C’ è nebbia sull’altopiano, come quasi tutte le mattine. La temperatura è sotto lo zero e c’è un vento molto forte. La famiglia si sveglia e si stiracchia, come tutte le mattine. Non sarebbe male un po’ di colazione, ma la cena di ieri è finita. Bisognerà presto muoversi e cercare qualcosa da mangiare, magari un altro rattotalpa. Ma oggi c’è qualcosa di diverso nell’aria. Un odore sbagliato, estraneo. Umani. Non i soliti umani che vengono qui di tanto in tanto a portare le vacche al pascolo. Questi sono umani diversi, di quelli che vengono da lontano, di solito per osservare gli abitanti dell’altopiano. Arrivano, occasionalmente, scattano qualche fotografia, e poi se ne vanno. Basta tenersene alla larga. Solo, questi sembrano intenzionati a non andarsene. A volte accade, arriva un gruppo che osserva, conta, misura, esamina e resta più a lungo. Eppure tutti alla fine vanno via, perché qui, sull’Altopiano di Sanetti, in Etiopia, le condizioni sono proibitive: c’è posto soltanto per chi non avrebbe altro luogo dove andare. Generazione dopo generazione, animali e piante si sono adattati a questo ambiente di alta quota, oltre i 4.000 m, su un’isola circondata da terra, e sono diventate specie uniche al mondo.
In spedizione per il lupo etiope
In questo ambiente isolato, freddo, senza alberi o cespugli, diversissimo da qualunque altro posto in Africa (se non le vicine zone montane del centro dell’Etiopia), il predatore al vertice della catena alimentare è il lupo più raro e a rischio del mondo: il lupo etiope, Canis simensis, di cui si stima rimangano poco più di 300 esemplari, in declino a causa della perdita di habitat, soprattutto, e recentemente a causa di rabbia e cimurro portati dai cani che accompagnano le vacche al pascolo d’alta quota. C’è solo un progetto che se ne occupa a lungo termine, l’Ethiopian Wolf Conservation Programme, dell’Università di Oxford, finanziato principalmente dalla Fondazione Nata Libera e dalla Frankfurt Zoological Society. Il progetto, senza il quale il lupo etiope sarebbe abbandonato a se stesso, salvo la protezione legale offerta dal governo, monitora le popolazioni dal 1995. La specie, non iscritta nelle liste CITES che regolano prelievi, spostamenti e commercio degli animali, è localizzata unicamente su sette massicci montuosi in Etiopia, sempre sopra la linea degli alberi oltre i 3500 m: studiarla non è semplice. Non esistono esemplari in cattività di questi animali, in nessuno zoo, né programmi di ripopolamento.
Una spedizione italiana organizzata dal fotografo naturalista Nicola Destefano si è recentemente recata sull’altopiano di Sanetti, parte del Parco Nazionale delle montagne Bale, per fotografare gli ultimi esemplari del rarissimo lupo etiope, per documentarne la vita quotidiana prima dell’irreparabile, e per poter raccontare al pubblico italiano la storia di questo insolito canide diurno, che si nutre unicamente di strani roditori endemici del luogo. Il team era composto da tre fotografi professionisti, due biologi, un medico e tre semplici curiosi che hanno voluto aggregarsi. Ma la partecipazione di persone del posto è stata fondamentale per la riuscita della spedizione, che si è avvalsa di uno scout del parco, un autista, due cuochi e tre persone del team permanente di ricerca, con l’aiuto di un tour operator locale per l’organizzazione della logistica.
Trekking africano
Le difficoltà per il viaggiatore o per il ricercatore che decida di soggiornare sull’altopiano sono moltissime. La prima è che ci si trova sopra i 4.000 m di quota, come trovarsi poco sotto la cima del Monte Bianco, e quindi è facile rimanere in debito di ossigeno. Una pista consente ai veicoli di arrivare sul plateau, ma il trekking alla ricerca dei lupi richiede comunque prestazioni fisiche notevoli, non alla portata di tutti. Il clima è relativamente piovoso, soprattutto tra luglio e ottobre; le temperature sono alpine, e di notte possono scendere anche sotto lo zero: un contrasto stridente rispetto al clima caldo di Addis Abeba, e che può prendere l’incauto di sorpresa. L’ultima notte la spedizione italiana è stata salutata con uno spesso strato di brina che ricopriva tutto, le tende, il suolo e gli attrezzi, e una temperatura scesa a -4 °C.
L’acqua potabile bisogna portarsela con sé, salvo ridursi a bere quella dei laghetti temporanei in cui passano i bovini, e naturalmente anche il cibo. Non c’è modo di lavarsi, fa troppo freddo per docce di fortuna e non c’è abbastanza acqua pulita. Questo può rappresentare un problema: dal momento che si tratta di una prateria alpina e la vegetazione è bassissima, l’unico modo per avvicinarsi ai lupi per osservarli senza infastidirli è strisciare carponi per terra, controvento. Ma il suolo è ricoperto di escrementi dei vari animali che vi risiedono, dai roditori, ai lupi, ai bovini, che si degradano lentamente per via delle basse temperature: si finisce dopo il primo giorno ad avere tutti i vestiti di un nuovo colore marroncino. Si dorme rigorosamente in tenda e i rifiuti bisogna bruciarli o portarli giù a valle, come ogni alpinista ben educato sa.
L’unico conforto è che c’è una “toilette”, un pozzo scavato nel suolo e ricoperto da assi, con delle stuoie ai lati per la privacy, simpaticamente ribattezzata dal team “La fossa comune”. Le osservazioni naturalistiche cominciano già il mattino nella “fossa comune”, poiché i roditori endemici che abitano il plateau, tutte specie a rischio, sembrano esserne attratti ed è facile incontrarli proprio lì, mentre si pensa ad altro. I lupi fortunatamente se ne tengono a distanza. Sul plateau ci sono solo altre due costruzioni, due capanne: la casa del custode, un impiegato del Parco Nazionale dei Monti Bale, e un casotto di proprietà della Frankfurt Zoological Society che offre supporto logistico ai ricercatori.
I lupi e il loro ambiente
I lupi etiopi non hanno paura dell’uomo, si sono evoluti in totale isolamento in alta montagna, in zone tradizionalmente prive di presenza umana. La specie inoltre non è mai stata cacciata: c’è la credenza che se anche un solo pelo del lupo dovesse entrare in una ferita, la morte sarebbe inevitabile. L’isolamento totale di questi animali tuttavia è una condizione piuttosto recente.
Le praterie afro-alpine etiopi erano molto più estese durante l’ultima era glaciale e secondo le analisi genetiche la specie discende da un antenato lupino che, circa 100.000 anni fa, riuscì a sopravvivere in questi ambienti estremi allora in rapida espansione, dando origine a questa nuova specie sorprendentemente adattata all’alta quota: non riesce a sopravvivere altrove, il suo cranio ha una forma ottimizzata per nutrirsi esclusivamente di roditori alpini.
La fine dell’era glaciale, 15-10.000 anni fa, comportò il ritrarsi delle praterie afro-alpine e l’isolamento delle popolazioni di lupi in tre raggruppamenti principali. Oggi i lupi sono separati in sette popolazioni, e questo isolamento genetico ne compromette ancora di più la sopravvivenza, poiché aumenta la consanguineità, con tutti i rischi che derivano dall’avere popolazioni con poca variabilità genetica. Al momento la popolazione più numerosa è proprio quella dei Monti Bale dove c’è l’Altopiano di Sanetti, mentre la popolazione più a rischio, quella del Monte Guna, potrebbe essere già estinta.
Il lupo del Semien, dal nome di una delle catene montuose dove è presente, deve il suo nome e descrizione scientifica all’esploratore tedesco Eduard Rüppell, il primo naturalista che abbia mai attraversato l’Etiopia (allora chiamata Abissinia), nel 1830. Rüppell si era formato come naturalista in Italia, alle università di Pavia e Genova, ma la sua spedizione in Abissinia fu finanziata dal Senato di Francoforte, dove ahimé furono inviati tutti i campioni zoologici, lupo incluso: evidentemente i fondi per la ricerca italiani erano scarsi anche all’epoca. Il primo riferimento noto a questa specie, tuttavia, è molto più antico e risale a circa il III secolo d.C.: Gaio Gulio Solinuo autore di De Mirabilibus Mundi (le meraviglie del mondo), riferisce che:
L’Etiopia produce lupi, muniti di folto pelo sulla nuca e tanto variopinti che dicono non gli manchi alcun colore. Una caratteristica tipica dei lupi etiopi è che saltano così in alto che sembra abbiano ali, al punto da essere pi
ù veloci con questo slancio che con la corsa. Tuttavia, non aggrediscono mai gli uomini. Nella stagione fredda sono pelosi, d’estate nudi. Gli etiopi li chiamano “theas” (Traduzione dal latino di Anna Rita Longo).
Non una descrizione precisa per quanto riguarda il mantello, che probabilmente si riferisce ai licaoni, a loro volta presenti in Etiopia, ma dettagliata riguardo le abitudini dei lupi del Semien: non attaccano mai l’uomo, e neanche le pecore, se ne avessero, perché sono specializzati a catturare i roditori endemici del plateau, soprattutto il rattotalpa gigante (Tachyoryctes microcephalus), un topone che vive in colonie in tunnel sotterranei e pesa 900 grammi, il ratto dei prati di Blick (Arvicanthis blicki) e un topino che non ha nome comune in italiano ma risponde al nome scientifico di Lophuromys melanonyx.
Questi tre roditori da soli costituiscono l’87% della dieta del lupo etiope, e il rimanente 13% è costituito da altri mammiferi, uova o raramente dalla lepre etiope, anch’essa endemica. Il lupo del Semien infatti è uno dei soli quattro canidi al mondo (insieme al licaone, allo speoto e al cuon alpino) ad avere una dieta ipercarnivora, cioè costituita esclusivamente da carne, in quanto non c’è altro sull’altipiano. I nostri cani, i lupi e le volpi, al contrario, mangiano una porzione di materiale vegetale non indifferente. Per prendere i roditori il lupo etiope, come le nostre volpi, caccia all’agguato e salta a quattro zampe sulla preda, facendo con le lunghe zampe effettivamente dei salti mirabili per stanarla: su questo Solino aveva perfettamente ragione.
Fotografie e ricerche
I lupi del Semien cacciano da soli, ma vivono in branchi che vanno da 3 a una dozzina di individui, e che si riuniscono all’alba, a mezzogiorno e al tramonto per rafforzare i legami sociali. In una di queste riunioni è capitato Destefano, che è anche l’autore di queste foto: “seguendo un lupo per fotografarlo, sono finito in un sito di rendez-vous. Ho lasciato lo zaino a 100 metri, e ho strisciato sui gomiti per avvicinarmi e posizionarmi dietro l’unica forma di sparuta vegetazione che mi avrebbe consentito di non essere troppo esposto, per non spaventarlo o farlo allontanare; si era sdraiato. Quando ero già abbastanza vicino, dopo alcuni minuti, e coperto dalla vegetazione, ho prima notato un altro individuo venir giù da un lato della montagna in quella direzione e poi ne ho sentito uno a destra in allarme. Io non l’avevo visto, lui non mi aveva visto e ci siamo ‘spaventati’, così mi ha girato intorno per 5 minuti compiendo un angolo di quasi 360° e ho scattato”.
I ricercatori dell’Ethiopian Wolf Conservation Programme hanno mostrato agli italiani i territori e la struttura dei vari branchi, identificando i singoli individui con una destrezza sorprendente, e raccontandone le storie. Il loro compito era raccogliere dati etologici sulle abitudini del lupo, sul tipo e quantità di prede cacciate, sugli individui alfa, su cosa gli helper, gli individui giovani, portassero da mangiare ai fratelli minori, sullo stato dei singoli individui e sulla composizione dei branchi, che varia periodicamente. Le osservazioni venivano effettuate tre volte al giorno, mattino, mezzogiorno e sera, su tre branchi in particolare. Uno di questi, il più vicino ai capanni, viene chiamato il “BBC pack”, il branco della BBC, perché è quello su cui si sono focalizzate le attenzioni di una troupe britannica che ha girato un documentario sull’altopiano qualche anno fa.
I ricercatori hanno raccolto campioni di feci per gli studi genetici e un cranio di lupo. Uno dei lupi, hanno raccontato, era scomparso e se ne erano perse le tracce. Il cranio è la testimonianza della morte dell’animale, per cause naturali.
L’università di Oxford, responsabile del progetto, insiste sull’impiego di personale locale, di etnia Oromo, che viene appositamente istruito e addestrato, in modo che possano far apprezzare alle proprie comunità l’importanza di questi animali, e anche per fare in modo che le comunità stesse abbiano una ricaduta economica positiva grazie al lupo. Una scelta vincente, anche considerata l’abilità mostrata da questi ragazzi, tutti sotto i 25 anni, nel monitorare la specie.
Convivenza e sopravvivenza
Per gli esseri umani, le condizioni di vita nei villaggi montani eritrei spesso non sono ottimali e possono avere conseguenze sulla salute. “Uno dei ricercatori, Abebe,”, racconta Destefano, “una sera era chiaramente sofferente a causa di un grave mal di denti. Quanto gli chiedemmo cos’aveva e se potevamo fare qualcosa per aiutarlo, ci fu risposto dal suo collega: “si sta già curando”. La cura, ci accorgemmo, consisteva nell’arroventare un gancio di ferro sulla brace e metterlo sul dente dolente, per calmare il dolore. Fortunatamente il medico della spedizione ha somministrato al ragazzo antinfiammatori per tutto il periodo in cui siamo rimasti, per ridurre il problema in attesa di una soluzione definitiva, a valle”.
“In Etiopia”, spiega Destefano, “i farmaci costano moltissimo e non sono alla portata di tutti, per cui è frequente far ricorso a sistemi tradizionali. E per il mal di denti, in molti casi l’unica cura è l’estrazione”.
Non si sa quanto ancora potrà resistere la specie sull’altopiano, e con essa tutto il delicato ecosistema che ha intorno: il già ridottissimo territorio viene continuamente eroso alla ricerca di nuovi pascoli e terre da coltivare. La popolazione etiope è tra quelle a crescita più rapida al mondo: è passata da 22 milioni nel 1960 a 108 milioni nel 2018, e si stima che raggiungerà 210 milioni nel 2060. Il 60% di tutto il suolo sopra i 3200 metri è già stato convertito in terreno arabile e tutte le popolazioni di lupo etiope sotto i 3700 metri sono considerate particolarmente a rischio. Le passate guerre civili hanno portato ad avere molta gente armata sul territorio, e ne hanno fatto le spese gli animali selvatici, lupi inclusi. Al momento tuttavia, malgrado gli scontri e disordini in corso tra la popolazione, il lupo sembra essere al sicuro perché lontano dalla zona di conflitto.
Il problema più cocente per i lupi etiopi al momento sembra riguardare la sopravvivenza dalle malattie portate dai cani, rabbia e, recentemente, cimurro, in particolare sui monti Bale. L’epidemia di cimurro attualmente in corso ha portato alla scomparsa di diversi branchi e al crollo di intere popolazioni. Un fattore meno pressante ma esistente, infine, è l’ibridazione col cane domestico, che potrebbe far perdere per sempre i caratteri così speciali di questa specie.
Il progetto di Oxford sul lupo etiope sta fortunatamente lottando per arginare i problemi: sono in corso al momento campagne di vaccinazioni sia per i cani che per i lupi, la sterilizzazione degli individui ibridi, un programma di educazione della popolazione dei monti Bale a partire dalle scuole, l’aumento della sorveglianza e del monitoraggio delle popolazioni. Il trend della popolazione di questo specialissimo lupo resta tuttavia in declino. Possiamo solo sperare per il meglio, e di poter continuare a coesistere ancora a lungo con questo insolito predatore, relitto e testimonianza di un tempo in cui il pianeta era un po’ più freddo e molto meno antropizzato.
Fotografie di Nicola Destefano.