L a vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali del novembre 2016 rappresenta un momento critico per il negoziato internazionale sul clima e le conseguenti politiche degli Stati Uniti. Il curriculum, in questo ambito, del magnate statunitense lascia pochi dubbi: ancora prima della campagna elettorale, le sue dichiarazioni sono state di sistematica negazione del problema climatico, condite dallo scherno nei confronti di chi ne segnalava invece l’importanza e la gravità. Numerosi “tweet climatici” di Trump sono diventati famosi, tweet che hanno seguito spesso uno schema semplice ed efficace: partire dalle temperature fredde di qualche giorno in qualche luogo e ironizzare sull’inesistenza del riscaldamento globale, un cliché parecchio abusato da chi non ha chiara la distinzione fra il tempo meteorologico locale e il clima globale. Il tweet più discusso è stato però quello in cui Trump ha definito il problema del riscaldamento globale “una bufala inventata dai cinesi per minare la competitività dell’industria americana”, che ha fatto il giro del mondo, accolto da sconcerto e risate più o meno divertite.
Durante la campagna elettorale del 2016 Trump non ha poi esitato a manifestare i suoi dubbi sull’origine antropica del riscaldamento globale. Ha promesso di cancellare l’adesione all’Accordo di Parigi, di annullare il sostegno al Green climate Fund della Convenzione sul Clima delle Nazioni Unite, di revocare le restrizioni allo sviluppo di combustibili fossili, e di fare tutto questo nei primi 100 giorni del suo mandato. Non è stato certo uno dei temi portanti della sua proposta elettorale, ma il messaggio è stato chiaro: basta con la preoccupazione per il clima, basta con i limiti ai combustibili fossili, occupiamoci solo dei posti di lavoro e della ricchezza del paese. Un messaggio che riporta indietro di quarant’anni il pur ambiguo dibattito sul tema dello sviluppo sostenibile, ma che ha avuto indubbiamente successo.
Non essendo uno sprovveduto, è molto probabile che Donald Trump non creda davvero a quanto ha detto o scritto nei tweet. Queste posizioni antiscientifiche e irrazionali sono molto probabilmente dovute alla necessità di conquistarsi spazio politico e consensi in un elettorato, quello repubblicano, in cui la negazione del problema del surriscaldamento globale rimane prevalente, seppur in diminuzione negli ultimi anni. Non ha quindi destato particolare sorpresa sapere che una delle prime dichiarazioni sul tema dopo la sua elezione a 45° presidente degli Stati Uniti (“Credo ci siano delle connessioni – fra riscaldamento globale e attività umane, ndr – Alcune, in qualche caso. Dipende quanto“) sia stata vista come una parziale marcia indietro, se non un’apertura.
Trump si è circondato di numerose persone da anni impegnate a combattere in modo sistematico la scienza del clima e a ostacolare le azioni federali per la decarbonizzazione del sistema energetico statunitense. Ha fatto scalpore il caso di Myron Ebell, direttore della sezione energia e ambiente del think tank Competitive Enterprise Institute e leader della “Cooler Heads Coalition”, due fra le lobby più attive nell’opposizione alle politiche climatiche, con budget sostenuto in vario modo dall’industria fossile. Un vero negazionista-lobbista climatico, messo a guidare la “squadra di transizione” per l’Agenzia di Protezione Ambientale (EPA) statunitense. Il 7 dicembre 2016 Trump ha poi nominato come Amministratore capo della stessa EPA Scott Pruitt, un avvocato che ha guidato la battaglia dei repubblicani contro le normative sull’ambiente e il clima dell’amministrazione Obama. Sarebbe stato difficile tempo fa immaginare una scelta peggiore di questa. Ma ce ne sono altri, con curriculum simile, che saranno messi in altrettanti posti chiave.
Le azioni che Donald Trump riuscirà effettivamente a intraprendere saranno però molto probabilmente lontane da quanto annunciato nella retorica elettorale, perché il sistema normativo statunitense e il negoziato sul clima sono complessi e con procedure ben definite, che richiedono tempo. Non sarà semplice togliere norme delle leggi statunitensi sulle emissioni costruite in tanti anni; se riuscirà a farlo, è probabile che dovrà fronteggiare azioni legali di ambientalisti e di una parte del mondo industriale che non vuole il ritorno al secolo scorso.
L’Accordo di Parigi è un accordo internazionale, legalmente vincolante, entrato in vigore e ratificato a oggi da 115 Paesi, come strumento di attuazione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) del 1992. Trump potrebbe provare a ritirare formalmente l’adesione degli USA all’accordo, ma sarebbe un processo lungo, che si concluderebbe nel 2020, quando il mandato di Trump (salvo rielezione) sarà sostanzialmente già terminato. Ma di fatto questo significherebbe far uscire gli Stati Uniti dall’intero processo della Convenzione sul Clima approvata e ratificata sotto la presidenza repubblicana di George Bush. Questo avrebbe ripercussioni enormi sulla politica estera americana, sarebbe un grave precedente a livello internazionale per ogni futuro accordo in settori anche diversi da quello del clima. Troppo anche per un “provocatore” come Trump.
Chi teme quindi che Trump e la sua accolita di negazionisti-lobbisti possa affossare l’accordo di Parigi – come la junta petrolifera George W. Bush / Dick Cheney affossò il Protocollo di Kyoto – può stare tranquillo. Oggi lo scenario è profondamente cambiato, ci sono tanti altri attori importanti nell’arena del negoziato internazionale. Qualche anno fa si temeva il collasso del sistema multilaterale dell’UNFCCC, in cui c’erano forze che spingevano per lasciare tutto in mano ad accordi bilaterali o a imprecisate spinte di innovazione dei mercati, che avrebbero dovuto, grazie a meccanismi simili alla magia, portare alla riduzione delle emissioni. Oggi i nodi delle questioni sono chiari, il percorso è delineato, il periodo dei tentennamenti è finito.
L’effetto più grande di Trump sarà il minore impegno statunitense nelle politiche climatiche federali, il minore livello di ambizione e di velocità nel percorso verso la decarbonizzazione.
Se l’abbandono del negoziato UNFCCC appare poco probabile, il danno politico sarà comunque rilevante. Innanzitutto per il clima di fiducia del negoziato, che ha permesso a Parigi un accordo fra 194 Paesi. Il danno maggiore sarà probabilmente nel rifiuto a contribuire al Green Climate Fund, il fondo creato nell’ambito del negoziato UNFCCC per aiutare i paesi più poveri a ridurre le emissioni e ad adattarsi ai cambiamenti del clima già in corso, e che dovrebbe raggiungere i 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020. La marcia indietro degli Stati Uniti potrebbe produrre una reazione a catena nello stanziamento di fondi (EU, Giappone, Cina, ecc.); e visto che parte degli obiettivi di riduzione delle emissioni dei paesi in via di sviluppo sono condizionati da questo supporto economico vitale per il trasferimento tecnologico, l’ambizione dei paesi più poveri nel ridurre le emissioni potrebbe subire un ridimensionamento.
L’effetto più grande dell’amministrazione Trump sarà probabilmente il minore impegno statunitense nelle politiche climatiche federali, il minore livello di ambizione e di velocità nel percorso verso la decarbonizzazione che sarà deciso nel prossimo NDC (Contributo Determinati a livello Nazionale), il documento formale che ogni paese è chiamato dall’Accordo di Parigi a proporre ogni 5 anni, dopo il primo proposto nell’ambito della COP21.
In uno dei suoi ultimi atti, l’amministrazione Obama aveva approvato e comunicato all’UNFCCC, nei giorni della COP22 di Marrakech, la “long term strategy” degli Stati Uniti: una strategia che prevede una riduzione delle emissioni di gas serra dell’80% rispetto il 2005 entro il 2050, con interventi coordinati in tutti i settori; anche questa strategia potrebbe finire su un binario morto.
Non va però dimenticato che le politiche sul clima negli Stati Uniti non dipendono solo da scelte federali: molti sono gli impegni ambiziosi da parte di grandi città statunitensi, alcune delle quali hanno firmato una lettera chiedendo formalmente a Trump di mantenere l’impegno sul clima. Sono impegni di Stati, di aziende, di investitori. Sono azioni che in larga parte proseguiranno anche con un cambiamento di direzione o di impegno del livello federale.
Negli Stati Uniti una grande parte della popolazione e del mondo industriale ha posizioni sul clima che sono ad una distanza siderale da quelle di Trump. Il programma su clima e energia della candidata sconfitta, Hilary Clinton, e ancora di più quello del candidato democratico sconfitto alle primarie, Bernie Sanders, erano molto avanzati, con riferimenti espliciti alla tassazione delle emissioni di CO2 o ai limiti alle estrazioni di combustibili fossili.
Per chi per anni ha faticato a sopportare la lentezza del processo negoziale UNFCCC, un processo incrementale in cui le diverse componenti dell’Accordo di Parigi sono state concordate e assemblate con molta fatica, quanto succederà nei prossimi mesi negli Stati Uniti ha un’importanza comunque cruciale, di cui è necessario cogliere la sostanza, al di là dei dettagli.
Nonostante la creatività e lo sforzo encomiabile di molti negoziatori e gli appelli all’azione di tante personalità a livello globale (Papa Francesco incluso), a minare l’operatività dell’Accordo sul clima di Parigi c’è oggi qualcosa di molto semplice, ossia il rifiuto di una parte dell’oligarchia mondiale più responsabile della situazione attuale (per via delle presenti e passate emissioni di gas serra) ad assumersi le proprie responsabilità, ad accettare una declinazione del principio di “equità” nella ripartizione degli sforzi di riduzione delle emissioni che non sia solo a proprio vantaggio. “Al Congresso non accetterebbero il principio di equità”, ha ammesso anni fa il vice capo della delegazione sul clima degli Stati Uniti, Jonathan Pershing.
Si vedrà quanto le lobby interessate a perpetuare il loro potere politico ed economico, a difendere gli interessi monetari sul breve periodo potranno davvero agire sulla sostanza dell’azione globale contro il cambiamento climatico, magari nascondendosi dietro qualche concessione occasionale o cortine fumogene procedurali.
I risultati dei lavori della COP22 che si è svolta a Marrakech dal 7 al 18 novembre, durante i quali si è appreso della vittoria di Trump, sembrano indicare che per ora non si è fermato il “momentum” positivo sancito dalla firma e successiva rapida ratifica dell’Accordo di Parigi.
Nei documenti approvati nella capitale del Marocco sono stati ripetuti gli impegni a raggiungere gli ambiziosi obiettivi dell’Accordo di Parigi (mantenere l’incremento della temperatura media mondiale “ben al di sotto dei 2°C” rispetto ai livelli pre-industriali, “compiendo ogni sforzo per limitare l’incremento della temperatura a 1,5°C”), ed è stata rafforzata ulteriormente la collaborazione globale sul clima, in cui le azioni degli Stati nazionali sono affiancati da quelle di Regioni (o Stati nel caso di nazioni con governi federali), città, aziende, investitori, o della società civile.
Nelle successive COP23 e COP24 nei prossimi due anni si capirà quanto il freno di Trump sarà importante, quanto influirà sui rilanci di riduzione delle emissioni che sono indispensabili per imboccare la traiettoria verso la rapida riduzione delle emissioni climalteranti necessaria per evitare gli impatti più pesanti del surriscaldamento globale.