“[Il mare] grande femmina del globo, il cui inesausto desiderio, il concepimento permanente, la procreazione, non si esaurisce mai”
Jules Michelet, 1860
P
er i kuna, la popolazione indigena che vive nelle isole del Guna Yala, a Panama, se la terra è la madre, il mare è la nonna: muubilli, letteralmente “nonna mare”, è come i kuna chiamano il grande blu. Una nonna che ti dà da mangiare e si prende cura di te, e che, viceversa, devi rispettare e amare come farebbe un nipote. Il Guna Yala è un paradiso perduto di terra e mare, dove gli abitanti vivono di pesca e del commercio di noci di cocco e di molas, favolosi tessuti tradizionali creati con la complicata tecnica della sovrapposizione. Secondo l’antropologa Mònica Martínez Mauri, per i kuna c’è un forte legame tra il mare e l’universo femminile, la gestazione, la maternità, compreso il ciclo mestruale: “La relazione simbolica dei kuna con il mare è molto forte, tutte le creature nascono attraverso l’acqua che rappresenta il sangue mestruale della terra”. (Ma anche guardando agli albori della filosofia occidentale, il dio Okeanós non era altro che un grande flusso primordiale). Del resto è noto che la società kuna sia una rudimentale forma di matriarcato. Ho passato abbastanza tempo in queste isole per non avere dubbi: sono le donne, con i loro abiti coloratissimi e le lunghe cavigliere di perline (wini), a gestire le finanze e dunque ad avere potere all’interno delle famiglie. “Nella società kuna è la nonna materna l’autorità della casa”, mi ha detto, Cebaldo De León, protagonista di Panquiaco, un film che racconta la storia di un pescatore kuna che vive in Portogallo e soffre di nostalgia per la sua terra.
Muubilli, la nonna-mare: sarebbe bastato volerle bene e ricambiare. Al contrario, oggi l’oceano soffre. A queste latitudini più che mai, dato che in questi paradisi corallini si registra un innalzamento del livello del mare spaventosamente alto rispetto alla media (sei millimetri contro i due di media). Come i kuna, tanti altri “popoli del mare” sono a rischio e alcuni saranno costretti a breve a lasciare le loro isole.
“Il mare è la nostra casa, la nostra madre, la nostra vita. Se alteriamo il sistema è la davvero la fine. Quando potrà andare avanti così? Settant’anni? Non di più”, mi ha detto Rosalba Giugni, fondatrice di Marevivo, l’associazione che da 35 anni è in prima linea per la salvaguardia di quello che Giugni, napoletana figlia di armatori, subacquea fin dalla giovanissima età, chiama proprio madre mare (“a me piace chiamarlo Madre perché credo che il mare sia più importante della Terra, anzi che la terra si dovrebbe chiamare Mare”). Anche per Sylvia Earle, l’oceanografa più famosa del mondo, pioniera e icona dell’esplorazione sottomarina, bisognerebbe chiamare il nostro pianeta “Oceano” e non “Terra”, perché, dice, ”tutte le masse terrestri sono isole”. L’oceano ricopre il 70 % del globo, produce il 50% dell’ossigeno garantisce la sopravvivenza di 3 miliardi di persone, assorbe un terzo dell’anidride carbonica responsabile dei cambiamenti climatici e rappresenta il 98% del territorio abitato dalla vita. In termini di risorse, equivale al 5% del Pil mondiale. Dunque, queste donne hanno ragione: “senza blu niente verde”.
L’oceano ricopre il 70 % del globo, produce il 50% dell’ossigeno garantisce la sopravvivenza di 3 miliardi di persone, assorbe un terzo dell’anidride carbonica responsabile dei cambiamenti climatici e rappresenta il 98% del territorio abitato dalla vita.
Il problema, tuttavia, è che talvolta quello che accade nel mare, accade a centinaia di chilometri dalla terraferma. Gli abissi sono ancora inesplorati. L’oceano è lontano, invisibile per certi versi. La gente non sembra ancora associare l’agenda climatica all’importanza fondamentale dell’oceano. Avrei sempre voluto chiedere a Sylvia Earle, “sua profondità” come la chiamano negli Stati Uniti, se conosce la teoria dei kuna sulla nonna-mare, ma forse è oggi lei stessa, con la sua storia e il suo lavoro di divulgazione che continua instancabilmente a fare all’età di 86 anni, il simbolo e l’esempio da seguire.
L’ultimo numero della rivista-libro The Passenger, che ho co-curato, è dedicato all’Oceano. Lì, in una lunga conversazione con la giovane biologa marina peruviana Kerstin Forsberg, Earle dice: “Sento di aver vissuto l’epoca di maggior perdita di tutta la storia umana, ma anche quella di maggior apprendimento”. Tecnologia, accesso alle informazioni, satelliti che ci permettono di guardare l’oceano dall’alto. “La prossima generazione ha tutti gli strumenti per fare un salto e rafforzare la protezione del pianeta”. Anche perché ci ricorda Earle, la “super-nonna del nonna mare”, l’oceano in un modo o nell’altro, andrà avanti senza di noi. La domanda è: “Varrà lo stesso per noi?”.
Nel Guna Yala le donne raccontano che quando arriva un bambino si dice che lo porta il delfino. Se una cagna o una gatta è incinta, si fa credere ai bambini che i cuccioli sono cetrioli di mare e che presto usciranno dall’acqua per vivere con gli umani. Molte malattie per i kuna derivano dagli animali marini. In particolare sono da temere lo squalo, il coccodrillo o la manta, ma anche le sirene (ansu). L’ultima volta che sono stata a San Blas, nell’inverno 2013, mi è capitato di vedere un coccodrillo appollaiato sulla spiaggia bianca di Cayo Holandeses, una delle isole più maestose dell’arcipelago. In seguito mi hanno spiegato che avvistare un animale pericoloso o una sirena, come in molte culture animiste, ti ruba l’anima.
I miti delle sirene esistono quasi in ogni parte del mondo. Spesso si tratta di giovani donne maledette da altre donne. La sirena di Black Conch di Monique Roffey, autrice di Trinidad, è il romanzo (in Italia per Marsilio, traduzione di Ada Arduini) che ha vinto il Costa Book Award nel 2020. Il libro è una rivisitazione fascinosa e in chiave femminista di un antico mito caraibico: Aycayia, una donna indigena Taino, bandita dalla sua comunità a causa della sua straordinaria bellezza, è condannata a trasformarsi in sirena e a vivere nel mare per secoli e secoli. “Niente a che vedere con la sirena standard. Niente pettine né specchio, neppure capelli alla Lorelei”, ha twittato Margaret Atwood a proposito del libro, proprio a sottolineare l’originalità di una storia che, giocando con la lingua in modo audace, produce una potente testimonianza sulla femminilità, la vita postcoloniale e, naturalmente, sulla sacralità del mare:
Il mare, quella distesa di nulla, poteva rimandare a un uomo la propria immagine. Faceva quell’effetto. Era infinito e si agitava sotto la barca. Non era la stessa cosa che trovarsi su un pezzo di terra qualsiasi. Il mare si muoveva. Il mare poteva inghiottire la barca tutta intera. Il mare era la gigantesca donna del pianeta, fluida e contraria.
Margaret Atwood scrittrice e ambientalista canadese, da sempre sensibile al fascino dell’oceano, è una grande estimatrice di un’altra donna, l’antesignana dell’ambientalismo moderno: Rachel Carson. Atwood ha curato la prefazione delle riedizioni dei primi tre libri di Carson, di cui soltanto due ripubblicati anche in Italia: Il mare intorno a noi (1951) e La vita che brilla sulla riva del mare (1955). Scrive Atwood:
In tutti questi tre libri c’è un ritornello di fondo: ‘Guarda. Vedi. Osserva. Impara. Stupisciti. Chiedi. Concludi’. Rachel Carson insegnò ai lettori a guardare il mare – a pensare sul mare – in modo nuovo. Trasferì poi quello stesso habitus mentale alle osservazioni sulla vita degli uccelli, al declino che vi stava notando, osservazioni che in seguito portarono a ‘Primavera silenziosa’.(…) Rachel Carson è una delle più importanti antesignane degli odierni movimenti ambientalisti; come tale, ho fatto di lei una Santa dei Giardinieri di Dio nel mio romanzo ‘L’anno del diluvio’. Gli esseri umani hanno un enorme debito di riconoscenza nei suoi confronti, e se ci addentreremo nel ventiduesimo secolo come specie, in parte lo dovremo a lei. (…) Santa Rachel, ovunque tu sia, grazie.
Leggere Rachel Carson oggi, dopo 60 anni, è un formidabile viaggio nel tempo. Da poco tornato in libreria anche in Italia dopo decenni di assenza, La vita che brilla sulla riva del mare (Aboca, traduzione di Isabella C. Blum), è un testo moderno e cruciale per comprendere fenomeni misteriosi come le maree o la vita delle rive, quel “mondo che tiene vivo il senso di continuità della creazione e dell’incessante spinta della vita”. Nel 1955 Carson parlava già dell’uomo come un “precario intruso” che percepisce il potere e la minaccia del mare; aveva compreso a fondo il ruolo delicato dei coralli, delle mangrovie, l’importanza delle correnti marine. “Oggi infatti”, scriveva, “è chiaro che nessun essere vivente, in mare, vive per sé solo, indipendentemente dagli altri. L’acqua stessa è alterata nella sua natura chimica e nella sua capacità di influenzare i processi della vita […]. Il presente è dunque connesso al passato e al futuro, e ogni essere vivente è legato a tutto ciò che lo circonda”.
Il legame tra essere viventi è al centro della storia narrata ne La casa dei delfini (Edizioni e/o, traduzione di Silvia Montis), la vicenda di una donna che vive una profonda connessione con questi mammiferi e decide di unirsi a un gruppo di scienziati, stringendo così un legame sempre più intenso e profondo con un delfino. La storia è ispirata a quella di Margaret Lovatt, una donna che nel 1965 partecipò a un esperimento commissionato dalla NASA e condotto dal ricercatore John C. Lilly, personaggio geniale e controverso. Il tentativo del romanzo è quello di restituire la voce a Lovatt, senza dubbio bistrattata dalla comunità scientifica, dominata all’epoca da una certa prepotenza maschile. Schulman dice di aver scritto il romanzo proprio “per esplorare come sarebbe stata questa storia dal punto di vista della donna” e far emergere “le parti della storia che non erano mai state raccontate”.
Non è una novità che le donne abbia faticato a entrare nelle comunità scientifiche o a partecipare a spedizioni. Sylvia Earle è stata la prima donna a capo dell’agenzia statunitense NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). La prima volta che fece domanda per far parte di una spedizione, nel 1964, poiché a bordo c’erano 70 uomini e nessuna donna, le fu risposto che se la metà dei pesci in mare è di sesso femminile allora una donna a bordo “avrebbe fatto comodo”. Nel nostro paese è soltanto a partire dal 2000 che le donne sono libere di arruolarsi nella Marina Militare, donne che fino al 2016 non sono state ammesse nei sommergibili. A oggi, le donne rappresentano solo l’1 o il 2% del 1.250.000 di marinai imbarcati su 87.000 navi nel mondo.
Nel 1939 l’oceanografa e fotografa Anita Conti è stata la prima donna francese a imbarcarsi su una nave militare. Nei suoi libri ha raccontato le difficoltà di una vita in balia delle onde, il lavoro massacrante e la quotidianità accanto agli uomini di mare. Le fotografie di Anita Conti, morta centenaria nel 1997 e famosissima in Francia dove è ricordata come la dame de la mer – sono magnifiche: questa donna tenace è riuscita a fotografare il mondo dei lavoratori del mare, un mondo tutto maschile e a conquistarsi sul campo l’amicizia e la stima di pescatori e marinai. Pubblicò servizi sulle condizioni sanitarie degli allevamenti d’ostriche, riflessioni sul sovra-sfruttamento degli oceani. “Noi siamo i gestori, fugacemente passeggeri, di terre, arie e acque che dovranno nutrire folle in futuro, perciò si deve tramandare una proprietà correttamente mantenuta”, ha scritto Conti.
Il mare è la nostra casa, la nostra madre, la nostra vita. Se alteriamo il sistema è la davvero la fine – dice Rosalba Giugni, fondatrice di Marevivo –. Quando potrà andare avanti così? – si chiede – Settant’anni? Non di più.
Oggi, anche se in apparenza le cose sembrano completamente cambiate, il mare rimane un universo maschile: “In Mediterraneo nessuno ti chiamerà mai comandante”, mi ha detto Mira Ignatova, un’amica che vive e lavora da anni a bordo della sua barca a vela, “anche se la comandante sei tu, ti chiameranno sempre signora o lady. In giro per il mondo è un po’ diverso. Sono stata alle Canarie o in Martinica e ora sono a Panama, e qui tutti si rivolgono a me con captain. Ricordo ancora molto bene come sono stata trattata quando presi la patente nautica a Venezia… una donna non più giovane, e per di più immigrata, che vuole prendere la patente nautica!”. Ignatova, nata in Bulgaria e emigrata in Italia con la famiglia all’età di 16 anni, ha scelto la vita di mare soltanto all’età di 37 anni e a 40 ha mollato definitivamente gli ormeggi.
Mentre scrivo si trova nel Guna Yala, dove lavora facendo charter e accompagnando i turisti in giro per le isole. “Le donne kuna”, mi dice “non solo sono responsabili dell’economia, ma hanno anche la libertà di crescere alcuni bambini maschi come fossero femmine. Molti transgender sono abilissimi con le molas più intricate”. Nel Guna Yala non c’è dunque solo una sorta di naturale parità, ma anche una sorprendente tolleranza della fluidità di genere. Le omeggid, letteralmente “come una donna”, sono accettate a tutti gli effetti dalla società. E anzi celebrate come le miglior artigiane di quel paradiso perduto che dall’oceano ha imparato a rispettare le donne. O viceversa.
The Passenger Oceano sarà presentato a Milano nell’ambito della prima edizione del festival 2084 – Storie dal futuro, in programma il 17 e 18 giugno presso EastRiver, organizzato dalla Scuola di scrittura Belleville, a cura di Matteo De Giuli, Nicolò Porcelluzzi e Marco Rossari. Due giorni di dialogo tra letteratura e scienza, informazione e filosofia, per raccontare i nuovi modi di creare, di comunicare, di resistere. All’incontro, previsto sabato 18 giugno alle 11.30, interverranno Björn Larsson, Tecla Maggioni e Valentina Pigmei.