P otrei prendere la persona più vecchia qui presente, farle un piccolo buco nel cranio, inserire alcuni elettrodi all’interno dell’ippocampo e stimolarlo. E così sarebbe in grado di recitare a memoria un libro che ha letto 60 anni fa”. Nel suo primo discorso ufficiale come Segretario della Casa e dello Sviluppo Urbano degli Stati Uniti, qualche settimana fa Ben Carson, neurochirurgo e politico, utilizzava questo esempio per illustrare le notevoli capacità del cervello umano.
Non è proprio così che funzionano la memoria e il cervello, hanno commentato all’unanimità parecchi ricercatori ed esperti. Carson, che è stato uno dei candidati repubblicani alle ultime elezioni presidenziali, è noto per gaffe e uscite poco ortodosse: nello stesso discorso ha descritto gli schiavi africani deportati in America come immigrati in cerca di nuove opportunità, e in passato ha sostenuto che le piramidi egizie fossero state costruite da Giuseppe del Vecchio Testamento come depositi per il grano. Eppure la scivolata sul cervello è suonata a molti particolarmente fuori luogo, considerando il suo passato da medico e chirurgo piuttosto affermato, noto soprattutto per gli interventi di separazione di gemelli siamesi uniti per la testa.
Nella sua imprecisione, l’uscita di Carson sul recupero della memoria sembra affondare le radici nello stesso entusiasmo che accompagna nei media le scoperte che riguardano il funzionamento del cervello, e la nostra capacità di alterarne o migliorarne le prestazioni. La possibilità di mettere mano al cervello e modificare i ricordi, che a lungo ha popolato racconti e film di fantascienza, appare effettivamente sempre più alla portata della scienza. Ma i tentativi di alterare la memoria sono ancora un’illusione e Carson non è l’unico a sottovalutarne i limiti.
Basta una piccola stimolazione
In un esperimento non troppo diverso da quanto descritto dal politico statunitense, nel 2012 uno studio ha indagato la possibilità di migliorare la memoria stimolando un’area del cervello coinvolta nel recupero dei ricordi. Un gruppo di neuroscienziati e psicologi guidato da Itzhak Fried della UCLA (University of California, Los Angeles) ha utilizzato una tecnica chiamata deep brain stimulation, che consiste nell’inserire un elettrodo in una regione del cervello per stimolare l’attività delle cellule. Questa pratica, che trova qualche applicazione nel trattamento del Parkinson o della depressione, è utilizzata più di frequente durante le operazioni chirurgiche a cui si sottopongono alcuni pazienti che soffrono di certe forme di epilessia: in questi casi i medici stimolano alcune aree del cervello per ottenere informazioni necessarie per guidare l’intervento. Si tratta di occasioni uniche per poter studiare direttamente l’attività dei neuroni umani, e i pazienti possono dare il consenso per partecipare a brevi esperimenti prima di sottoporsi all’operazione. Nella ricerca del 2012, sette pazienti hanno esplorato un ambiente virtuale, cercando di orientarsi nello spazio e di imparare la posizione di diverse destinazioni. Se i ricercatori stimolavano una regione del cervello durante la fase di apprendimento, in seguito i pazienti ricordavano meglio, e riuscivano a raggiungere le destinazioni virtuali in un tempo più breve e con meno divagazioni rispetto alle sessioni senza stimolazione.
Con una tecnica chiamata deep brain stimulation si inserisce un elettrodo in una regione del cervello per stimolare l’attività delle cellule: occasioni uniche per poter studiare l’attività dei neuroni umani.
Gli effetti, seppure piuttosto piccoli, hanno fatto ben sperare che fosse possibile manipolare la memoria stimolando direttamente il cervello, tanto che due anni dopo il gruppo di Itzhak Fried si aggiudicava un finanziamento di 15 milioni di dollari della DARPA, l’agenzia statunitense che si occupa di sviluppare tecnologie da sfruttare in ambito militare. Si tratta del progetto RAM (Restoring Active Memory), lanciato con l’obiettivo di realizzare un piccolo dispositivo wireless da impiantare nel cervello per stimolare alcune aree e recuperare le funzioni di memoria in caso di lesioni cerebrali.
L’idea di un’agenzia militare impegnata in un progetto per la manipolazione dell’attività del cervello può comprensibilmente lasciare un certo disagio anche nei meno paranoici tra noi, e far scivolare gli altri in uno scenario alla Black Mirror. Tra le nuove occasioni di angoscia che ci ha offerto la terza stagione della serie britannica, al centro dell’episodio Men on fire è proprio un dispositivo impiantato nel cervello dei soldati e capace di alterarne memoria e percezione per eliminare la naturale empatia verso le loro potenziali vittime.
Per quanto si tratti di fantascienza, la storia funziona bene perché sembra plausibile, scrive la giornalista Sophie Gilbert su The Atlantic. “Che cosa ci può essere di più allettante per un’avanzata potenza militare di un dispositivo che permette ai soldati di uccidere senza subire sensi di colpa o ripercussioni emotive?”. La prospettiva – per quanto disturbante – al momento è destinata a ispirare le opere di fiction (ed eventualmente i nostri incubi distopici) senza offrire possibilità di un’applicazione immediata nella realtà. E del resto le intenzioni del progetto RAM si dichiarano molto più utili e innocue delle derive ispirate dalla fantascienza: l’uso dell’apparecchio wireless dovrebbe aprire la strada a terapie di riabilitazione per i veterani che hanno subito danni al cervello perdendo le funzioni di memoria – un problema che ha riguardato negli ultimi 15 anni più di 270 000 soldati USA, secondo i dati DARPA. Una piccola stimolazione nell’area opportuna e – zac! – memoria recuperata. Tutto così semplice, come sembra suggerire Ben Carson?
Insieme al gruppo di Itzhak Fried della UCLA, il bando DARPA del 2014 premiava con 22,5 milioni di dollari anche Michael Kahana, a capo del Computational Memory Lab alla University of Pennsylvania. “Cercano di fare 20 anni di ricerca in quattro anni”, commentava nel 2014 Kahana circa le ambiziose intenzioni dell’agenzia militare.
L’uso di deep brain stimulation non è l’unica tecnica per aumentare la memoria. La stimolazione magnetica transcranica sembra migliorare alcune forme di memoria associativa.
Circa a metà del progetto, una ricerca pubblicata lo scorso dicembre a cui ha collaborato il suo gruppo sembra indicare che in effetti l’obiettivo non sia ancora in vista. Come lo studio del 2012 dell’UCLA, anche questa ricerca ha coinvolto pazienti affetti da epilessia, sottoposti prima di un’operazione alla stimolazione delle regioni del cervello legate alla formazione e al recupero dei ricordi. Ma i risultati sono stati opposti a quelli precedenti: invece di migliorare la memoria dei pazienti, una stimolazione cerebrale sembra infatti peggiorarla. Senza nascondere la delusione per i risultati, gli autori della ricerca suggeriscono – piuttosto diplomaticamente – che è necessario ripensare i metodi utilizzati per ottenere un miglioramento della memoria, di fatto allontanando la speranza di mettere nella mani della DARPA un dispositivo in tempi brevi.
Verso il marketing della memoria fai-da-te
L’uso di deep brain stimulation non è stato l’unico approccio sperimentato dalla scienza per aumentare la memoria. Alcuni tentativi meno invasivi hanno sfruttato la stimolazione magnetica transcranica (TMS), una tecnica che utilizza campi magnetici per modulare l’attività elettrica del cervello e che non richiede il ricorso a un’operazione chirurgica. L’applicazione di questa stimolazione magnetica su una regione del cranio sembra in effetti migliorare alcune forme di memoria associativa, quella che ci permette di associare un nome al volto di una persona che si è appena presentata, o di ricordare in quale via abbiamo parcheggiato la macchina.
Altre ricerche hanno applicato direttamente sullo scalpo di alcuni volontari una leggera corrente elettrica durante una precisa fase del sonno. Al risveglio, chi aveva ricevuto una stimolazione sembrava ricordare meglio una serie di associazioni di parole imparate il giorno prima. Anche in questo caso, l’effetto non è di quelli che possono farci sperare di ricordare a memoria un libro letto anni fa con una piccola scarica di corrente al cervello, eppure il marketing sembra avere approfittato dei risultati mostrati da alcuni studi. Questa tecnica, indicata con la sigla tDCS (transcranial direct current stimulation), ha fatto molto parlare di sé negli ultimi anni, anche per la commercializzazione di dispositivi per la stimolazione cerebrale fai-da-te, rivolti soprattutto a gamers e atleti, ma anche a semplici curiosi. La promessa offerta da questo tipo di stimolazione è di migliorare una varietà di capacità cognitive, dall’attenzione alla velocità di reazione agli stimoli. Considerando che non sappiamo ancora molto degli effetti collaterali legati all’uso di questi dispositivi, e che gli effetti dimostrati sono piuttosto modesti, medici e ricercatori mettono in guardia dall’applicazione indiscriminata della stimolazione cerebrale: oltre a lasciare qualche bruciatura sulla pelle dove viene applicata la corrente, la tecnica rischia di favorire una capacità cognitiva a discapito di altre.
Alterare i ricordi con un raggio di luce
Oltre a fastidiosi problemi etici, quando parliamo del cervello umano la possibilità di manipolazione per alterare i ricordi si scontra con diverse limitazioni tecniche. Per esempio, non siamo in grado di individuare in modo preciso i neuroni coinvolti nel ricordo di un particolare evento, per poi agire direttamente sulla loro attivazione. Un problema che può essere superato lavorando su un modello animale, soprattutto grazie alla cosiddetta optogenetica: un insieme di tecniche, introdotte attorno alla metà degli anni Duemila, che combinano genetica e ottica e che permettono di accendere e spegnere specifiche cellule nervose in modo molto preciso utilizzando un fascio di luce.
Perché il controllo sia possibile, è necessario però inserire nelle cellule un gene che funzioni da interruttore, creando animali transgenici o sfruttando una tecnica simile a quella della terapia genica – ed è per questo aspetto che la tecnica non è ancora utilizzabile sugli esseri umani. Grazie all’optogenetica, nel 2013 un gruppo di neuroscienziati del MIT, guidato dal premio Nobel Susumu Tonegawa, è riuscito a impiantare nel cervello di topi false memorie. Non molto diversamente da quanto succede alle persone, i topi tendono ad associare un’esperienza traumatica all’ambiente in cui l’hanno vissuta.
Grazie all’optogenetica, nel 2013 un gruppo di neuroscienziati del MIT è riuscito a impiantare false memorie nel cervello di topi.
Se ci troviamo a camminare nel vicolo dove siamo stati aggrediti, è possibile che ci invada un senso di angoscia, e non è raro sentirci irrigidire ogni volta che ci avviciniamo a un incrocio dove siamo stati investiti. Ai topi succede qualcosa di simile, almeno finché i ricercatori non decidono di mettere mano ai loro neuroni. Nei laboratori dell’MIT, gli scienziati hanno fatto entrare gli animali in particolari contenitori e hanno poi osservato la loro reazione: paralizzati dalla paura, i topi mostravano di ricordare molto bene l’esperienza vissuta nell’ambiente. Piuttosto notevole, considerando che l’esperienza non era mai avvenuta in quel luogo, e gli animali reagivano quindi al ricordo artificiale impiantato dai ricercatori nel loro cervello.
Quando lo studio è stato pubblicato, raccontano in un TED talk i neuroscienziati Steve Ramirez and Xu Liu, le reazioni della stampa e dei lettori sono state delle più varie, da “Il futuro è grandioso” a “Siamo spacciati”. “Dovrebbero farci un film”, ha commentato ironicamente un lettore, “in cui impiantano idee nella mente delle persone, in modo da poterle manipolare a proprio vantaggio. Lo chiameremo: Inception”. In effetti lo scenario descritto dal film di Christopher Nolan – la storia di un gruppo di ladri capaci di accedere alla mente degli altri e di alterarne pensieri e ricordi – sembra tenuto a distanza soprattutto dalle limitazioni tecnologiche, che rendono impossibile al momento sperimentare questo approccio sulle persone.
Un’applicazione umana però potrebbe essere meno remota del previsto, considerando che è attualmente in corso il primo studio di optogenetica sugli esseri umani. La ricerca, finanziata dalla startup RetroSense Therapeutics, è rivolta al trattamento di un disturbo della vista, ma se i risultati dimostrassero che l’optogenetica è utilizzabile nel cervello umano, anche per la manipolazione dei ricordi la bilancia tra fantascienza e realtà si sposterebbe rapidamente a favore di quest’ultima.
Forse non è banale accettare che i nostri ricordi, così fondanti di quella che consideriamo la nostra identità personale e collettiva, possano diventare materia di un editing studiato a tavolino, che scelga di accentuare la memoria di un evento e metterne in ombra un altro, di cancellare un’esperienza dolorosa e imbellirne una mediocre. Eppure il cervello non fa che modificarsi di continuo, riscrivendo nelle sue connessioni mutevoli qualche dettaglio della nostra storia. Si tratta solo di decidere quanto vogliamo che la tecnologia possa mettere piede in un processo già in corso.