N el romanzo del 1956 Morte dell’erba di John Christopher (pseudonimo di Sam Youd), un virus delle graminacee chiamato Chung-Li causa una carestia globale. Nella lotta per la sopravvivenza che segue, due famiglie in viaggio attraverso l’Inghilterra vedono cadere tutti i baluardi del vivere civile: la legge, i legami familiari, gli scrupoli morali. Da simili premesse, ma con sviluppi meno cupi, parte la storia del recente film Interstellar: l’umanità è costretta ad abbandonare la Terra a causa di una fitopatologia incontrollabile, una malattia delle piante che si nutre di azoto e si estende progressivamente a tutte le colture. Man mano che la vegetazione scompare, l’ossigeno prodotto dalla fotosintesi si riduce, e la terra nuda, sollevata dal vento, crea tempeste di polvere che rendono l’aria irrespirabile.
La realtà non è distante. Le vicende degli esseri umani sono state segnate dalle infestazioni delle specie coltivabili quanto lo sono state dall’agricoltura stessa. L’agricoltura ha portato alla fondazione delle prime civiltà umane sedentarie, e ha contribuito all’esplosione demografica dell’uomo: oggi, secondo la FAO, oltre il 60% della popolazione mondiale dipende direttamente dall’agricoltura per sopravvivere, i terreni agricoli occupano più di un terzo della superficie terrestre, e vi lavorano circa due miliardi e mezzo di persone. Le malattie vegetali hanno invece portato a carestie, epidemie, adattamenti, diete e abitudini alimentari, migrazioni di massa, scossoni demografici e miti popolari.
Grano e segale
Prendiamo le infestazioni del genere Triticum (il frumento) su cui si è sempre basata la sussistenza della maggior parte della popolazione terrestre. Pare che sin dall’inizio il grano si sia evoluto nel Medio Oriente insieme a una sua malattia, quella della ruggine rossa, causata dal fungo Puccinia persistens triticina. Al flagello della ruggine rossa si può far risalire l’episodio biblico secondo cui Giuseppe, venduto in Egitto come schiavo dai suoi fratelli, si sarebbe guadagnato il favore del faraone accumulando scorte di grano per affrontare i sette anni di raccolti scarsi, profetizzati in sogno dal faraone stesso; secondo gli storici, all’epoca delle vicende narrate, il clima in Egitto sembrava in effetti propizio al diffondersi della pestilenza.
Nel 700 circa a.C., le difficoltà causate ai Romani dalla ruggine del grano erano tali da indurre i sacerdoti a creare un’apposita divinità, il dio Robigus (che in età imperiale cambiò genere e divenne la dea Robigo), un nume ostile da placare tramite celebrazioni speciali. Le Robigalie si svolgevano il 25 aprile, nel mese in cui la ruggine rossa faceva la sua comparsa nei campi. Nei secoli successivi il frumento si diffuse nel Nord Europa, apparentemente senza che in un primo periodo si propagasse anche la ruggine. Quest’ultima si espanse comunque in epoca medievale, verso l’800 d.C., tramite la diffusione del crespino (Berberis vulgaris) che la ospita. Nelle primavere umide dell’Europa centrale, la ruggine trovò il clima ideale per prosperare; i raccolti furono gravemente colpiti e per sfuggire alle carestie gli autoctoni presero l’abitudine di mangiare pane di segale, un cereale meno vulnerabile alla ruggine.
Anche la segale mostrò presto il suo lato oscuro: il clima umido che aveva favorito il diffondersi della ruggine del grano si rivelò propizio anche per i funghi del genere Claviceps. Questi funghi, meglio noti col nome di ergot, danneggiano le coltivazioni in modo limitato ma, se ingeriti dagli animali e dall’uomo, possono causare una malattia tremenda, e letale se non trattata, chiamata ergotismo o “fuoco di Sant’Antonio”, dall’ordine monastico che si dedicò alla cura dei malati. La Claviceps era insidiosa: i suoi corpi fruttiferi, di dimensioni simili a quelle di molti grani, potevano passare inosservati alla mietitura e alla setacciatura.
I primi riferimenti a un’epidemia europea di ergotismo risalgono all’857, quando la forma cancrenosa della malattia colpì la Valle del Reno. In questa forma, gli alcaloidi del fungo inducono un processo di vasocostrizione, che riduce l’afflusso di sangue agli arti, che diventano gonfi, bluastri e infiammati, per poi perdere sensibilità, finché subentra la cancrena. Un’altra epidemia originata a Limoges, in Francia, causò la morte di circa diecimila persone. La forma convulsiva dell’ergotismo, più rara, è causata dall’azione di altri alcaloidi che stimolano i neurotrasmettitori della serotonina nel sistema nervoso. Le vittime, come suggerisce il nome, sono preda di episodi convulsivi frequenti, spasmi, pruriti o formicolii. Ai sintomi fisici si accompagnano spesso manifestazioni psicotiche come agitazione, deliri, manie e allucinazioni.
Nel 1976, la psicologa Linnda Caporael ipotizzò che un’epidemia di ergotismo fosse alla base del processo alle streghe di Salem, che si svolse nel Massachussets a partire dal 1692. Caporael notò che alcuni sintomi dell’ergotismo convulsivo trovavano riscontro in quelli elencati nei documenti processuali; inoltre, i resoconti del 1691 parlano di primavere ed estati calde, umide e piovose, che favoriscono la crescita e la diffusione del fungo. Un altro elemento a supporto di questa teoria deriva dal fatto che un’epidemia di ruggine negli anni Sessanta del Seicento avesse spinto i coloni a sostituire le piantagioni di frumento con quelle di segale.
Il ruolo dell’ergotismo nei processi di Salem è dibattuto; alcuni studiosi sottolineano incoerenze cliniche ed epidemiologiche, come i pochi casi di bambini (che sono più vulnerabili all’ergotismo) o il fatto che solitamente l’intossicazione non si presenta in individui isolati come le “streghe” di Salem, bensì in famiglie che consumano gli stessi alimenti. Tuttavia l’ergotismo potrebbe essere alla base di un altro caso di processo per stregoneria, quello avvenuto a Vardø, in Norvegia, a partire dal 1621. Negli atti del processo fu affermato esplicitamente che la stregoneria veniva “appresa” consumando pane, birra o latte; alcune “streghe” testimoniarono che nel latte si trovavano chicchi scuri, possibilmente i corpi fruttiferi della Claviceps.
All’ergotismo sono attribuiti altri episodi storici, tra cui la violenza dei moti contadini durante la Rivoluzione Francese e la disfatta di Pietro il Grande contro la Turchia nel 1772. In tempi più moderni l’LSD, sintetizzato nel 1938 a partire dall’acido lisergico (un precursore degli alcaloidi dell’ergot) ebbe un ruolo particolare nella cultura hippy degli anni Sessanta in virtù delle sue proprietà psichedeliche. Oggi, l’ergot ha un enorme valore nell’industria farmaceutica, con oltre un migliaio di prodotti derivati in uso per trattamenti psicologici, neurologici e in ostetricia.
Kennedy e patate
Non un fungo, bensì un’alga dal nome Phytophthora infestans (Phytophthora vuol dire “distruttrice di piante”) fu responsabile della peggior carestia europea dell’Ottocento, che portò a una riduzione del 25% nella popolazione irlandese. La situazione era già precaria quando, agli inizi del secolo, l’Atto di Unione aveva sancito la creazione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda; quattro irlandesi su cinque erano di religione cattolica, e fino al 1829 le leggi religiose avevano proibito ai cattolici l’accesso a servizi e diritti fondamentali per la crescita socioeconomica. Le condizioni di vita della popolazione irlandese erano critiche: la povertà, l’aumento demografico, l’altissima disoccupazione e l’inefficienza dei funzionari locali facevano presagire un disastro imminente.
A partire dall’Ottocento, i proprietari terrieri irlandesi introdussero il sistema del middleman, l’intermediario che doveva occuparsi della rendita dei terreni e della riscossione dei tributi mentre i proprietari risiedevano altrove, perlopiù in Inghilterra. I middlemen frazionarono e subaffittarono i terreni per trarne guadagno: nel 1845 due terzi dei contadini irlandesi avevano lotti così piccoli (meno di 6 ettari) che era diventato difficile ottenere raccolti sufficienti da pagare i tributi e sfamare contemporaneamente le famiglie.
Fu allora che la patata sostituì il frumento come fonte principale di sostentamento: resistente, nutriente e carica di carboidrati, era l’unica coltivazione che permettesse ai contadini di sopravvivere. Gran parte del terreno agricolo in Irlanda venne convertito alla coltura di un’unica varietà di patata ad alta resa, l’Irish Lumper. Sfortuna volle che poco prima, dal Nord America, fosse giunta in Europa la piaga della peronospora, a cui l’Irish Lumper è particolarmente vulnerabile. L’infezione da peronospora si diffonde con velocità spaventosa e colpisce sia le foglie, sia il tubero stesso, riducendolo a una poltiglia maleodorante e immangiabile. Nel novembre del 1845, pochi mesi dopo le prime segnalazioni dell’epidemia, la peronospora aveva reclamato un terzo dei raccolti irlandesi; l’anno dopo il raccolto fu interamente distrutto.
I proprietari terrieri si opposero al blocco delle esportazioni di grano e all’abolizione dei dazi sulle importazioni, che avrebbero mitigato la situazione facendo scendere il prezzo dei cereali. L’inazione del governo inglese contribuì a prolungare la carestia, e portò al deterioramento dei rapporti (già poco cordiali) tra irlandesi e inglesi nel lungo periodo. Oltre un milione di irlandesi morirono in quegli anni, sia per la denutrizione, sia perché la debolezza e le pessime condizioni igieniche favorirono il diffondersi di tifo e colera; un altro milione emigrarono nel Nord America. Nel 1851, più di metà degli abitanti della città canadese di Saint John erano irlandesi.
Le navi che trasportavano i migranti irlandesi attraverso l’Atlantico erano note come coffin ships, navi feretro: mal equipaggiate, sovraccariche di passeggeri stremati dalla fame, erano spesso assicurate in modo da rendere di più se affondavano. Decine di migliaia di migranti morirono per le epidemie o per gli stenti, a bordo o poco dopo l’arrivo. Tra gli irlandesi che raggiunsero gli Stati Uniti ci furono Patrick Kennedy, discendente di uno dei clan Ó Cinnéide, e Thomas Fitzgerald, imprenditore e politico originario della Contea di Limerick, che giunsero a Boston rispettivamente nel 1849 e nel 1852. Tramite il matrimonio dei loro nipoti Joseph Patrick e Rose, sarebbero diventati i capostipiti di una delle famiglie politicamente più influenti in tutta la storia d’America.
Perché gli inglesi non bevono caffè?
Il caffè deve la sua popolarità principalmente alle sue qualità stimolanti e il suo sapore forte ed esotico, che nel Cinquecento entusiasmò i viaggiatori europei in visita in Egitto, Arabia e Turchia. Gli Olandesi in particolare dedicarono alle piantagioni di caffè gran parte del terreno agricolo nelle loro colonie. Entro la fine del secolo, l’abitudine di bere caffè si era diffusa in tutta Europa anche tra i meno abbienti, che si riunivano nelle coffee houses per discutere, tra le altre cose, anche di politica. Nel 1675, il re Carlo II d’Inghilterra promulgò una legge per abolire le coffee houses, considerate luoghi di eversione; la legge dovette essere ritrattata dopo undici giorni, per la protesta degli uomini di qualunque ideologia politica e classe sociale.
Nel Diciannovesimo secolo, l’Olanda cedette al Regno Unito l’isola di Ceylon, che era diventata il principale produttore di caffè al mondo. I Britannici espansero ulteriormente le piantagioni di caffè, sacrificando ampie porzioni di foresta dell’isola. Mentre le esportazioni annuali di caffè superavano le quarantamila tonnellate, nel 1867 cominciavano a notarsi le prime apparizioni di una malattia delle foglie, arrivata non si sa come dall’Etiopia, luogo d’origine della pianta di caffè, e causata dal fungo Hemileia vastatrix.
L’infezione distrugge progressivamente tutte le foglie della pianta, che senza la fotosintesi è destinata a morire. Inizialmente i coltivatori sperarono che l’infestazione si risolvesse da sola, e quando nel 1879 chiesero ai Britannici di inviare dei ricercatori per salvare il caffè (e la loro economia) era già troppo tardi. Nell’arco di breve tempo, le coltivazioni di caffè a Ceylon non erano più redditizie e i Britannici decisero di sostituirle con piantagioni intensive di tè, già popolare nel Regno Unito, che da allora soppiantò quasi completamente il caffè come abitudine inglese.
Insetti ed errori umani
Non solo microrganismi patogeni: anche gli insetti possono rappresentare un flagello per le coltivazioni, a partire dalle locuste di biblica memoria, che in anni recenti hanno compiuto qualche scorreria nella Pianura Padana. Molti insetti depongono le uova sulle foglie, in modo che le larve o i bruchi se ne nutrano, sviluppando via via strategie sempre più sofisticate per aggirare le difese messe in atto dalla pianta. Nella seconda metà dell’Ottocento la fillossera della vite raggiunse l’Europa insieme a due funghi (l’oidio e la peronospora della vite), e la sua diffusione si rivelò di difficile controllo. L’epidemia stimolò la ricerca di una soluzione che fu trovata nell’innesto di parti radicali e fogliari provenienti da varietà diverse; questa pratica, pur salvando la produttività dei raccolti, finì per causare una selezione di pochi tipi resistenti di vite e un impoverimento della gamma di vitigni disponibili.
La dorifora, invece, attacca voracemente patate e melanzane: ogni esemplare è in grado di consumare 10 centimetri quadri di foglia in un giorno. Alla sua comparsa nei paesi del blocco sovietico, si vociferava che fosse un agente biologico introdotto dai servizi segreti statunitensi per mettere in ginocchio l’economia dei paesi dell’Est Europa. La lotta alla dorifora della patata ha avuto un ruolo importante nell’adozione massiccia dell’insetticida DDT negli anni Cinquanta, prima che se ne scoprissero gli effetti nocivi sull’ambiente e l’accumulo nella catena alimentare; nel frattempo, gli insetti contro cui era stato utilizzato avevano sviluppato forme di resistenza al DDT e fu necessario ripensare le misure di difesa chimica delle coltivazioni.
Oggi, in Italia imperversa il punteruolo rosso, che attacca numerose varietà di palme di interesse sia alimentare (da cocco, da olio o da dattero) sia paesaggistico. Le larve dell’insetto, deposte in fessure della corteccia, si scavano la via verso l’interno dell’albero nutrendosi dei tessuti più teneri e determinando un danno vascolare nella pianta, che può tradursi in una completa perdita della chioma e nel cedimento dell’intero albero. L’estrema mobilità degli insetti adulti rende molto difficile contenerne la diffusione e una pianta colpita può essere salvata solo nelle fasi iniziali dell’infestazione, che però sono spesso asintomatiche. Forse potremmo adottare lo stile di vita di alcuni paesi del Sud-est asiatico, dove le larve del punteruolo sono considerate una prelibatezza culinaria.
Gli insetti sono pericolosi anche come vettori di malattie delle piante; anzi, in questo caso ridurre la popolazione di insetti responsabili non è sufficiente a contenere l’infezione, a cui basta anche una minoranza di vettori per propagarsi, e l’uso intensivo di insetticidi per eradicarli va valutato attentamente nelle sue conseguente ambientali e per la salute degli animali nell’ecosistema, umani inclusi.
Anche gli errori umani possono favorire il diffondersi di insetti infestanti; per esempio, sembra che una recente invasione di cavallette in Madagascar stata causata dall’abbattimento di un’ampia area boschiva che fungeva da barriera al loro passaggio. Difficilmente però si possono individuare iniziative più sconsiderate della campagna di eliminazione dei quattro flagelli, voluta dal presidente cinese Mao Zedong per il Grande Balzo in Avanti con cui intendeva rilanciare l’economia della Cina nel 1958. I quattro flagelli erano specie animali ritenute dannose per l’igiene pubblica e l’agricoltura: ratti, zanzare, mosche e passeri, in particolare il passero mattugio che si ciba dei chicchi di riso e veniva quindi incolpato di compromettere la resa delle coltivazioni.
Troppo tardi Mao si rese conto che il passero si ciba anche di molti insetti infestanti; anziché aumentare, le rese delle coltivazioni di riso calarono drasticamente dopo lo sterminio del passero mattugio. Questo fu uno dei fattori che concorsero a determinare i “tre anni amari” della Grande Carestia Cinese: una serie di disastri naturali, cattiva gestione economica, politiche agricole scriteriate e propaganda di copertura causarono la morte di oltre 15 milioni di cinesi e il quadruplicarsi del tasso di mortalità, con un abbattimento delle nuove nascite che è ancora visibile nei grafici di popolazione cinese.
Paesaggi a rischio
Spesso interi paesaggi hanno mutato volto per un’epidemia vegetale. In America, il cancro del castagno ha divorato i tronchi dei suoi ospiti fino a determinare in poche decine di anni la scomparsa degli imponenti castagneti che nell’Ottocento adornavano le aree montane del Nord America. Negli anni Sessanta e Settanta la grafiosi dell’olmo, causata da una specie particolarmente virulenta di funghi Ophiostoma, aveva fatto scempio dei grandi olmi in tutta Italia, determinandone la scomparsa pressoché totale dai campi, parchi e regioni montane.
Il valore alimentare, economico ed estetico delle piante è costantemente sotto attacco; anche se oggi disponiamo di strumenti fitosanitari e di controllo che permettono un pronto intervento, ci sono nuove sfide da fronteggiare, tra i cambiamenti climatici, le modifiche dell’assetto idrogeologico e la comparsa di malattie inedite, favorite anche dall’estensione globale degli scambi commerciali. Basta pensare allo sconcerto generato pochi anni fa in Puglia dall’apparizione del complesso del disseccamento rapido dell’olivo, una patologia mai diagnosticata prima al mondo e causata da una sottospecie del batterio Xylella fastidiosa arrivata tramite l’importazione di oleandri infetti dal Sudamerica.
Finora non è stata trovata una cura efficace e la ricerca di varietà resistenti è ancora in fase sperimentale. Le misure fitosanitarie predisposte si basano quindi sulle strategie di contenimento dell’infezione: espianto e distruzione degli olivi infetti, reimpianto di alberi resistenti, cicli di utilizzo di insetticidi per impedire il contagio da parte del vettore Philaenus spumarius, la sputacchina dei campi. Le azioni di contenimento sono però ostacolate dall’estrema frammentazione dei terreni coltivati a oliveti, che spesso versano in grave stato d’incuria (sempre più appezzamenti passano in eredità a proprietari che vivono altrove e non possono farsi carico dei necessari interventi) e da una duratura contestazione popolare che si oppone all’abbattimento degli antichi olivi monumentali infetti e all’uso massiccio di insetticidi.
Oggi l’infezione ha reso improduttive oltre 4 milioni di piante: 50 mila ettari di oliveti sono andati distrutti e la produzione olivicola italiana ha subito una flessione del 10% – e questo contando che Xylella non è ancora penetrata nella provincia di Bari, dove si trova il cuore della produzione di olio extravergine. Il pericolo che incombe, oltre alla perdita di un patrimonio paesaggistico eccezionale, è quello di gravi conseguenze sull’economia e sulla vocazione di un territorio. Un pericolo che, la storia ci dimostra, non è davvero possibile sopravvalutare.
Per approfondire l’argomento, si veda anche il testo Come le malattie delle piante hanno inciso su vita e storia dell’uomo di Giuseppe Ugo Belli, Edizioni L’Informatore Agrario, 2015.