anche la loro scarsa capacità di colonizzare nuovi ambienti in tempi rapidi.
L’uomo, in questa corsa ai ripari globale, non fa certo eccezione. Ci sono esempi di crisi economiche e conseguenti conflitti e migrazioni di massa causate dall’inaridimento e dalla perdita di fertilità dei terreni, ma non solo. Gli abitanti dei piccoli stati insulari di Tuvalu e Kiribati, infatti, stanno vivendo sulla loro pelle il risultato dell’innalzamento del livello del mare. Le acque del sud Pacifico avanzano, inondano le case, sottraggono terreno fertile e rendono inutilizzabili le falde di acqua dolce. Le isole sono di origine corallina e si ergono di pochi metri dal livello dell’acqua, non ci sono colline o montagne nell’entroterra su cui rifugiarsi. Il futuro, per queste popolazioni polinesiane, sarà richiedere lo status di rifugiati climatici e cercare salvezza nella relativamente vicina Nuova Zelanda. Molto probabilmente, non saranno gli unici.