U no dei predatori più temuti dall’afide verde del pisello (Acyrthosiphon pisum), un piccolo insetto che vive su diverse leguminose, tra cui proprio la pianta dei piselli, è la vespa parassitoide. La migliore difesa che l’afide può mettere in campo contro di essa è un altro organismo, che vive (come endosimbionte) all’interno del corpo dell’afide stesso: si tratta del batterio Hamiltonella, che è però in grado di fornire al suo ospite l’immunità solo qualora, a propria volta, sia già entrato in contatto con un virus batteriofago incorporandolo nel proprio genoma batterico. Si tratta di un’incredibile strategia di difesa multispecie, in cui tre diversi organismi – un virus, un batterio e un insetto – collaborano sinergisticamente per scongiurare l’eventualità che il predatore abbia la meglio. Tutti questi organismi, in altri termini, stanno contribuendo in maniera indiretta alla propria sopravvivenza, facendo in modo che l’ospite – dal quale dipende la vita del batterio, e dunque anche quella del batteriofago – non soccomba.
Spostiamoci nelle profondità marine. Di notte, nelle acque poco profonde di alcuni mari tropicali, si aggira un piccolissimo cefalopode, lungo appena cinque centimetri: si tratta di Euprymna scolopes, conosciuta anche come calamaro delle Hawaii, nota per aver sviluppato un fantasioso meccanismo di difesa: per evitare che, nelle notti di luna, la propria ombra si rifletta sul fondo del mare, rivelando così la sua presenza, questo piccolo mollusco emette luce dalla parte inferiore del corpo, imitando la luce lunare e ingannando, in tal modo, i predatori. Questa singolare astuzia evolutiva è, ancora una volta, il frutto di una collaborazione multispecie: a rendere possibile la bioluminescenza di Euprymna scolopes è infatti un batterio, Vibrio fischeri.
Pioniera assoluta degli studi relativi alla simbiosi e all’endosimbiosi è stata la visionaria e controversa microbiologa statunitense Lynn Margulis, che riconobbe ed evidenziò l’importanza evolutiva di questi fenomeni già negli anni Settanta dello scorso secolo.
A differenza di quanto accade tra l’afide e Hamiltonella, la relazione che lega cefalopode e batterio luminoso non è un’endosimbiosi: il calamaro delle Hawaii, infatti, non ospita fin dalla nascita Vibrio fischeri, ma ne accoglie alcuni esemplari al proprio interno durante le prime fasi dello sviluppo. Come in ogni simbiosi mutualistica che si rispetti, anche in questo caso il beneficio è garantito per entrambe le parti: grazie al batterio, il mollusco in formazione può “costruire” un organo bioluminescente che lo proteggerà dai predatori, aumentando la sua fitness (cioè, il successo riproduttivo differenziale in un determinato ambiente); allo stesso tempo, all’interno del corpo del mollusco, al batterio è garantito un ambiente sicuro, nel quale può prosperare senza rischi.
Il mollusco E. scolopes e l’afide A. pisum sono solo due esempi di un fenomeno che, come gli scienziati stanno scoprendo solo negli ultimi anni, è estremamente diffuso in natura, e ha profonde implicazioni evolutive. La simbiosi, nelle sue diverse forme e declinazioni, consiste nella convivenza e coevoluzione tra organismi appartenenti a specie (spesso famiglie, ordini o addirittura regni) differenti. Può realizzarsi sotto forma di parassitismo (come nel caso dell’afide e della pianta di pisello) oppure di mutualismo (è quanto accade tra il mollusco hawaiiano e il suo batterio bioluminescente); in alcuni casi, la simbiosi è così radicata da trasformarsi in endosimbiosi (letteralmente, dal greco, “vivere dentro”), ovvero nella dimora permanente di una cellula all’interno di un’altra cellula: è da questo processo di progressiva unione simbiotica tra alcuni batteri e alcuni archea che hanno avuto origine, con ogni probabilità, le prime cellule eucariotiche.
Pioniera assoluta degli studi relativi alla simbiosi e all’endosimbiosi è stata la visionaria e controversa microbiologa statunitense Lynn Margulis, che riconobbe ed evidenziò l’importanza evolutiva di questi fenomeni già negli anni Settanta dello scorso secolo. Le sue teorie furono a lungo giudicate dalla comunità scientifica con grande scetticismo, persino con scherno. A quel tempo, infatti, dominava incontrastato nella biologia evoluzionistica il paradigma teorico della Sintesi Moderna, una nuova comprensione dei meccanismi dell’evoluzione darwiniana nata dalla scoperta del ruolo centrale svolto dalla genetica nella trasmissione dei tratti di variabilità sui quali la selezione naturale si esercita.
La spiegazione darwiniana dell’evoluzione, primariamente incentrata sulla selezione naturale (il meccanismo che “seleziona”, appunto, i tratti fenotipici che favoriscono, in un determinato contesto ambientale, la sopravvivenza e il successo riproduttivo dell’individuo, e porta così alla loro diffusione nella popolazione), si era presto rivelata insufficiente per spiegare l’emersione di nuove forme viventi. La (ri)scoperta degli studi mendeliani, a inizio Novecento, offrì la soluzione a questo rompicapo: furono genetisti come Ronald Fisher e Sewall Wright tra i primi a suggerire che il gene fosse l’unità minima di selezione, la cui variabilità – trasmessa ereditariamente di generazione in generazione – era all’origine del fenomeno evolutivo osservabile non solo nell’individuo, ma anche in intere popolazioni.
Negli anni, grazie a nuove scoperte e ulteriori conferme, l’approccio genetico si rinsaldò, andando a formare il nucleo centrale del “neodarwinismo”. Nella seconda metà del secolo, questa prospettiva si affermò come interpretazione prevalente dell’evoluzione: fino a poco tempo fa, a dominare il dibattito nella biologia evoluzionistica erano concetti come la genetica di popolazione, l’individuo (o addirittura, secondo alcuni, il singolo gene) come unità minima della selezione naturale, la competizione tra entità autonome e ben differenziate come meccanismo primario del cambiamento evolutivo – il tutto interamente misurabile attraverso modelli matematici.
La visione propugnata da Margulis si poneva in netto contrasto con questa narrazione. La vita si basa sulla cooperazione, scriveva la biologa, piuttosto che sulla competizione: dallo sviluppo individuale (ontogenesi) fino ai fenomeni macroevolutivi come la speciazione, tutto dipende in primo luogo da una pacifica collaborazione tra viventi, che si realizza spesso sotto forma di unioni simbiotiche.
Tale proposta, sebbene scientificamente solida e molto esplicativa, era inaccettabile per la teoria dominante: un suo riconoscimento, anche solo parziale, avrebbe messo in discussione troppi dei suoi capisaldi. Ma uno dei meriti di Margulis, dotata di grande caparbietà e conscia della validità delle proprie ipotesi, fu proprio questo: aprire una crepa nel muro di certezze su cui poggiava l’evoluzionismo “gene-centrico” novecentesco, creare le condizioni per l’avvio di un dibattito sui fondamenti teorici di questo campo della ricerca scientifica.
In tal modo, insomma, veniva per la prima volta messa in dubbio l’effettiva oggettività della descrizione del mondo naturale costruita, a partire dal nucleo esplicativo darwiniano, dalla Sintesi Moderna della biologia evoluzionistica. Una volta riconosciuto che processi quali la competizione, l’individualismo, la lotta hanno un’importanza tutto sommato secondaria in natura rispetto a processi come la cooperazione multilivello e la simbiosi, diviene infatti evidente come quella narrazione sia figlia di una specifica Weltanschaaung, la stessa che ha portato, quasi parallelamente, all’emersione del capitalismo. L’operazione teorica di Margulis e dei (pochi) studiosi che, in quegli anni, iniziavano a mettere in discussione gli assunti principali della Sintesi Moderna consisteva, perciò, anche nell’allontanamento (seppur parziale) da uno dei punti nodali della visione darwiniana: la descrizione della natura incentrata sul principio di selezione naturale, il quale agisce in risposta alle necessità che emergono da un preciso contesto ecologico – quello della lotta per l’esistenza (struggle for existence) – e che il naturalista inglese aveva elaborato a partire dalle analisi malthusiane sul contrasto tra gli alti tassi di fecondità delle popolazioni naturali e l’insuperabile scarsità delle risorse disponibili.
Processi quali la competizione, l’individualismo, la lotta hanno un’importanza tutto sommato secondaria in natura rispetto a processi come la cooperazione multilivello e la simbiosi.
Proprio grazie all’avanguardistico lavoro di Margulis e degli scienziati che, nei decenni successivi, seguirono la sua suggestione di un altro modo di intendere il mondo naturale, la comprensione della fitta rete di relazioni collaborative che permea il mondo vivente ha compiuto nel tempo grandi progressi, rivelando che, proprio come ipotizzato dalla biologa statunitense, la cooperazione è un motore evolutivo fondamentale e operante ad ogni livello.
Oggi sono sempre più numerosi i ricercatori che abbracciano questa prospettiva, riconoscendo alla cooperazione un ruolo di primo piano nella storia della vita sulla Terra. I meccanismi collaborativi che muovono la vita sono indagati sempre più a fondo e, a poco a poco, emerge con chiarezza quanto la visione unicamente focalizzata su geni, selezione naturale e competizione fosse ristretta e parziale. Questo non significa – come sottolineano in un meraviglioso manuale Scott Gilbert e David Epel, due dei più importanti studiosi di una nuova branca dell’evoluzione, l’ecologia dello sviluppo o eco-evo-devo – che concetti come la competizione e la selezione naturale non siano più validi, o che debbano essere abbandonati. Essi mantengono, senz’altro, tutta la loro rilevanza teorica e pratica, ma devono essere inseriti all’interno di un più ampio quadro di fenomeni e processi che caratterizza il mondo dei viventi nella sua pluralità.
Un tale salto teorico è di grande importanza all’interno della dimensione biologica. Collocare il fenomeno della vita (ancora oggi per molti aspetti misterioso – ma questa è un’altra storia) in un’ottica non tanto competitiva, bensì cooperativa, e dare maggior peso alla dimensione ecologica, che studia le relazioni e le interdipendenze tra i viventi, significa, in una certa misura, aderire a un paradigma alternativo, valorizzando idee a lungo misconosciute. Un esempio emblematico è la teoria endosimbiotica di Margulis, che riconduceva l’origine delle forme di vita eucariotiche ad un antichissimo evento di simbiosi tra organismi unicellulari diversi (probabilmente un archea e un batterio). Rimasta a lungo minoritaria, tale teoria è stata ormai largamente accettata; per di più, ad essa bisogna riconoscere il merito di aver portato alla ribalta, nel dibattito biologico, il tema della simbiosi come fenomeno evolutivo.
Oggi si ritiene che gli eventi di simbiosi siano estremamente diffusi tra i viventi, e che abbiano un ruolo fondamentale non soltanto nel mediare le interazioni tra individui adulti di specie diverse, ma persino nel rendere possibile e nell’orientare i processi di sviluppo (si parla, a tal proposito, di “simbiosi dello sviluppo”). Ciò porta ad un’interpretazione fortemente innovativa del mondo dei viventi: come afferma la stessa Margulis nel volume divulgativo Symbiotic Planet, “Noi siamo simbionti all’interno di un pianeta simbiotico e, se facciamo attenzione, possiamo trovare simbiosi ovunque. Il contatto fisico è un requisito imprescindibile per moltissime forme di vita”.
Tornando per un attimo ai processi di sviluppo – quel lasso temporale tra il concepimento di un nuovo organismo e il raggiungimento della forma adulta – risulta evidente come, alla luce della simbiosi, anche la loro comprensione venga completamente capovolta: se organismi anche estremamente diversi tra loro (come un cefalopode e un batterio, per esempio) sono strettamente dipendenti l’uno dall’altro fin dai primi momenti della vita, se dunque la coevoluzione è uno dei principali modi in cui lo stesso processo evolutivo si svolge, la Sintesi Moderna subisce un duro colpo. La competizione, in quest’ottica, diviene un fenomeno secondario, che si realizza in un contesto generalmente cooperativo; la descrizione del ruolo dell’individuo (o del gene, per chi ritiene che questa sia l’unità minima della selezione naturale) come attore principale dell’evoluzione appare meno realistica, poiché incapace di cogliere a pieno la complessità dei fattori in gioco, tra cui l’interazione tra individui e tra specie diverse, nonché l’interazione tra questi e l’ambiente esterno, il quale viene a sua volta riconosciuto come un ulteriore, potenziale fattore di trasformazione evolutiva.
Un simile mutamento di prospettiva è gravido, inoltre, anche di implicazioni filosofiche, poiché ci impone di ripensare il modo in cui comprendiamo il mondo intorno a noi, nonché di riesaminare la percezione che abbiamo di noi stessi. Applicando all’entità biologica Homo sapiens le più recenti scoperte mutuate dai campi della microbiologia, della biologia dello sviluppo, dell’ecologia e dell’ecologia dello sviluppo, molte delle nostre certezze vengono meno: ad esempio diventa molto più difficile, alla luce delle conoscenze provenienti da queste discipline, difendere la nostra (pretesa) autonomia e la nostra (supposta) individualità.
Nonostante la cultura moderna occidentale abbia obliato questa evidenza, anche noi umani siamo – esattamente come gli altri viventi – inseriti all’interno dei numerosi cerchi concentrici di cooperazione e competizione che formano il mondo naturale, e da questa rete di relazioni dipendiamo in modo essenziale. Proprio come gli altri esseri viventi, neanche noi sapiens siamo entità unitarie “senza porte né finestre”, come recita la celebre definizione leibniziana della monade: siamo piuttosto un crogiolo di incontri, scambi, relazioni pacifiche e contrasti, a cui la nostra stessa esistenza è legata.
Un simile mutamento di prospettiva è gravido anche di implicazioni filosofiche, poiché ci impone di ripensare il modo in cui comprendiamo il mondo intorno a noi, nonché di riesaminare la percezione che abbiamo di noi stessi.
Le evidenze della nostra partecipazione a questa densa rete di connessioni biologiche ed ecologiche sono intorno a noi e dentro di noi: pensiamo, ad esempio, ai cosiddetti “servizi ecosistemici”, le numerose funzioni basilari garantite dagli ecosistemi – decomposizione dei rifiuti, cattura delle emissioni carboniche, ciclo dell’acqua, impollinazione e moltissimi altri – che sono indispensabili alla sopravvivenza stessa delle società umane; oppure alla sovrapposizione, ormai ampiamente documentata, tra picchi di diversità biologica (i cosiddetti hotspot globali di biodiversità) e alti tassi di diversità culturale umana, a dimostrare la lunga storia di influenze reciproche tra la nostra ed altre specie inserite in contesti ecologici condivisi.
È, poi, opportuno ricordare che la Terra è dominata non certo da umani e grandi mammiferi, ma piuttosto da batteri e archea: sono loro che, con le loro attività metaboliche, mantengono in larga parte la funzionalità degli ecosistemi. E a dispetto dell’idea secondo la quale noi umani, in quanto morfologicamente più complessi, saremmo esseri “superiori” ed evolutivamente distanti dai microrganismi, abbiamo infine dovuto cedere all’evidenza della nostra assoluta subordinazione alla loro presenza non solo nell’ambiente ma fin dentro i nostri stessi corpi.
Si stima infatti che circa il 90% delle cellule che compongono il cosiddetto individuo umano siano batteriche; le specie “aliene” che ospitiamo nel nostro intestino, nelle mucose, sulla nostra pelle sono migliaia, appartenenti addirittura a regni diversi (siamo colonizzati da batteri, virus, acari, funghi…).
Non siamo monadi, allora, cioè individui nel senso classico (o meglio, moderno) del termine; siamo invece olobionti, comunità viventi composte dall’unione tra un organismo eucariotico e le numerose popolazioni di simbionti che vivono al suo interno in modo permanente. Come affermano ancora Gilbert ed Epel nel loro Eco-Devo. Ambiente e biologia dello sviluppo, “tutti gli animali possono di fatto essere considerati come olobionti, con simbionti che svolgono ruoli biologici rilevanti, ad esempio nello sviluppo, nella fisiologia, nel comportamento”.
Come se ciò non fosse già abbastanza straordinario, negli ultimi decenni si è appurato quanto questi esseri viventi siano fondamentali per il corretto espletamento di un’ampia gamma di funzioni vitali. Il microbiota intestinale, ad esempio, regola la salute dell’intero organismo, e un suo squilibrio può essere concausa di disfunzioni e malattie quali obesità, morbo di Crohn, sindrome metabolica; è determinante nella formazione e nel funzionamento del sistema immunitario; è stato persino dimostrato che i batteri intestinali svolgono una funzione di primo piano nello sviluppo del cervello, determinando anche differenze comportamentali tra “individui”. Insomma, così come, senza i “servizi” garantiti dagli ecosistemi, le nostre società non potrebbero andare avanti, allo stesso modo senza microorganismi noi non potremmo vivere: si realizza all’interno del nostro corpo, e fin dalla nascita (quando ereditiamo dalle nostre madri, attraverso il canale del parto, le prime colonie di batteri), una simbiosi obbligata in piena regola.
I risvolti filosofici – in particolar modo etici – di questo sguardo olistico sul mondo naturale sono molteplici, troppi per affrontarli qui. Riguardano però da vicino e in primo luogo noi, Homo sapiens, e il rapporto che intratteniamo con la natura non-umana: con quella multiforme realtà vivente che, ritenendola “altro” da noi, abbiamo relegato al mondo delle cose, mai superando, a ben guardare, la distinzione cartesiana tra res cogitans (l’uomo) e res extensa (ogni altro vivente).
Repentinamente, la certezza se non di una conclamata superiorità, almeno di una separazione di natura qualitativa tra l’uomo e gli esseri viventi “inferiori” viene meno: l’essere umano si scopre uno tra i tanti, preso nell’intrico di relazioni che compongono la mutevole realtà ecologica nella quale (e grazie alla quale) vive.