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ichael Pollan gode del privilegio di essere un saggista di straordinario successo dentro e fuori i confini degli Stati Uniti. Alcuni suoi libri sono diventati punti di riferimento ineludibili nel pubblico dibattito intorno ai temi che hanno affrontato. È il caso, per esempio, di Come cambiare la tua mente (2018), una lunga e avvincente esplorazione delle (allora) più recenti scoperte scientifiche intorno alle sostanze psichedeliche, di cui il nuovo Piante che cambiano la mente (appena pubblicato in Italia da Adelphi, con la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) si presenta come una sorta di complemento.
Per quanto più breve e certamente meno impegnativo del precedente, l’ultimo lavoro di Pollan contiene elementi nuovi e importanti. Oppio, caffeina, e mescalina sono le sostanze su cui punta adesso l’obiettivo, e lo fa nel modo di sempre: mettendosi in gioco in prima persona, coinvolgendo studiosi ed esperti, costruendo efficientissime macchine narrative capaci di magnetizzare anche un lettore distratto, ed esercitando uno sguardo lucido, aperto, equilibrato. Pollan muove in una direzione ulteriore rispetto a quella che in Come cambiare la tua mente poteva a tratti sembrare (o così è sembrata al sottoscritto) una fiducia certo contagiosa ma vagamente accondiscendente per le sorti radiose delle terapie psichedeliche. Non soltanto la presenza del caffè implica ora un’interpretazione più estesa e smagata (e quindi complessa) del concetto di “sostanza psicoattiva”, ma il capitolo sulla mescalina e quello sull’oppio (che ingloba un precedente lavoro degli anni Novanta rimasto parzialmente inedito per ragioni di opportunità legale e che riflette su com’è cambiato, almeno negli Stati Uniti, il discorso pubblico intorno alle droghe), sembrano aprire a pratiche meno conformi e controllate di quelle terapeutiche.
Pollan si mette in gioco in prima persona, coinvolgendo studiosi ed esperti, costruendo efficientissime macchine narrative capaci di magnetizzare anche un lettore distratto, ed esercitando uno sguardo lucido, aperto, equilibrato.
Su perché l’accento dovesse prima di tutto cadere nell’ambito scientifico, abbiamo parlato nell’intervista che segue, in cui abbiamo avuto modo di discutere altri aspetti dell’ultimo saggio e dell’opera di Pollan in generale, comprese questioni di stile e scrittura. Pollan padroneggia con maestria il materiale e gli strumenti della composizione saggistica, da esperto divulgatore sa come smussare gli spigoli e offrire un’immagine attraente e luminosa del proprio oggetto di studio. Tuttavia, come credo dimostrino proprio le risposte che ha dato alle mie domande a tratti un po’ spigolose e, per così dire, “contropelo”, la sua benevolenza verso il lettore non gli impedisce di considerare le zone d’ombra, e di parlarne, all’occorrenza, con la consueta franchezza e intelligenza.
Vorrei cominciare con una domanda che forse le hanno rivolto spesso ma che m’interessa in particolare: come è passato dal cibo, a cui ha dedicato molti libri, alle modificazioni degli stati mentali? Qual è la connessione? Nel nuovo saggio c’è un capitolo dedicato alla caffeina, che in un certo senso può essere considerata allo stesso tempo come un alimento e una droga.
Per me il passaggio non è stato dal cibo alla droga. Ho iniziato scrivendo di piante, l’ho fatto fin dal primo libro che è uscito negli anni Novanta, intitolato Una seconda natura. Sono sempre stato interessato alla nostra relazione con le piante, come noi usiamo loro, come loro ci usano. E se ti interessa questa relazione, uno degli aspetti più importanti, naturalmente, è il cibo: tutto quello che mangiamo, eccetto i funghi, sono piante o animali che hanno mangiato piante, quindi questo mi ha condotto al cibo e all’agricoltura. Ma un altro aspetto delle piante che mi ha sempre interessato è che le utilizziamo per modificare la nostra coscienza. In un libro che ho pubblicato nel 2001, La botanica del desiderio, dove mi occupavo di piante e di come ci cambiano in quanto specie, e di come noi le cambiamo, ho parlato di cibo, la patata, ma anche della cannabis. Quindi già in passato mi sono interessato a questo strano e peculiare uso delle piante. C’è una linea molto sottile tra cibo e droga, il caffè e il tè lo illustrano bene: sono bevande di cui ci nutriamo, ma allo stesso tempo modificano qualcosa nella nostra mente. Di fatto è quasi impossibile fare una distinzione netta: cibo e droga sono entrambi cose che inseriamo nel nostro corpo e che ci cambiano in qualche modo. Il mio interesse nel cibo mi ha portato inoltre a interessarmi di salute, di come ci prendiamo cura del nostro corpo, ho scritto alcuni libri su nutrizione e salute e inevitabilmente è venuto fuori che anche gli psichedelici riguardano la salute, la salute mentale: questa è un’altra connessione. Te ne vengono in mente altre?
Beh sì direi che entrambi sono qualcosa che riguarda le interazioni tra il nostro organismo e il mondo esterno.
Sì, fanno parte della nostra relazione con la natura, noi partecipiamo della natura, la teniamo nel nostro corpo, e interveniamo sulla natura a nostra volta. C’è una grande attenzione oggi su come l’umano ha modificato il mondo naturale, questo naturalmente è legato alle questioni ambientali e alla crisi climatica, ma allo stesso tempo la natura cambia noi umani, continuamente, solo che non lo vediamo, tendiamo a non notare la relazione strettissima che intratteniamo con la natura, il modo in cui la natura ci modifica.
Il capitolo sul caffè riguarda molto questo tema: tendiamo a rimuovere completamente il fatto che la nostra mente, ogni giorno, è sotto l’effetto di questa sostanza, e oltre al caffè si potrebbero fare altri esempi.
E vero, dobbiamo prendere atto del fatto che siamo dipendenti da questa pianta, o meglio due piante, caffè e tè, anche se non le pensiamo come droghe. Una delle ragioni per cui ho voluto includere la caffeina nel nuovo libro è che molte persone pensano alle droghe come al male, all’illegale, all’immorale, ma siamo tutti in relazione con qualche droga. Ciò che, come società, decidiamo di condannare dice più della nostra società che non della droga in sé. Quindi ho voluto accostare una droga illegale con una legale per indurre la gente a riflettere su cosa sia una droga, cosa una dipendenza, cosa una cattiva dipendenza. Penso che quella dal caffè sia una dipendenza abbastanza innocua, fintanto che non ne assumi troppo, ma si possono avere relazioni salutari anche con droghe illegali. Si tratta sempre di relazioni, e le relazioni possono essere produttive oppure distruttive. Il governo, nella maggior parte dei casi, non ha gli strumenti per deciderlo, non ne sa abbastanza.
Viviamo in un’interdipendenza profonda con la natura, e in questo senso la dipendenza non è né buona né cattiva, è semplicemente la realtà dei fatti. Siamo interdipendenti con altre specie, per esempio i batteri, il microbioma: noi umani dipendiamo completamente da dieci trilioni di batteri che vivono in e su di noi, perciò non siamo individui, non siamo padroni di noi stessi, ma siamo profondamente intrecciati nella fabbrica della natura. Però facciamo molta fatica a pensare in questi termini.
Parlando di natura e interdipendenze, cosa pensa della tecnologia: ne dipendiamo? È ancora natura?
Noi siamo parte della natura e la tecnologia è qualcosa che produciamo. La nostra tecnologia non è così diversa dai nidi degli uccelli o dai formicai. Alcuni animali producono la loro tecnologia. Allo stesso tempo penso che a volere definire tutto come natura s’incontrano dei problemi. La nostra posizione all’interno del mondo naturale è molto particolare, abbiamo un’evoluzione culturale oltre a quella biologica e questo ci attribuisce un certo potere che altre creature non hanno, e anche questo potere può essere molto costruttivo o molto distruttivo, a seconda di com’è usato. Dire che ogni cosa è naturale può essere una scusa per far passare tutto. Non so se internet sia “natura”, ma non saprei esattamente dove collocarlo. Credo che si debba valutare simili questioni sempre caso per caso.
Questo vale anche per gli psichedelici…
Sì, certo, LSD è tecnologia? Non è facile rispondere.
Scrivendo del caffè ricostruisce la lunga storia della sostanza, connessa con una serie di questioni storico-politiche come il colonialismo, l’imperialismo, fino a descriverla come una droga strutturalmente coerente con la cultura del capitalismo occidentale. Crede che oggi altre sostanze si stiano affermando come rappresentanti del nostro mondo? Si può parlare, oltre che di “guerra alla droga”, anche di una guerra tra droghe?
Le cose stanno cambiando. La “war on drugs” si è rivelata un fallimento, un guerra politica e non una campagna di salute pubblica. La mia impressione è che, almeno per gli Stati Uniti, si stia capendo che dichiarare la guerra alla droga è un’idea semplicistica che non risolve nessun problema. E che la nostra relazione con le droghe sta cambiando. Gli psichedelici sono un caso significativo perché negli ultimi cinque o dieci anni ha mutato nettamente identità, passando da qualcosa di spaventoso che distrugge le menti dei giovani, e che va quindi eliminato, a una medicina, qualcosa che può effettivamente aiutare le persone, e non soltanto aiutarle in generale, ma nello specifico aiutarle a liberarsi dalla dipendenza da altre droghe. Proprio la settimana scorsa è stato pubblicato uno studio che dimostrava come la psilocibina sia un’ottima cura per l’alcolismo. È provato inoltre che aiuta a liberarsi dalla dipendenza da nicotina e cocaina. La stessa droga può avere rappresentazioni completamente diverse nel discorso pubblico.
La “guerra alla droga” cercava di raggruppare tutte le sostanze in un unico cesto, la “Droga”, come qualcosa di cattivo, con il corollario che la dipendenza fosse un fallimento morale. Penso che stiamo gradualmente svuotando questo cesto e guardando alle sostanze una per una, nelle loro specificità. La cannabis, negli Stati Uniti, oggi è legale in 35 stati, in un maniera o nell’altra. E guarda un po’, il cielo non è caduto. Molte persone della mia età o più anziane usano cannabis per dormire, per alleviare i dolori, o anche solo per piacere. La cannabis sta trovando il suo posto nella società, come l’alcol, essendo peraltro una droga molto più sicura dell’alcol.
E adesso sta cambiando l’immagine degli psichedelici. Potrebbe succedere anche con altre sostanze, o potremmo decidere che alcune di esse siano realmente pericolose e richiedano un trattamento diverso. Credo che stiamo entrando in un’epoca in cui ogni droga verrà considerata singolarmente, valutandone rischi e opportunità, come qualsiasi strumento. Perché le droghe sono proprio questo, uno strumento, e come per ogni strumento il contesto in cui viene utilizzato conta moltissimo. Gli oppioidi per esempio: adesso li vediamo come la droga più cattiva e pericolosa, un’epidemia di dipendenza da oppioidi ha ucciso più di centomila americani. Ma gli oppioidi sono anche strumenti potentissimi per aiutare le persone che soffrono, o che devono subire delle operazioni chirurgiche, o che devono affrontare gli ultimi giorni di vita.
Penso che gli antichi greci capissero le droghe meglio di noi: la parola che usavano per definire la droga, “pharmakon”, significava allo stesso tempo veleno e medicina. È molto difficile dare spazio nella nostra mente a due concetti contraddittori, ma dobbiamo imparare a farlo, dobbiamo capire che queste sostanze possono mettere le persone in difficoltà ma possono anche fare cose molto positive. Spero che Piante che cambiano la mente possa contribuire a sviluppare questo dibattito, in modo simile a come Come cambiare la tua mente ha contribuito a modificare la percezione degli psichedelici.
Ma perché proprio gli psichedelici sono così al centro dell’attenzione, del discorso sulle droghe, e non per esempio appunto gli oppiodi che stanno facendo tanti danni?
Una delle ragioni credo sia che ci troviamo in mezzo a una crisi di salute mentale, non solo negli Stati Uniti. Altissimi tassi di depressione, ansia, suicidi, mentre il campo della psichiatria, le cure per la salute mentale, hanno molti pochi strumenti davvero utili. Se parli con gli psichiatri ti diranno che gli antidepressivi non funzionano bene, che molti psicofarmaci hanno numerosi e pessimi effetti collaterali come l’annebbiamento mentale, la perdita di libido, ecc. Quindi tutti sono molto motivati a cercare nuovi strumenti, e le ricerche sugli psichedelici mostrano potenzialità notevoli per combattere depressione, ansia, dipendenze. Siamo disperati, abbiamo urgente bisogno di strumenti nuovi per affrontare una crisi pubblica di salute mentale, e questo spinge a cercare cure alternative. Abbiamo già forti evidenze che l’MDMA sia utile nel curare i traumi, evidenze ancora preliminari ma forti che la psilocibina sia utile per la depressione e le dipendenze, si sta provando a vedere se possa funzionare con i disturbi alimentari, anoressia e bulimia, che sono molto difficili da curare.
Secondo lei, il fatto che la ricerca su LSD sia molto meno sviluppata di quella sulla psilocibina dipende dalla sua reputazione, dal fatto che in passato abbia fatto così paura?
Sì, penso che l’LSD funzionerebbe quanto la psilocibina, e già negli anni Cinquanta le prime ricerche avevano mostrato che poteva essere molto efficace nel trattamento dell’alcolismo. Stanno iniziando alcuni esperimenti, ma la ragione per cui si fa poca ricerca intorno a questa sostanza è sicuramente la cattiva reputazione che ha avuto negli anni sessanta. Inoltre molti non sanno cosa sia la psilocibina, mentre LSD è una parola che catalizza un sacco di attenzione negativa, sebbene le due molecole lavorino in maniera simile. Un altro aspetto per cui si studia poco l’LSD è che il viaggio dura molto più a lungo di quello da psilocibina, fino a dieci, dodici ore, e questo è una tempo molto impegnativo per dei terapisti che devono sedere in una stanza e curare il paziente. Non è pratico, mentre la psilocibina solitamente non dura più di sei ore.
Ma la lunghezza è proprio la ragione per cui l’esperienza è così intensa e forse anche curativa.
Sì, serve tempo. Non credo che tu possa ottenere un vera terapia psichedelica con un viaggio di dieci minuti, hai bisogno di tutto l’arco, di tutta la traiettoria, serve una dimensione narrativa, credo, una storia. Le persone sperimentano con la DMT o 5-MEO-DMT, che durano solo pochi minuti, e questo può avere qualche effetto ma non permette quella profonda esplorazione interiore che richiede una lunga parabola e passa attraverso diverse fasi. Credo che la psilocibina offra un’onesta via di mezzo tra il frettoloso “businessman-trip”, come si dice della DMT, e il trip psicanalitico dell’LSD o della mescalina. La mescalina dura anche più a lungo dell’LSD.
Anche sulla mescalina non c’è molta ricerca in effetti.
È vero. C’è una società che sta lavorando sulla mescalina per trattare l’alcolismo, come fanno i nativi americani con un certo successo. Penso che la mescalina abbia un forte potenziale come droga terapeutica ma di nuovo, la durata del viaggio la rende poco pratica. Ci sono anche diverse ricerche su come accorciare la durata dell’effetto dell’LSD o della stessa mescalina, stanno lavorando per produrre dei viaggi di quattro ore, ma sono ricerche ancora in fase iniziale.
Ho il timore, a tratti, che la tecnocrazia s’impadronisca di queste sostanze, soprattutto in ambito terapeutico. Accorciandone le durate, modificandone gli effetti in funzione di certi scopi, architettando in maniera ingegneristica la loro funzione neurologica, non si rischia di trasformare queste sostanze in psicofarmaci come gli altri? A volte immagino una società distopica alla Huxley in cui la psichedelia viene usata come strumento di controllo sociale. Non so se capita anche a lei.
Penso che gli psichedelici abbiano molti usi anche fuori dalla terapia, possono aiutare persone che non hanno problemi di salute mentale. Abbiamo parlato di medicina ma la gente li usa anche per scopi spirituali e religiosi, lo hanno fatto per almeno seimila anni. Quindi limitarli all’ambito medico penso che sia un errore, ed è una delle ragioni per cui ho scritto della mescalina nel nuovo libro. Come cambiare la tua mente si confrontava con la scienza e la medicina, sostanzialmente. Nella nostra cultura la scienza è il più prestigioso sistema di accreditamento della verità. Io non penso che dovrebbe essere così, ma così è: se vuoi cambiare il modo in cui la gente pensa agli psichedelici devi portare i risultati delle ricerche scientifiche. Ma so bene che esistono altri lessici, altri quadri mentali entro cui considerare gli psichedelici, e la religione è uno di questi. In questo contesto di solito si parla di “enteogeni”. Le culture tradizionali li hanno usati per millenni come sacramenti, come un modo per entrare in contatto col divino, e agire ispirati dal divino, perciò ho voluto scrivere del peyote e dei nativi americani. Quello liturgico e religioso è un approccio completamente diverso rispetto a quello terapeutico, e altrettanto legittimo. Ma ci sono anche molte persone che usano gli psichedelici per la creatività, per ragioni artistiche, o per l’autoesplorazione. L’uso che ne ho fatto io, per esempio, era per soddisfare una curiosità sulla mia mente e su queste sostanze.
C’è un rischio che la medicalizzazione possa dominare? Io non credo perché queste droghe sono molto difficili da controllare. Stanno cercando di modellare la psilocibina, ma non lo puoi fare, la psilocibina è ovunque, ed è molto facile da coltivare. Esisteranno sempre laboratori artigianali che produrranno DMT e MDMA. Quindi accanto all’universo medico penso che quest’altro mondo continuerà a esistere. In particolare penso che l’uso religioso diventerà ancora più importante: in questo momento in America si stanno formando nuove chiese che utilizzano la psilocibina o l’LSD come sacramento, e chi può affermare che non siano vere chiese? Si riceve il sacramento e si hanno esperienze spirituali in un contesto di gruppo, all’interno di un’istituzione. Starà alla nostra corte suprema decidere, perché negli Stati Uniti il primo emendamento garantisce non soltanto la libertà di parola ma anche quella di culto.
Nel capitolo sul peyote mi ha colpito come i nativi americani rifiutino completamente qualsiasi pianta che non sia nata spontaneamente, per non parlare di altre forme del principio attivo, come la mescalina in cristalli. E come queste piante spontanee siano in effetti sempre più difficili da trovare.
Per loro essendo una pianta sacra dev’essere un dono di Dio, dev’essere selvatica, e non dovrebbe essere sintetizzata. Ma non significa che altre persona non possano coltivarla o sintetizzarla. Credo che anche i nativi americani non avrebbero nulla in contrario. Loro ci dicono che il peyote selvatico è in pericolo a causa dello sviluppo industriale e del bracconaggio e lo vogliono proteggere, è per questo che ho preso la decisione di non farne uso, perché abbiamo già preso troppo dai nativi d’America. Per loro è un bene prezioso, li ha aiutati a sopravvivere nella fase del genocidio, e continua ad aiutarli. Penso che dovremmo rispettare il loro uso del peyote e lasciarli in pace. Ma non ho nulla da obiettare a chi lo coltiva: è molto difficile da crescere, ci vogliono almeno dieci anni se parti dal seme, ma esiste un altro cactus, come racconto nel libro, chiamato Sanpedro, che invece cresce molto veloce. Mi sembra che ci siano valide alternative per non creare problemi ai nativi americani.
Mi domando se la rinascente spiritualità psichedelica possa essere davvero paragonata a quella tradizionale. Set e setting (lo stato mentale e l’ambiente in cui si assumono sostanze psichedeliche) possono prendere il posto delle complesse costruzioni rituali delle culture tradizionali tradizionali? Non c’è il rischio di una religiosità on-demand, superficiale?
È una buona domanda. Penso che molte persone troveranno rituali in cui utilizzare queste sostanze, e probabilmente alcuni saranno profondi e pieni di significato e altri saranno stupidi e superficiali. Dipende. Alcune di queste nuove religioni potrebbero durare. La religione dell’ayahuasca in Brasile non è nuova, mi pare che sia iniziata nel 1962, coinvolge migliaia di persone, e non è superficiale. Come in ogni cosa ci saranno individui cinici e intenzionati a fare denaro e altri che prenderanno le cose molto seriamente, e creeranno qualcosa di davvero prezioso. Non si può generalizzare. Ma quello che si definisce “spiritual-bypass” è effettivamente un rischio. Huston Smith, un famoso storico della religione americano, si è occupato di questo aspetto: era molto interessato agli psichedelici e alla loro dimensione spirituale ma diceva che non si tratta di semplici stati mentali, che è molto facile raggiungere un determinato stato mentale ma quello che conta è il tuo carattere e quello che ne fai. Se vivi un’esperienza spirituale con gli psichedelici, quello che importa davvero è come la tua persona viene modificata da questa esperienza, cosa succede all’idea che hai di te stesso: agisce nella tua interiorità o è solo un’esperienza passeggera? Come usi la visione spirituale che hai ottenuto dalle sostanze: questo è il punto.
Credo fosse Michaux che se la prendeva con quelli che si esaltano delle visioni, delle allucinazioni, considerandole al contrario una cosa frivola.
Molte persone non hanno allucinazioni ma solo profondi processi interiori. Esami interiori, o riflessioni sui rapporti con altre persone. Set e setting sono importanti perché determinano fortemente il tipo di esperienza che le persone avranno, e anche il fatto se saranno esperienze più o meno significative. Molti teenager usano gli psichedelici e spesso non hanno aspettative spirituali, per loro è come un film, qualcosa di visivamente potente, eccitante, e quando finisce non parlano di Dio ma di un’esperienza di droga allo stato brado, per così dire. Anche questo è un contesto. Penso che se fossero in qualche modo preparati a quel che succede descriverebbero in maniera diversa il senso di quello che vedono. Noi adulti, dal momento in cui ci hanno insegnato il significato storico e spirituale di queste sostanze, siamo più portati ad avere quel genere di esperienza, un’esperienza profonda e significativa e non solo elettrizzante, non solo allucinante. Una delle cose davvero uniche degli psichedelici è che gli effetti sono talmente variabili: due persone qualsiasi che prendono la stessa droga nello stesso dosaggio avranno due esperienze completamente diverse. Questo non succede con la cocaina, l’oppio, o anche con la cannabis, che hanno effetti molto prevedibili. Il contesto è tutto.
Parlando di giovani mi viene in mente che in Come cambiare la tua mente la dimensione più giovanile e controculturale del consumo di psichedelici, che pure è stata storicamente importante, è abbastanza messa nell’ombra.
C’è un capitolo dove parlo della controcultura attraverso Timothy Leary, Ken Kesey, e Aldous Huxley. Penso che gli psichedelici siano stati una forza importante nel modellare la controcultura, non l’unica: c’era la guerra del Vietnam, la baby boom generation, molti fattori. Ma il fatto che la controcultura abbia cercato di elaborare un proprio stile, modi di vestire, modi di fare e di vivere, quello che chiamiamo il gap generazionale, cioè il fatto che i giovani volessero essere diversi dai genitori, pensare di testa loro e staccarsi dalla cultura ufficiale, in tutto questo l’LSD credo abbia avuto un ruolo importante. L’LSD è diventato un rito di passaggio, ma un rito di passaggio inusuale. Tipicamente nelle società tradizionali, come spiega l’antropologia, il rito di passaggio è il modo in cui i giovani vengono condotti nella società degli adulti attraverso una sorta di prova o di processo rituale, molto impegnativo a volte, che si conclude con il gli adulti che accolgono l’iniziato. Che si tratti di un bar mitzvah o della ricerca di una visione, poco importa.
Il viaggio acido divenne un rito di passaggio per i giovani degli anni Sessanta, ma non era un rito organizzato dagli adulti, dai più anziani, dall’establishment. Era organizzato dai ragazzi stessi, erano loro a decidere come dovesse svolgersi questo passaggio, e alla fine di tutto si ritrovarono in un luogo molto diverso da quella che era stata la precedente società degli adulti. Si ritrovarono a mettere in discussione quel mondo e, per esempio, molti decisero che non sarebbero partiti in Vietnam, rifiutando di combattere. È stata una cosa nuova, senza precedenti. Nel corso della storia quando si diceva a una diciottenne di partire in guerra, lui partiva senza fare obiezioni. Ma è stato un bene.
Ho un’opinione molto positiva di quello che è successo in quel periodo. Sai, ci sono molti punti di vista, molta gente pensa che la controcultura sia stata una cosa orribile, ma secondo me ha prodotto dei cambiamenti importanti negli Stati Uniti, non soltanto il movimento pacifista, ma anche quello ambientalista, quello femminista, la difesa dei diritti civili. Tutto questo ha indotto le persone, in quegli anni, a mettere in discussione idee precostituite e sbagliate. L’LSD e la psilocibina hanno contribuito, hanno spinto a pensare autonomamente ed è per questo che sono state messe sotto accusa.
È anche una delle ragioni per cui la chiesa cattolica ha represso l’uso di psichedelici nel nuovo mondo, soprattutto in Messico, dove si usava la psilocibina per incontrare Dio, mentre nella chiesa cattolica la relazione con Dio era mediata dal prete e nell’eucarestia si consumava un simbolo di Dio, non Dio stesso. Il sacramento dei nativi d’America era molto più potente al confronto e i cattolici, avendolo capito, lo hanno considerato una minaccia. C’era qualcosa di destabilizzante nell’uso degli psichedelici: metteva in crisi l’autorità permettendo a ognuno di avere una relazione diretta con il divino.
Questo potere destabilizzante è qualcosa che dovrebbe essere conservato anche nella nuova ondata psichedelica credo.
Sì lo penso anch’io, ma molti dissentirebbero. Sai se sei un sacerdote, un burocrate all’interno di una chiesa costituita, potresti non essere d’accordo.
Lei insegna scrittura a Harvard e in passato lo faceva e Berkley, quindi vorrei farle un paio di domande sulla sua, diciamo, poetica. Un tratto importante dei suoi libri è il coinvolgimento diretto dell’autore, dell’io dell’autore, il quale trasmette una certa immagine di “sincerità”. Quello che mi interesserebbe capire è come questa trasparenza, questa sincerità, venga prodotta attraverso un’opera che in fondo è sempre costruita, non un semplice specchio del mondo, e neanche dell’io, ma in un certo senso una fiction.
La mia scrittura ha una relazione diversa con la realtà rispetto alla fiction. Io sono per prima cosa un giornalista, quindi il fatto che tutto ciò che scrivo sia davvero successo è importante. Ma la narrazione, cioè inserire tutto questo all’interno di una storia, è fondamentale, ed è sempre un processo di selezione: lasci fuori qualcosa, enfatizzi qualcos’altro. Ai miei studenti dico che l’esagerazione è parte del mestiere, noi rileviamo alcune cose, le accentuiamo, ne attenuiamo altre, ma questo non significa un tradimento della nostra fede nei fatti.
La storia dunque è importante, e in particolare io cerco sempre di infilarmi all’interno della storia. Quando ho scritto dell’industria del bestiame, ne Il dilemma dell’onnivoro, ho comprato una mucca e l’ho seguita lungo tutto il processo, quando ho scritto di cucina, ho imparato la panificazione, insomma mi piace molto diventare un personaggio della storia che scrivo, soprattutto quando si tratta di qualcosa che non ho mai fatto prima, che faccio per la prima volta. Quando fai una cosa per la prima volta c’è sempre una sorta di stupore, di genuinità dello sguardo, di freschezza. In questo senso è stata un’ottima cosa che non avessi provato psichedelici prima di scriverne nei miei libri, perché ho potuto scriverne con quella forza, con quel potere della prima volta, che capita solo una volta.
Cosa viene prima, l’esperienza in sé o l’esperienza per la scrittura del libro?
Quella per il libro, assolutamente. M’infilo apposta nelle situazioni. Lo chiamano “giornalismo immersivo” o “partecipativo”. Quando penso a una storia la prima cosa che mi domando è: cosa posso fare per creare la narrazione che sto cercando, come posso infilarmi dentro questa storia in un modo che sia utile. Ci sono molte cose che non farei mai tranne che per scriverci un libro, per vedere ciò che voglio vedere, e per trascinare il lettore. Mi interessa molto portare il lettore dove voglio andare, invece di fargli una lezione, o dirgli semplicemente quello che sta accadendo. Nella prima pagina sono sempre molto naif, come una specie di idiota, ho molte domande, non ho risposte.
Finge di essere naif…
Sì, fingo in effetti, perché quando mi metto a scrivere la prima pagina di solito so già molto, e tengo per me certe cose. È la natura dello storytelling, o anche del raccontare barzellette: quando racconti una barzelletta non inizi dalla battuta finale. L’autore sa sempre dove sta andando ma non te lo dice a pagina uno. Sono tecniche che si imparano dalla fiction ma sono convinto che possano essere usate proficuamente anche in un contesto di non fiction.
Un altro aspetto, direi speculare all’autobiografismo, è che oltre a lei stesso nei suoi libri ci sono molte altre persone. Il personaggio dell’autore incontra sempre molta gente. È come se cercasse varie prospettive, un modo di costruire una specie di pluralismo all’interno del testo.
Sì, non voglio che il libro sia tutto su di me. Le persone che incontro sono per lo più i miei maestri, quelli da cui di solito imparo qualcosa. Due miei libri hanno come sottotitolo la parola educazione: “l’educazione di un costruttore amatoriale” era il sottotitolo del mio secondo libro, e “l’educazione di una giardiniere” era quello del primo. Io vedo tutti i miei libri come una forma di educazione: sto imparando qualcosa che non so, e condivido questo percorso con te. Non mi piace scrivere da esperto. Quando divento esperto vuol dire che è arrivato il momento di spostarmi su un altro argomento. Mi piace molto invece scrivere da una posizione d’ignoranza, e mettere in scena questo viaggio, questo percorso: il processo di apprendimento. È il modo in cui affronto la scrittura, e in cui insegno ad affrontarla ai miei studenti. Penso che il lettore preferisca essere coinvolto in un viaggio piuttosto che essere indottrinato. E se fai il confronto con il modo in cui scrivono gli accademici, o con il modo in cui ti viene insegnato a scrivere quando fai un dottorato, è l’esatto contrario: alla prima pagina sai già le conclusioni, letteralmente includi le conclusioni nell’abstract. Che cosa assurda! Chi continuerà a leggere? Io credo che la gente preferisca di gran lunga sentirsi raccontare una storia, ed è molto più divertente da scrivere!
Con le sue storie, lei in effetti riesce ad avere un impatto impressionante. Almeno due dei suoi libri, Il dilemma dell’onnivoro e Come cambiare la tua mente, hanno davvero prodotto un grosso dibattito a livello internazionale.
Sì, è pazzesco. C’è stato qualcosa nella tempestività di quei due libri, nel modo in cui hanno toccato la cultura in un dato momento, in un dato modo… Mi considero molto fortunato. Non credo che capiti spesso, e in ambiti così diversi! E qualcosa che mi ha davvero colpito. Avevo un mentore, quando ero giovane, un editore, lavoravamo insieme a una rivista che non c’è più, che è fallita, e la sua teoria era che quella rivista non aveva funzionato perché guardava troppo avanti nel tempo. Era una pubblicazione visionaria sulle tecnologie, sulla convergenza tra tv, satelliti, cablature e personal computer, e su come questo avrebbe cambiato completamente il paesaggio mediatico. Non era una mia idea, io lavoravo per qualcuno che era effettivamente un visionario, e questo amico mi disse “sai, nel giornalismo puoi essere solo un visionario a breve termine, se vai troppo avanti nessuno capirà di cosa stai parlando”. Ecco, se sono qualcosa, forse sono un visionario di corto raggio, uno che sa buttare l’occhio dietro l’angolo.
E allora cosa c’è dietro al prossimo angolo?
Sto lavorando a un libro sulla coscienza. Sto cercando di entrare dentro questo argomento davvero complicato, la scienza e la filosofia della coscienza. È qualcosa a cui mi hanno fatto pensare gli psichedelici: spesso un libro conduce al successivo, mi imbatto in qualcosa che mi rende curioso, domande a cui non sono capace di rispondere. E mi metto al lavoro.