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a oltre dieci anni Peter Godfrey-Smith svolge immersioni lungo la costa australiana: le sue foto e i suoi video sottomarini sono stati pubblicati da New York Times e National Geographic. Godfrey-Smith è professore di storia e filosofia della scienza all’università di Sydney, e ha scritto cinque libri, l’ultimo dei quali, Altre menti, è appena stato tradotto da Adelphi come secondo volume della collana Animalia (il primo è Al di là delle parole, di Carl Safina).
Come scrivevamo dopo l’uscita dell’edizione inglese, Altre menti è un libro dedicato all’intelligenza aliena dei cefalopodi – calamari, seppie e polpi – un racconto che, come spesso accade in filosofia, contiene cose diverse: discussioni di teorie paleontologiche e biologiche, resoconti di osservazioni subacquee e strane domande che emergono da quel campo d’indagine silenzioso e disorientante che è lo studio del pensiero animale.
Vorrei domandarti prima di tutto perché hai deciso di scrivere un libro sulla mente dei cefalopodi.
Altre menti è nato dai miei incontri diretti con gli animali, in mare. Ho cominciato a nuotare, fare snorkeling e immersioni regolarmente in un santuario marino vicino a Sidney, dove per la prima volta ho incontrato le seppie giganti. All’inizio mi hanno incuriosito per i loro colori e per il loro comportamento apparentemente amichevole. Poi ho cominciato a notare anche la presenza di polpi nella stessa area. Fin qui non si trattava assolutamente di un progetto filosofico; ero soltanto affascinato dagli animali. Poi ho capito che si tratta anche di creature importanti dal punto di vista filosofico, vista la grande separazione evolutiva tra noi e loro, e la grande complessità del loro comportamento.
Uno dei fenomeni più straordinari che esamini nel libro è la capacità delle seppie giganti di produrre complessi motivi cromatici che si muovono sulla superficie del loro corpo. Pensi si tratti solo di un prodotto spettacolare dell’evoluzione, in parte dotato di funzioni adattive, o possiamo azzardare analogie con l’espressione inconscia delle emozioni? In altre parole, non potremmo pensare a questi spettacoli come a una sorta di “sogni” visibili?
Non ho una risposta sicura a questa domanda, solo congetture. Sospetto che molti cambiamenti di colore abbiano una funzione biologica, ma altri no. Alcuni di questi strani e spettacolari motivi cromatici potrebbero servire a spaventare predatori o prede. Non devono essere necessariamente tentativi di mimetizzarsi, o segnali determinati. Ma dato che il cervello delle seppie è collegato ai meccanismi che producono questi motivi cromatici, potrebbero in effetti essere un prodotto accidentale collegato all’attività cerebrale. Esistono anche delle prove empiriche di stati simili al sogno nelle seppie, mentre non credo ci siano ancora nel caso dei polpi. Se l’animale sta sognando, e i suoi processi interni hanno effetti sui meccanismi che producono i colori sulla pelle, si tratterebbe proprio di una specie di “sogno visibile” o – più esattamente – il riflesso esteriormente visibile di un sogno.
Tra le caratteristiche più sorprendenti del polpo, invece, c’è la distribuzione del suo sistema nervoso. Nel libro sostieni che il polpo, avendo un gran numero di neuroni nei tentacoli, potrebbe non avere un controllo “centralizzato” del corpo. Per capire cosa può significare, tracci un possibile parallelo con i casi umani di pazienti che hanno subito la separazione chirurgica degli emisferi.
Rifletto continuamente sulle somiglianze e differenze tra polpi e umani. L’unità sembra essere uno degli aspetti discriminanti tra la loro esperienza e la nostra. Penso che i polpi abbiano una buona dose di controllo centrale su quel che fanno, ma non quanto noi, e forse non hanno troppo controllo sui dettagli di molte azioni. Molti noti fenomeni umani hanno collegamenti con la disunità che potrebbe essere tipica dell’esperienza dei polpi. I più drammatici sono i casi di “cervello diviso” (split brain), in cui i pazienti subiscono la separazione chirurgica degli emisferi cerebrali per curare una grave epilessia – credo si tratti di un’operazione che non si fa più, anche se ha aiutato molte persone. Mi è tornata in mente proprio questa analogia, ultimamente, perché sto leggendo un bel libro sui cervelli divisi, scritto dalla filosofa Elisabeth Schechter. Si tratta di un esempio importante perché, anche se mettiamo da parte il caso estremo del polpo, molti altri animali – inclusi alcuni vertebrati come gli uccelli – hanno un’organizzazione cerebrale meno centralizzata della nostra. In tutti questi casi le vite mentali degli animali potrebbero caratterizzarsi per un’integrazione più parziale di esperienze, umori, memorie e così via. Per capire come la mente possa esistere nel mondo fisico, bisogna svolgere un’indagine biologica e evolutiva sulla soggettività, cioè il “concetto ponte” tra mentale e fisico. Nel caso di molti animali la soggettività non sembra granché unificata. Alcune delle domande su cui sto riflettendo in questo periodo girano proprio attorno a questi dubbi: ha senso l’idea di un soggetto dell’esperienza disunito o parzialmente disunito? E gli animali con un’organizzazione meno unificata hanno “meno esperienza” o “meno mente” rispetto a quelli più unificati?
Alcuni scienziati, come Stanislas Dehaene, negano che gli animali possiedano una coscienza vera e propria perché non avrebbero la capacità umana di comporre una “visione del mondo” unificata. Una delle tesi più interessanti del tuo libro, però, è che la coscienza non “irrompe nell’universo all’improvviso e tutta intera”.
Come scrivo, chiedersi se i batteri sentono o se le api ricordano “non sono domande che hanno risposte secche, del tipo: sì o no”. I polpi hanno “delle idee”. Dal “sentire” più elementare all’“intelligenza” e alla “coscienza” più elaborata c’è un continuo di gradi, non c’è motivo di pensare in termini di divisioni nette: la continuità mi sembra l’ipotesi più probabile. In questo caso la biologia ci spinge a considerare la coscienza come una proprietà che compare per gradi. Dovremo soltanto abituarci a questo concetto e trovare un modo adeguato di formularlo. Come dici, secondo alcuni scienziati la capacità umana di comporre una “visione del mondo” unificata componendo le diverse percezioni sarebbe un tratto essenziale della coscienza. In parte pensavo proprio a questo quando ho risposto alla domanda precedente sui sistemi nervosi e le esperienze disunite. Se un animale ha un cervello o sistema nervoso molto disunito, allora forse non ha una determinata “visione del mondo” o anche solo un certo “punto di vista”. Secondo alcune teorie questo lo renderebbe meno cosciente, o renderebbe meno verosimile un qualsiasi grado di coscienza. Ma questa concezione mi sembra troppo ristretta: è un’esagerazione collegare la coscienza al particolare tipo di fisionomia che possediamo noi umani, e al nostro particolare “stile” di elaborazione dei dati sensoriali.
Nel tuo libro affermi di voler “fare dei progressi” su uno dei temi più discussi della filosofia moderna, quello del rapporto tra mente e corpo. Descartes affermò che la mente cosciente appartiene a un’anima distinta dal corpo, che gli animali non-umani non possiederebbero. Hobbes sostenne invece che la mente si può ridurre ai meccanismi complessi del corpo animale (materialismo). Margaret Cavendish, nella seconda metà del XVII secolo, reagì ad entrambi considerando che la proprietà di essere cosciente sarebbe una componente fondamentale di ogni parte della materia (panpsichismo). Ancora Darwin annotò su un taccuino la domanda “come sorge la coscienza?”, ma ancora oggi manca una teoria biologica della coscienza universalmente accettata, e restano in campo tutte le ipotesi del passato. Come collocheresti i tuoi risultati su questo sfondo?
Oggi sono ancora diffuse delle forme di dualismo filosofico, secondo cui bisogna ammettere che la coscienza è un fenomeno che non si riesce a spiegare in base alle normali proprietà della materia. Per la stessa ragione alcuni filosofi considerano ancora plausibile il panpsichismo, aggiungendo all’intera natura questa proprietà addizionale che la scienza non sarebbe in grado di spiegare. Non mi sembra ci siano ragioni per credere che il dualismo o il panpsichismo siano veri.
Io sono un materialista, credo che la base della mente sia l’attività biologica, che penso sia una base ragionevole di tutte le nostre esperienze mentali, inclusi colori vividi e sentimenti complessi. I problemi del materialismo sono reali, ma sono stati anche sopravvalutati nella filosofia recente: si parla del mentale come di qualcosa di colorato e immediato, fatto di pure “qualità”, mentre il fisico sarebbe arido e desolato, fatto soltanto di schemi e struttura. Perciò strutture e processi materiali non sarebbero in grado di spiegare l’emergere delle qualità coscienti. In questo modo lo iato appare più ampio di quanto sia effettivamente.
Aggiungo che, se non fossi un materialista, sarei un cosiddetto “monista neutrale”. Penso sia questa l’alternativa migliore al materialismo. Il monismo neutrale ritiene che ciò che è fondamentale nel mondo non sia né mentale, né fisico, ma dia origine a entrambi – a ciò che concepiamo come “fisico” e a ciò che concepiamo come “mentale”. Ripeto, lo sviluppo del lavoro sulle basi biologiche della soggettività sta già rendendo il materialismo più plausibile. Ma se non fossi un materialista, sarei un monista neutrale. Credo comunque che si tratti di una questione che alla lunga troverà una soluzione.
Wittgenstein ha scritto che “se un leone potesse parlare non lo capiremmo”, suggerendo che la peculiare “forma di vita” degli animali non umani, privi del nostro linguaggio, sia semplicemente inaccessibile agli umani. D’altra parte, come scrivi, “molte cose complesse avvengono negli animali senza l’aiuto del linguaggio”. Carl Safina, nel suo libro Al di là delle parole, mostra in modo convincente che elefanti, delfini e lupi comprendono il proprio complesso mondo sociale anche se non parlano. La domanda è: come esprimere nel nostro linguaggio l’esperienza diversa e non verbalizzata degli altri animali?
Si tratta certamente di una questione complessa. Se vogliamo capire che cosa si prova a essere un altro animale, parte del compito va svolto attraverso l’immaginazione piuttosto che il linguaggio. Penso che possiamo avvicinarci alle esperienze degli altri animali cominciando dalla nostra e poi introducendo delle modificazioni, immaginandole a seconda di quello che apprendiamo dalla biologia. Per esempio, un polpo potrebbe essere capace di vedere – in modo molto vago e imperfetto – con tutta la sua pelle. Sembra infatti che abbiano una qualche sensibilità alla luce su tutto il corpo. Parlo di queste ricerche scientifiche in Altre menti. Possiamo formulare questa idea a parole – “tutta la pelle di un polpo è sensibile alla luce” – ma possiamo anche cercare di immaginare che cosa si proverebbe a essere così. Non possiamo catturare a parole che cosa si prova a essere un altro animale (o anche un altro essere umano) ma le parole possono aiutarci ad avvicinarci a questo sentimento con l’immaginazione.
Sei un sommozzatore e un fotografo sottomarino, attività che oggi non sono connesse in modo ovvio con la filosofia “da tavolo”. Le consideri lo stesso un elemento essenziale della tua ricerca filosofica?
Credo sia una combinazione molto utile, anche se non essenziale. Penso che in questa parte della filosofia sia necessario seguire con grande attenzione quello che accade in biologia e in psicologia. Ma non è essenziale prendere parte in prima persona a quelle ricerche. Per me, tuttavia, farlo è stato certamente utile. Osservare i polpi dal vivo e far parte del loro mondo sottomarino mi ha insegnato molto su come possano essere le loro vite. In un certo senso le più grandi lezioni che ho appreso riguardano la natura della scienza: quanto è difficile svolgere una buona ricerca empirica, quanto è importante non farsi guidare troppo dalle proprie supposizioni sull’argomento che si sta studiando, quanto è importante farsi “guidare dai dati”. Lavorare con David Scheel sul comportamento dei polpi mi ha insegnato molto su come organizzare le idee scientifiche e su come porre buone domande empiriche. Ho un grande rispetto per chi pratica la biologia sul campo.
Nel libro scrivi: “Fare filosofia è soprattutto una questione di mettere insieme le cose, cercando di comporre i pezzi di puzzle molto grandi in modo sensato”, e sviluppi la tua ricerca sui cefalopodi accennando a questioni di etica animale e dell’ambiente.
In questo periodo sto lavorando proprio a problemi di etica ambientale e animale. Si tratta di collegamenti molto importanti. I collegamenti con le questioni etiche sono piuttosto immediati: appena decidiamo che gran parte degli animali può avere delle esperienze, per esempio provare piacere e dolore, dobbiamo elaborare una risposta a questo fatto. Dobbiamo almeno cercare di pensare a come modificare i nostri comportamenti alla luce di queste scoperte.
Altre menti è il primo libro di una serie di tre, una trilogia. Adesso sto lavorando al secondo libro, che prenderà in considerazione una più ampia gamma di animali e tratterà più in dettaglio la storia della vita animale. Il terzo libro affronterà da vicino le questioni ambientali, tra le altre cose. Gran parte della vita negli oceani è seriamente minacciata dal mutamento climatico, dall’eccesso di pesca e da varie specie di inquinamento. Le mie esperienze nell’acqua in Australia mi hanno insegnato quanto siano efficaci e preziosi i santuari marini, le aree protette. Anche i piccoli santuari possono fare una gran differenza per la vita marina, fintanto che la protezione al loro interno è forte. Nei passaggi conclusivi di Altre menti mi soffermo sul ruolo del mare nella storia della vita sulla Terra per cercare di motivare un aumento di interesse per la salute degli oceani. Nei miei lavori futuri, in particolare nel terzo libro, vorrei presentare questo argomento in un modo più dettagliato e filosofico.