A fine Ottocento fece furore in tutta Europa un animale dalle capacità prodigiose. Si chiamava Hans ed era un cavallo di razza Orlov. Secondo il barone Wilhelm von Osten, suo proprietario, era in grado di sommare, sottrarre, moltiplicare, dividere e lavorare con le frazioni – oltre a seguire il calendario, distinguere i toni musicali e leggere e capire il tedesco. Il maestro scriveva su una lavagna un conto e il cavallo lo eseguiva, battendo con lo zoccolo la risposta corretta; dopo un lungo addestramento, l’animale sembrava in grado di risolvere anche problemi con frazioni e radici quadrate, facendo errori solo nel 10% dei casi.
Il mondo scientifico dell’epoca era però scettico. Una prima inchiesta nel 1904 concluse che non c’erano trucchi di sorta, ma nel 1907 lo psicologo Oskar Pfungst sottopose il cavallo a una serie di nuovi test e dimostrò che Hans non sapeva nulla di matematica ma si limitava a osservare le reazioni degli interlocutori. L’animale infatti rispondeva a segnali involontari del linguaggio del corpo di chi gli stava accanto, emessi quando i colpi di zoccolo erano pari alla risposta giusta.
Dunque gli animali – o perlomeno i cavalli – non sanno far di conto? Non proprio. Grazie alle ricerche sui corvi di Otto Koehler (uno dei pionieri dell’etologia) negli anni Trenta, passando per gli esperimenti di Mechner, Platt e Johnson sui ratti negli anni Sessanta fino alle più recenti scoperte, oggi sappiamo che molti animali prestano attenzione alle quantità numeriche e sanno elaborarle. L’aritmetica è una facoltà molto diffusa, anche perché procura un ovvio vantaggio selettivo: per esempio, l’animale che capisce la differenza tra un ramo che contiene due frutti e un altro che ne ha tre ha più possibilità di alimentarsi con efficienza.
I ratti degli esperimenti sembrano mostrare una comprensione del concetto di numero indipendente dallo stimolo: sono in grado di collegare due movimenti, due oggetti e due suoni allo stesso fenomeno sottostante, contando eventi sensoriali di vario tipo come manifestazioni della stessa quantità numerica. Anche le scimmie sono state oggetto negli ultimi decenni di numerosi studi; si è dimostrato, per esempio, che gli scimpanzé sono capaci di capire e sommare le cifre dei numeri arabi da 1 a 4, che i macachi rhesus sono in grado di sommare i punti luminosi presentati sullo schermo di un computer e che il calcolo simbolico, almeno nelle sue forme basilari, è alla loro portata. Il gruppo di Margaret Livingstone, in particolare, ha addestrato dei macachi adulti a ottenere la quantità massima di succo di frutta in risposta a operazioni compiute su vari simboli presentati su uno schermo, verificando che gli animali imparavano a combinare i numeri in modo ottimale anche dopo aver cambiato il set di simboli; sembra dunque che le scimmie non abbiano appreso in modo mnemonico le associazioni più convenienti, ma le abbiano calcolate di volta in volta.
Il bernoccolo della matematica
Esiste un talento specifico per i numeri e per la matematica in genere? La stragrande maggioranza di noi risponderebbe di sì: basta osservare le forti differenze nella riuscita scolastica in questa materia, che suscita in alcuni un senso di inadeguatezza ai confini con il panico. Le differenze individuali esistono, ma come giustificarle?
Un celebre tentativo di spiegare l’attitudine alla matematica fu quello della frenologia (dal greco “dottrina della mente”), o organologia, come preferiva chiamarla il suo inventore, il medico tedesco Franz Joseph Gall (1758-1828). Questa teoria partiva da un’intuizione in fondo giusta, cioè dal fatto che le funzioni psichiche dipendessero da precise zone del cervello, e la portava a conseguenze estreme: sosteneva infatti che le particolarità morfologiche del cranio di un individuo, come solchi, depressioni e bozzi, riflettessero le sue qualità intellettuali e la sua personalità. Il “bernoccolo della matematica”, che contraddistingue i più dotati per questa materia, si situava in particolare nelle regioni frontali.
Oggi la frenologia è ovviamente screditata, ma non si è placata l’ansia di capire se effettivamente esistano segni fisiologici che siano indizi di predisposizione (si pensi per esempio agli studi condotti sul cervello di Einstein, conservato in formalina dal 1955). Nessuna ricerca ha fornito risultati convincenti, anche perché ci si scontra con un problema metodologico di fondo: può darsi che un individuo dotato abbia ricevuto per via ereditaria un cervello che lo renda incline alla matematica, ma può anche essere vero il contrario, cioé che il suo concentrarsi fin dall’infanzia su problemi numerici abbia modificato l’organizzazione funzionale del suo cervello.
Torniamo dunque alla domanda iniziale: il talento è ereditato o appreso? Esistono davvero individui predisposti o tutti, con un’opportuna istruzione, possiamo diventare bravi matematici? Un recente studio di Ariel Starr e colleghi ha spostato la questione sul senso della numerosità, ovvero quella capacità innata presente, come abbiamo visto, anche negli animali, che permette di valutare a colpo d’occhio che sei palline, per esempio, sono più di tre. I ricercatori hanno studiato un gruppo di bambini di sei mesi e ne hanno misurato, secondo un metodo standard, il senso pre-verbale del numero. A distanza di tre anni hanno sottoposto lo stesso gruppo a nuovi test per valutare varie capacità numerico-simboliche. I risultati sembrano mostrare una correlazione: i bimbi più dotati a sei mesi hanno maggiore padronanza e capacità di manipolazione dei numeri a tre anni, indipendentemente dal livello di intelligenza generale. Ma ci sono anche ricercatori che contestano queste conclusioni.
Anche le differenze di genere sono un campo ambiguo che non risolve appieno la dicotomia talento/educazione. È indubbio che la matematica di alto livello sia, ancora oggi, un mondo molto maschile. Le matematiche passate alla storia sono poche – le più famose sono Ipazia (370-415), Maria Gaetana Agnesi (1718-1799), Sophie Germain (1776-1831), Sofi a Kovaleskaja (1850-1891), Emmy Noether (1882-1935) e Maryam Mirzakhani (1977-2017), che nel 2014 è stata insignita della Medaglia Fields, prima e unica donna a ottenere questo onore. Non c’è dubbio che la pressione sociale e parecchi fattori di ordine psicologico abbiano un ruolo preponderante in questa disparità, che è evidente a livello di élite ma meno se prendiamo, a titolo di esempio, i risultati medi degli studenti nelle prove di valutazione come i test PISA o SAT. Il sospetto, difficile da provare, è che il condizionamento culturale prevalga su ogni altro fattore. È invece assodato, anche se il senso biologico-evolutivo di questi dati è tutto da capire, che i talenti numerici sono mancini, miopi e primogeniti in misura molto maggiore rispetto al resto della popolazione. Nessuna correlazione è invece stata trovata tra riuscita matematica e gruppi etnici: il particolare successo, per esempio, di alcune nazioni asiatiche è probabilmente da ascrivere al sistema educativo e alle pressioni parentali e sociali.
Un estratto da Numeri, tutto quello che conta da zero a infinito (codice Edizioni, 2017).