I l caimano è buono” scrivo seria sul mio quadernetto. Non voglio rischiare di perdere neanche un dettaglio di questa mia prima volta e aggiungo: “sa di arachide tostata”. In realtà, però, so bene che non riuscirò facilmente a dimenticare il sapore tra il dolce e il salato, e la consistenza soda, incredibilmente soda, quasi croccante di questa cosa che mi stanno facendo mangiare. Perché mi aspettavo di tutto, ma non che sapesse di arachide. Tostata e croccante per di più.
Il suo vero nome è Zophobas morio e in realtà è un coleottero, uno dei tanti che ricadono nella mia definizione decisamente poco rigorosa, ma efficace, di “blatta”. Lo chiamano caimano perché morde, ma a vederlo nel suo stadio larvale non si direbbe. Cioè, è comunque una signora larva di cinque centimetri di lunghezza, ma non sembra aggressiva. Ha un colore tra il giallo e il marroncino, con qualche striatura nera e questo profumo di arachide che la rende quasi invitante. Quasi.
“Pensa che la camola del miele ha un retrogusto di castagna e di pinolo”, mi spiega Giulia mentre mi illustra i barattoli pieni di insetti che poi mi farà assaggiare con la padronanza di un sommelier in una degustazione orizzontale. Giulia Maffei è biologa, divulgatrice scientifica e allevatrice di insetti: “Ne ho tremila in casa” “Vivi in campagna?” “No, no, a Milano. In appartamento”. Ok, facciamo un passo indietro.
La mia avventura nel magico mondo degli insetti è iniziata all’EXPO di Milano. Ho passato sei mesi a zonzo per il Cardo e il Decumano alla ricerca di proposte che rispondessero all’obiettivo ambizioso della manifestazione: trovare il modo di “nutrire il pianeta” senza distruggerlo (ulteriormente). Non c’era Padiglione che non magnificasse le proprietà di alghe, insetti e altri alimenti “del futuro”. Le stime ci dicono infatti che, da qui al 2050, la richiesta di carne raddoppierà, con ripercussioni ambientali insostenibili. La FAO è corsa ai ripari e sta promuovendo, ormai da qualche anno, il consumo di proteine da fonti alternative alla classica bistecca. Ma se le alghe spopolavano sotto forma di improbabili weed-burger e tavolette di cioccolato alla spirulina, di insetti da assaggiare neanche l’ombra. Le poche volte che ci hanno provato è arrivata l’ASL a sequestrare tutto.
“Non è esplicitamente vietato. Semplicemente, la somministrazione di insetti per l’alimentazione umana non è normata” mi spiega Giulia. Gli insetti, sono infatti considerati un novel food, cioè uno dei tanti alimenti nuovi che chiedono di poter entrare nella filiera alimentare. E per farlo devono essere autorizzati, finché non lo sono è il Far West. “Ogni stato membro dell’Unione si sta muovendo autonomamente. In Belgio e Olanda, per esempio, li puoi trovare anche al supermercato, magari frullati dentro alla salsa di pomodoro, mentre Francia, Spagna e Italia sono ancora ferme”.
La FAO sta promuovendo, ormai da qualche anno, il consumo di proteine da fonti alternative alla classica bistecca: tra queste spiccano le alghe e gli insetti.
Giulia li alleva in vista degli eventi di divulgazione che organizza con Entonote, l’associazione che ha fondato con un’altra Giulia, che di cognome fa Tacchini ed è una designer con una passione per la cucina e l’antropologia del cibo. “Facciamo anche dei cooking show e, sarà la curiosità, sarà che li presentiamo in maniera esteticamente accattivante, ma alla fine anche le persone più titubanti sono disposte ad assaggiarli. Peccato che non si possa”.
Nel mentre, sgranocchio una locusta aromatizzata alla curcuma, “buona nonostante le ali un po’ fastidiose”, e penso che non avrei nessun problema a cucinarmene qualcuna a casa come faccio con gli scampi, per esempio. Però no, non mi verrebbe mai in mente di comprare della passata di pomodoro al frullato di larva. E comunque, se anche la comprassi, non la vedrei come un’alternativa alla bistecca che una volta ogni tanto mi concedo.
Ci sono almeno due grossi ostacoli che frenano la corsa degli insetti alla conquista del mercato. Il primo è culturale. Ogni epoca ha avuto il suo cibo del futuro, dalle pillole sintetiche degli anni Cinquanta fino alla carne in provetta che vediamo ogni tanto spuntar fuori sui giornali ancora oggi, senza che, però, lo sia mai diventato davvero. Siamo una specie conservatrice, le novità ci divertono e le proviamo, ma per entrare nella nostra cucina devono trovare il modo di inserirsi, senza stravolgerla. E, soprattutto, devono dare soddisfazione. Quando è arrivato dalle Americhe, il mais ha spiazzato il miglio come ingrediente base della polenta, perché era più buono, non perché era più nutriente. Giulia mi spiega che se negli Stati Uniti sono in pieno trip proteico e i prodotti addizionati con farina d’insetto iniziano a spopolare, qui in Europa la situazione è diversa e, per esempio, la passata alle larve olandese non sta avendo molto successo. “Funziona molto di più il camioncino che gira per le fiere e distribuisce cartocci di grilli saltati.” E non mi stupisce, perché i grilli sono buoni. Degli insetti che ho assaggiato sono sicuramente i migliori. “Hanno un gusto di crostaceo… come i gamberetti troppo cotti”, mi appunto.
E qui arriviamo al secondo grande ostacolo. Il gusto dei grilli varia molto a seconda di quello che si dà loro da mangiare. “So che sembra assurdo, ma i grilli che trovi su internet non sono buoni come quelli che mi allevo io in casa” mi dice Giulia con una punta di orgoglio. In effetti è vero che sembra assurdo, ma non lo è. I grilli sono delicati e questa, in un’ottica di riduzione dell’impatto ambientale, non è una buona notizia.
Gli insetti sono animali ad “alta efficienza” che, tradotto in parole semplici, vuol dire che a parità di mangime, producono più nutrienti degli altri animali da allevamento, quindi, di fatto, impattano meno sull’ambiente. Inoltre, il vero vantaggio è che possono essere allevati utilizzando materiali alimentari di scarto. Questa la teoria. Nella pratica, si è scoperto che i grilli in particolare, cioè gli insetti prediletti per il consumo umano, per star bene ed essere realmente efficienti devono essere nutriti con mangimi pregiati.
Negli Stati Uniti sono in pieno trip proteico e i prodotti addizionati con farina d’insetto iniziano a spopolare. In Europa la situazione è diversa e, per esempio, la passata alle larve olandese non sta avendo molto successo.
Con le larve, invece, va decisamente meglio, mi spiega Laura Gasco: “secondo me, il futuro è lì”. Sono andata a trovarla al Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino. Le pareti del suo studio sono ricoperte di fotografie e illustrazioni di pesci. “Nasco come acquacoltore. I pesci sono la mia passione”. Mentre mi parla sorseggia del tè da un’enorme tazza blu decorata, manco a dirlo, con dei pesci. Laura dirige uno dei laboratori più attivi e produttivi sul territorio nazionale di ricerca sulle “fonti proteiche innovative per l’alimentazione animale”, cioè gli insetti usati come mangimi per l’allevamento di altri animali. “Quando abbiamo iniziato, ormai quattro anni fa, tutti ridevano perché investivamo tempo e risorse sugli insetti – mi racconta – ma da un anno a questa parte, invece, ricevo quotidianamente richieste da studenti o da chi vorrebbe aprire un allevamento di insetti. Il futuro è sicuramente lì”.
A oggi, le materie prime usate per la produzione di mangimi provengono principalmente dalle coltivazioni di vegetali come la soia o il girasole, ma anche dagli stessi animali. “Il 15% del pescato e il 95% della produzione mondiale di soia finiscono negli allevamenti” mi mostra Laura. Senza contare l’acqua che consuma circa l’8% “per l’irrigazione delle colture destinate a produrre materie prime per alimenti zootecnici” e il 15% dell’emissione dei gas serra. Numeri che pesano e che fanno pensare che la crescita della zootecnia dipenderà sia dalla disponibilità sia dalla sostenibilità economica e ambientale delle materie prime.
E qui arrivano gli insetti. Laura mi racconta del suo primo viaggio in Cina a visitare un allevamento enorme (questo). “Immaginati il parcheggio di un grande centro commerciale con scaffalature di metallo e cassette di plastica impilate fino al soffitto. Ecco, adesso moltiplicalo per sei o otto volte”. Un capannone ospita la nursery, nella quale gli insetti adulti si accoppiano e producono le uova, che poi vengono fatte schiudere e smistate ai tanti capannoni nei quali le si alleva fino a fine ciclo. Questa azienda ha stipulato un accordo con la provincia di Xian per lo smaltimento dei rifiuti dei ristoranti. Ogni giorno ne raccoglie 60 tonnellate con le quali nutre le larve che poi vengono essiccate e utilizzate come farine per la produzione di mangime. Il concetto è quello di economia circolare e gli allevamenti di insetti sparsi per il mondo lo applicano con fantasia, come, per l’esempio, l’americana EnviroFlight che utilizza come fonte di alimentazione gli scarti della lavorazione della birra.
Da quel viaggio in Cina, il gruppo di ricerca di Laura Gasco è tornato a casa con dei sacchi di farina di insetto per iniziare a fare esperimenti e misurarne gli effetti sugli animali d’allevamento: pesci e polli e anche suini. Le due larve più promettenti per la mangimistica hanno nomi bellissimi. Una è la Black Soldier Fly, la mosca soldato o Hermetia illucens, l’altro è il Tenebrione Mugnaio o Tenebrio molitor, un altro di quegli insetti che ricade nella mia definizione di “blatta”. Queste larve hanno un tenore proteico del 40-45%, ma sono molto grasse, con un profilo lipidico del 25-30% circa. “Quindi le sgrassano” mi spiega Laura, con un procedimento che mi ricorda quello inventato nell’Ottocento dal chimico tedesco Van Houten per sgrassare il cacao, separando il burro dalla polvere e rendendola quindi più gradevole al palato. “La farina sgrassata raggiunge il 65% circa di proteine, mentre l’olio non si butta via, ma viene già usato nell’alimentazione zootecnica perché ha un buon profilo di acidi grassi”. Dagli esperimenti condotti in questi anni dal gruppo di Torino e dagli altri gruppi di ricerca sparsi per il mondo si è visto che la farina di insetto può sostituire, almeno in parte, la farina di soia nell’allevamento dei polli e la farina di pesce in acquacoltura, con variazioni che dipendono dalle specie allevate e dalla qualità della farina.
La farina di insetto può sostituire, almeno in parte, la farina di soia nell’allevamento dei polli e la farina di pesce in acquacoltura.
Tutto bene, quindi? In realtà no, perché anche in questo caso c’è la legge di mezzo che complica le cose. Parliamo del Regolamento CE 999/2001 che vieta l’uso di farine animali per l’alimentazione zootecnica, emesso in seguito al caso del morbo della mucca pazza. Per i pesci, questo divieto era già stato tolto, ma c’era una clausola che bloccava l’uso di farine di insetto. “Il 13 dicembre scorso è stata finalmente approvata una proposta della Commissione Europea che consentirà a partire dall’estate l’utilizzo di queste farine per l’acquacoltura” e, secondo Laura, prima o poi arriverà l’autorizzazione anche per gli altri animali d’allevamento. “Non dobbiamo immaginarci gli insetti come la soluzione a tutti i problemi, ma possono diventare uno dei tanti strumenti per abbassare da un lato l’impatto ambientale della zootecnia e dall’altro la dipendenza dell’Unione Europea dalle proteine di origine vegetale provenienti dagli altri continenti”. A patto, però, che l’allevamento su larga scala sia davvero sostenibile per l’ambiente – e per questo servono studi seri di valutazione dell’impronta ecologica e del ciclo di vita del prodotto – ma che stia anche in piedi economicamente.
A oggi, “lasciando da parte la Cina che è fuori scala e che usa già da anni queste farine per la mangimistica, gli allevamenti in Europa si contano sulle dita di una mano. Uno in Olanda, uno in Germania, uno in Francia e tante piccole start up. Anche in Italia stanno iniziando a nascere, ma siamo ancora agli esordi” e questo significa che i costi di produzione sono ancora alti. Soprattutto considerando che, legalmente, le farine di insetto non possono ancora essere utilizzate per l’alimentazione dei capi d’allevamento. Come si sostengono quindi? “Grazie ai prodotti per animali da compagnia, il cosiddetto pet food” per il quale non ci sono restrizioni particolari e i prezzi possono essere anche più alti a fronte di vantaggi nutrizionali. “I mangimisti italiani sono interessati, ma il prezzo deve scendere”, taglia corto. Il prezzo della soia a tonnellata è di circa 400 euro, quello della farina di insetto parte dai 2000 e va a crescere fino ai 5000 della farina di grillo. “Se vogliamo diventare competitivi dobbiamo scendere a prezzi paragonabili a quelli della soia, anche un po’ più alti, ma non così alti”.
Perché una cosa è chiara per Laura Gasco, “se vuoi sfamare il mondo, non lo sfami con prodotti costosi che pochi possono permettersi”. Servono idee nuove, tanta ricerca, una visione a lungo termine e tanto coraggio, ma forse hanno ragione le due “donne degli insetti” che ho incontrato. Il futuro, per una volta, potrebbe davvero essere qui.