P rima della fine dell’Ottocento nessuno aveva mai immaginato il viaggio nel tempo. È una rivelazione scioccante quella su cui si basa Time Travel, ultimo libro del saggista americano James Gleick. Quando nel 1895 H.G. Wells pubblicò La macchina del tempo, il mondo entrò a contatto con una fantasia nuova, un nuovo orizzonte. Appena venticinque anni dopo l’uscita del racconto, il filosofo Samuel Alexander definì l’avvenuta “scoperta del tempo” come “la componente più caratteristica del pensiero degli ultimi 25 anni”. Se il Viaggiatore nel tempo di Wells dovette costruire un’intricata macchina per piegare lo spazio-tempo, altre storie promettono gli stessi risultati con una magia misteriosa (Game of Thrones, Harry Potter), un’astronave camuffata da cabina telefonica (Doctor Who) o un buco nero (Interstellar). Su tutto, poi, c’è la fantasia, l’immaginazione, domande come “Cosa farei se potessi viaggiare nel futuro?”; all’apparenza innate ma che, secondo Gleick, abbiamo scoperto solo alla fine del diciannovesimo Secolo. Com’è possibile?
Per capirlo dobbiamo partire da due delle invenzioni più rivoluzionarie della Storia, la ferrovia e il telegrafo, che plasmarono il nostro territorio e stravolsero la società tra Prima e Seconda rivoluzione industriale. Entrambe queste tecnologie aprirono nuove “porte della percezione”, riducendo le distanze e unendo luoghi isolati e distanti: cambiarono per sempre il nostro rapporto con lo spazio e il tempo – o spazio-tempo, come abbiamo imparato a chiamarlo con Einstein. Prima del 1847, ogni centro abitato aveva il “suo” tempo, sancito da una meridiana e indicato da campanili e orologi che scandivano l’alba, il dì, il meriggio e così via. Era un mondo lento e isolato che all’improvviso scoprì come, con il vapore dei treni e i cavi del telegrafo, si potesse viaggiare e comunicare a velocità nemmeno concepibili prima di quel momento. Fu uno shock culturale e psicologico, il genere di innovazione che dà un senso alla massima di Arthur C. Clarke: “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”.
La creazione di un sistema ferroviario nazionale spinse il governo inglese a sancire un orario universale per tutto l’Impero. L’intento era puramente logistico, ma i suoi effetti furono inaspettati. Allineandosi a Greenwich nel 1847, l’allora Impero Britannico “inventò” il tempo e la sua legge – il che significava che chiunque poteva finalmente infrangerla. Erano tempi di viaggi ed esplorazioni, tempi in cui chiunque poteva salire su un treno e guardare dal finestrino il tempo e lo spazio deformarsi e cambiare: in diretta, davanti ai suoi occhi. Secondo Gleick anche questa visione straordinaria – il mondo che scorre mentre il passeggero rimane fermo – fu d’ispirazione a Wells per la sua macchina del tempo. Il viaggio nel tempo divenne così un topos letterario e cinematografico e lo fece all’improvviso, attraversando in pochi anni tutti gli stadi della riflessione sul genere, con domande come: ma è possibile? Ha senso? In che punto dello spazio arriverebbe il viaggiatore? E se tornasse indietro nel tempo per uccidere suo nonno, che ne sarebbe di lui? Quest’ultima domanda è nota come “il paradosso del nonno”.
A distanza di un secolo il viaggio nel tempo continua ad affascinarci e stupirci ma non risulta più scioccante, può essere al massimo buon colpo di scena (il citato twist di Game of Thrones è un ottimo esempio del fenomeno). Esiste poi una bibliografia antica sul viaggio nel tempo veicolato dal sonno, come nella storia di Kakudmi del poema epico hindu Mahabharata. Oppure dalla distrazione, come succede al leggendario pescatore giapponese Urashima Tarō, trovatosi nel futuro dopo essersi allontanato da casa; per arrivare a Edgar Allan Poe, che raccontò di aver trovato una messaggio in bottiglia datato primo aprile 2848. Ma c’è un altro tipo di viaggio nel tempo che non richiede macchine sbuffanti di vapore: è la premonizione del futuro, una categoria narrativa che precede l’opera di Wells e affonda le sue radici nel Mito. Ecco allora che un solo pensiero sullo spazio-tempo diventa un motore narrativo: non è un caso quindi che Time Travel sia un libro letterario e non scientifico.
Hawking ha organizzato una festa segreta per crononauti organizzata nel passato e resa pubblica nel futuro: inutile dirlo, nessuno si è presentato.
Ma è soprattutto un’opera etimologicamente “fantascientifica”: parte da una fantasia (fiction) e finisce per flirtare con la fisica. Sin dai suoi albori il viaggio nel tempo ha sfruttato una certa idea di scienza per giustificarsi – del resto il protagonista di Wells è uno scienziato e la sua storia comincia con una dimostrazione pratica della sua invenzione. Per questo Gleick dedica gli ultimi capitoli del libro a una discussione scientifica dell’argomento, cominciando dal citato paradosso del nonno, dove il nonno rappresenta il passato, la linea temporale alle nostre spalle, sconvolta dall’intervento di un viaggiatore. Nella saga di Doctor Who, l’undicesimo Dottore arriva a provocare un “secondo Big Bang”, un “reboot” dell’universo per salvare l’universo stesso – e i suoi amici; in Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, Hermione piega lo spaziotempo con un TimeTurner (GiraTempo), una collana magica. In entrambi i casi un evento del futuro arriva a causare un evento del passato. È un paradosso in grado di mandare in panne la testa del lettore medio, figuriamoci quindi l’effetto che può fare su quella di un cosmologo.
Secondo la definizione di David Hume, infatti, “una causa è un oggetto seguito da un altro, il cui apparire ci fa ritenere che debba apparire anche il secondo”. E allora che succede quando la causa di un oggetto è successiva all’oggetto stesso? Si tratta di un paradosso che ha spinto gli scienziati a cambiare la loro posizione su cause ed effetti: “Il motivo per cui i fisici hanno smesso di cercare le cause è che, in realtà, esse non esistono”, scrisse Bertrand Russell nel 1913. Il più grande scienziato del nostro tempo, Stephen Hawking, sembra essere partito da qui per i suoi studi sull’argomento, scrivendo nel 1991: “È stato suggerito che una civiltà avanzata potrebbe ottenere la tecnologia in grado di piegare lo spazio-tempo fino a far comparire curve temporali, che permettono di viaggiare all’indietro nel tempo”. La teoria del fisico inglese contiene una possibile soluzione al “paradosso del nonno”, una cosa che il fisico chiama “congettura di protezione cronologica”, una proprietà secondo cui il flusso del tempo è protetto dalle manomissioni dei crononauti. Hawking aveva anche una prova empirica a suffragio della sua idea: “Non siamo stati invasi da orde di turisti provenienti dal futuro”. E a proposito di prove empiriche, Hawking ha confessato nel 2012 di aver organizzato “anni fa” un ritrovo per viaggiatori nel tempo. Siamo all’accettazione del paradosso: una “festa” segreta per crononauti organizzata nel passato e resa pubblica nel futuro, per venire incontro alle esigenze dei viaggiatori. Inutile dirlo, nessuno si è presentato.
Eppure, viaggiare nel futuro sembra così facile, quando ci limitiamo a farlo nella nostra testa. La nostra idea mentale di tempo è fatta di ricordi legati al passato e aspettative future, scenari che possiamo simulare e visitare senza alcune fatica. Lo chiamano mental time travel (viaggio mentale nel tempo) ed è una capacità innata. Se la rivisitazione del passato (memoria episodica) ha generato una bibliografia notevole, la capacità di “costruire episodi futuri” è invece materia di studi recente, come scrivono Thomas Suddendorf e Michael C. Cornballs. Lo sviluppo di questa capacità avrebbe avuto un ruolo di rilievo nella nostra evoluzione: il mondo è dinamico e pieno di pericoli, e chi sa immaginare cosa succederà ha più possibilità di salvarsi. Tra la profezia e la visione sciamanica, la capacità di “ricostruire eventi passati e di costruire quelli futuri potrebbe essere responsabile del concetto stesso di tempo”; potrebbe aver tracciato la linea del tempo lungo cui distribuiamo ricordi e scenari futuri. Essa è il nostro tempo, quello che noi attraversiamo mentalmente.
Ecco quindi come abbiamo imparato a viaggiare nel tempo: sfruttando un’abilità mentale pregressa, favorita dall’evoluzione e stimolata dalla modernità. A partire dal diciannovesimo secolo l’Occidente ha vissuto uno sviluppo sfrenato, un’accelerazione tale da spingere l’allora capo del Dipartimento Brevetti statunitense Charles Holland Duell a dichiarare: “Tutto quello che può essere inventato è già stato inventato”. Erano i primissimi anni del Novecento, l’aeroplano era ancora fantasia così come il telefono, le bombe atomiche, internet e molto altro. Poco importa che l’affermazione di Duell sia una bufala: è troppo “perfetta” per non crederci. Per questo Duell continuerà a essere “quello che non ha previsto il Ventesimo secolo” e quell’episodio del passato rimarrà reale nonostante la Storia. Anche questo, a ben guardare, è un paradosso temporale.