N ell’aprile scorso l’American Museum of Natural History di New York ha ospitato l’annuale “Isaac Asimov Memorial Debate” e ha invitato alcuni ospiti illustri a discutere del quesito “Il nostro universo è una simulazione?”. Per l’esattezza si trattava del filosofo David Chalmers, autore di Che cos’è la coscienza?; e dei fisici teorici Zohreh Davoudi, James Gates Lisa Randall e Max Tegmark. A moderare l’incontro c’era l’astrofisico Neil deGrasse Tyson, il volto più noto della divulgazione scientifica americana. Tanta concentrazione d’intelligenza per una domanda così bizzarra sembrerebbe una perdita di tempo. Se non che tutti i relatori, con l’eccezione di Lisa Randall, sono sostenitori più o meno convinti del cosiddetto simulation argument: l’ipotesi secondo cui l’universo sarebbe una simulazione informatica programmata da una super-intelligenza esterna alla nostra realtà. Specificità tecnologiche a parte, non si tratta di un’idea nuova. Dal velo di Maya alla caverna di Platone, dal dubbio metodico di Al-Ghazali al genio maligno di Cartesio, per finire con l’esperimento mentale del cervello nella vasca di Putnam; lo scetticismo circa l’autentica natura della realtà ha attraversato tutte le epoche e le latitudini del pensiero.
A rimetterlo in circolo nella sua formalizzazione più contemporanea è stato il filosofo analitico svedese Nick Bostrom. Direttore dell’Institute for the future of humanity di Oxford, nel 2003 Bostrom ha pubblicato su Philosphical Quarterly un paper dal titolo “Are you Living in a Computer Simulation?”. Dopo aver riepilogato le tesi a favore della nostra futura capacità di creare al computer menti dotate di consapevolezza, nel testo Bostrom speculava sulla possibilità che una civiltà super evoluta fosse in grado di sviluppare non solo una simulazione della realtà così ricca di informazione da essere indistinguibile dalla realtà stessa ma addirittura “un numero astronomico” di tali simulazioni. Da ciò desumeva, su basi probabilistiche, l’esistenza di forti indizi per ritenere che anche la nostra realtà non sia altro che una di queste simulazioni, realizzata da un’altra civiltà super intelligente ed esterna al nostro mondo.
A ciò aggiungeva un’altra congettura: se una civiltà simulata raggiungesse, grazie al progresso tecnologico, lo stadio post-umano, sarebbe a sua volta in grado di realizzare una simulazione dell’universo dotata di esseri coscienti. Se una simile eventualità si verificasse nel futuro della nostra civiltà, essa non solo dimostrerebbe che è possibile programmare simulazioni ma, ipso facto, aumenterebbe le nostre probabilità di vivere all’interno di una di esse. E non solo: una simulazione all’interno di una simulazione (una nested simulation, come la chiama Bostrom) richiederebbe un dispendio di calcolo, per i computer su cui gira la prima simulazione, tale che i programmatori di questa dovrebbero impedire questa possibilità o terminare il programma. Per questo motivo, sostiene Bostrom, il simulation argument non è solo un affascinante passatempo intellettuale ma un’ipotesi da prendere con la massima serietà dato che potrebbe rappresentare il principale e più sottovalutato existential risk per la prosecuzione della nostra civiltà.
Partito un po’ in sordina, con il passare degli anni, l’argomento di Bostrom ha attirato una crescente attenzione negli ambienti filosofici ,scientifici e tecnologici ed è diventato uno dei più discussi all’interno delle élite imprenditoriali della Silicon Valley. Non stupisce quindi che a sdoganarlo definitivamente presso il grande pubblico ci abbia pensato proprio un esponente di quelle élite: Elon Musk. Il quale, nel giugno 2016, ha dichiarato che, a suo parere, la possibilità che il nostro universo non sia una simulazione sia di appena una su un miliardo. Dato il pedigree del CEO di Tesla e Space X, la dichiarazione ha fatto presto il giro del mondo e destato immenso scalpore.
Una congettura fantascientifica
E dire che, per non farsi cogliere impreparati, sarebbe bastato leggere della buona fantascienza. È da tempi non sospetti infatti che questo genere si confronta con storie che attingono dalla stessa tradizione scettica a cui si è abbeverato Bostrom. Il tunnel sotto il mondo, per esempio, è un racconto scritto nel 1955 da Frederik Pohl. Il protagonista, Guy Burckhardt, vive in una tipica cittadina americana, Tylerton, dove la tranquillità è continuamente scossa da insistenti slogan commerciali urlati dagli altoparlanti di furgoncini che girano per le strade proponendo l’ultimo modello di frigorifero o l’ultima marca di sigarette. Una serie di stranezze, però, suggeriscono a Burckhardt che qualcosa non va come dovrebbe. Prima scopre che a Tylerton ogni giorno è sempre il 15 giugno; poi, che le persone intorno a lui sono tutte robot. Infine – nelle ultime, agghiaccianti righe del racconto – che la sua città è stata distrutta da un’esplosione e ricostruita in miniatura su un tavolo: Buckhardt stesso non è che una replica robotica in miniatura del vero Buckhardt. Il suo mondo finisce, alla lettera, sull’orlo di un tavolo di laboratorio.
Quattro anni dopo Philip Dick avrebbe ripreso questi temi nel suo celebre Tempo fuor di sesto, dove Ragle Gumm, il protagonista, impegnato quotidianamente a risolvere il gioco a premi di un giornale, inizia a dubitare della realtà che lo circonda a seguito di una serie di coincidenze, che partono dal momento in cui cerca senza successo di accendere la lampadina del bagno tirando una cordicella che non c’è mai stata. Gradualmente scopre l’amara verità: la sua città è una finzione creata tutta intorno a lui, per ricordargli la sua infanzia negli anni Cinquanta e permettergli di risolvere con tranquillità il gioco a premi che nasconde in realtà una posta molto più grande di quanto sospetti, ossia la possibilità di prevedere la traiettoria dei missili balistici lanciati dal nemico nel corso di una lunga guerra nucleare.
Nel 1964 Daniel Galouye fa un passo più avanti e in Simulacron-3 (recentemente riproposto dall’editrice Atlantide con il titolo Il mondo sul filo) fa entrare finalmente in scena il potere della simulazione informatica. Douglas Hall, il protagonista del romanzo, uno dei capo-progettisti della simulazione “Simulacron-3”, in grado di replicare alla perfezione il mondo reale, scopre che il suo collega Fuller si è tolto la vita dopo aver fatto una scoperta spaventosa: il loro universo è in realtà una simulazione, creata con gli stessi scopi di Simulacron-3 (raccogliere e analizzare i feedback degli utenti sulle loro preferenze di consumo per orientare le strategie aziendali e le politiche pubbliche). Il romanzo di Galouye introduce per primo l’idea che, attraverso la capacità dei nostri computer di realizzare simulazioni sociali sempre più sofisticate, si possa arrivare a scoprire che anche il nostro mondo sia, a sua volta, creato al computer.
Se ai tempi di Galouye l’idea di simulare un intero universo al computer pareva una remotissima fantasia, l’anno scorso un videogioco come No Man’s Sky ha dimostrato che, almeno in parte, già oggi potrebbe non essere più così. Realizzato da un piccolo team indipendente, NMS è infatti in grado di creare fino a diciotto quintilioni di mondi alieni grazie a uno speciale algoritmo che, per ciascun pianeta, genera una fauna, una flora e una geografia peculiare e unica. “La fisica di ogni altro gioco è finta”, ha dichiarato il suo capo-progettista, Sean Murray.
Quando sei su un pianeta, sei circondato da un fondale tridimensionale, un cubo su cui qualcuno ha dipinto stelle o nuvole. Se c’è un ciclo giorno-notte, è perché ci sono graduali transizioni tra una serie di fondali diversi. Con noi, quando sei su un pianeta, puoi spingere lo sguardo fino alla curvatura di quel pianeta. Se cammini per anni, potresti fare il giro del mondo e tornare esattamente allo stesso punto in cui sei partito. Il nostro ciclo giorno-notte avviene perché il pianeta sta ruotando sul suo asse e ruota intorno al sole. È fisica reale. Abbiamo persone che scendono da una stazione spaziale su un pianeta e quando ripartono, la stazione non è più lì; il pianeta è ruotato. I giocatori lo hanno segnalato come bug.
Certo, per quanto tutto questo sia impressionante, No Man’s Sky resta comunque un universo intangibile e vuoto, in termini di intelligenza: non ci sono esseri viventi con una propria coscienza, per cui non è una vera simulazione. Ma se abbiamo fatto così tanti passi avanti da quando la fisica dei videogiochi si limitava a simulare il lancio di una pallina contro un muro di mattoni virtuali, cosa ci riserva il futuro?
Verso la superintelligenza?
Nel suo libro La realtà nascosta, il fisico e matematico Brian Greene ha calcolato che un computer quantistico “non più grande di un portatile ha la capacità di eseguire l’equivalente di tutto il pensiero umano sin dagli albori della nostra specie in una piccola frazione di secondo”. Stiamo inoltre investendo grosse cifre nella capacità di simulare il cervello umano per carpire il segreto della coscienza umana. L’obiettivo originario dell’Human Brain Project di Henry Markram, già coordinatore del Blue Brain Project, era proprio questo: grazie a un finanziamento di un miliardo di euro dalla Commissione Europea, e massicci investimenti di aziende private come la IBM, lo Human Brain Project intendeva creare entro il 2023 una simulazione completa del cervello umano su un supercomputer: possibile preludio allo sviluppo di una vera e propria superintelligenza artificiale, anche se il progetto sembre essere stato ridimensionato negli ultimi tempi.
Personalità come Stephen Hawking, Bill Gates e lo stesso Elon Musk hanno tuttavia recentemente messo in guardia da simili sviluppi, che, a loro giudizio, potrebbero rivelarsi un vicolo cieco per la civiltà umana. Le ragioni sono diverse, ma una di esse ha a che fare proprio con la congettura della simulazione: come nel film Matrix, infatti, è possibile che delle superintelligenze artificiali decidano di perseguire obiettivi completamente diversi da quelli che vorremmo assegnare loro, giungendo alla conclusione che la nostra esistenza possa compromettere la loro. Di conseguenza, esse potrebbero ridurci in schiavitù e proiettare le nostre coscienze in una perfetta simulazione del nostro mondo per non farci rendere conto del vero stato in cui siamo stati costretti. Questo scenario è stato suggerito proprio da Bostrom nel suo influente Superintelligence (2014), il libro che ha convinto Musk a destinare alcuni milioni di dollari al Future of Life Institute di Boston per ricerche destinate a minimizzare i rischi connessi allo sviluppo di intelligenze artificiali (tra i destinatari del finanziamento c’è lo stesso Bostrom, per lo sviluppo a Oxford di uno Strategic Artificial Intelligence Research Center).
Nel 1963 Philip Dick ebbe una visione spaventosa: alzando lo sguardo al cielo notò una faccia metallica che lo fissava con malvagità. Questa visione lo turbò a lungo. Anni dopo, il 2 marzo del 1974, un fatto del tutto banale – un ciondolo a forma di pesce, l’antico simbolo protocristiano, indossato da una ragazza – scatenò in lui tutta una serie di visioni e sogni: un turbinio di quadri psichedelici, intere pagine di libri mai letti, radio che continuavano a trasmettere anche una volta staccata la spina, fino all’inquietante premonizione di un problema di salute di suo figlio che i dottori avrebbero effettivamente diagnosticato quando Dick lo portò a visitare. Lo scrittore di fantascienza si convinse, come nella trama di una delle sue tante storie, che il suo mondo non era reale, ma una “prigione” costruita da una civiltà malvagia da lui identificata nell’antico Impero Romano, intenzionata a mantenere l’umanità in una perenne schiavitù.
Le visioni e le apparizioni sarebbero “crepe” della simulazione attraverso le quali è possibile indovinare l’esistenza di un livello di realtà superiore, come gradualmente Dick giunse a ricostruire nelle circa ottomila deliranti pagine che costituiscono L’Esegesi, pubblicata per la prima volta nel 2011 in una versione “riassuntiva” di circa 1200 pagine, tradotte in Italia nel 2015 da Maurizio Nati per l’editore Fanucci. Accade così anche in Tempo fuor di sesto o, per uscire dai confini dickiani, in Simulacron-3 e nelle sue versioni cinematografiche: cose che non sono al loro posto, strane amnesie, radio che trasmettono quello che non dovrebbero trasmettere. Queste cose succedono anche nella nostra realtà, ma è facile attribuirle a disturbi psicologi, paranoie o allucinazioni. Esistono allora modi attraverso i quali potremmo scoprire di vivere effettivamente in una simulazione? Indizi incontrovertibili, o comunque verificabili attraverso il metodo scientifico? Forse sì.
L’ipotesi alla prova
Uno di questi possibili indizi è stato studiato da Zohreh Davoudi, una delle partecipanti all’Asimov Memoriale Debate, in un paper pubblicato nel 2012. Il lavoro di Davoudi e colleghi parte da considerazioni che riguardano lo stato dell’arte di una particolare teoria fisica, quella della cromodinamica quantistica (QCD), che descrive la forza nucleare forte che fa interagire e tiene uniti i quark per formare neutroni, protoni e altre particelle subatomiche. Il metodo più potente per studiare la QCD prevede oggi l’utilizzo di sofisticate simulazioni informatiche chiamate tecniche di QCD su reticolo. In queste simulazioni lo spazio-tempo viene discretizzato (per comodità di utilizzo e per questioni di coerenza dei modelli teorici), e viene descritto non come un continuo ma come da un reticolo composto da una serie di cubi di scala femtometrica (di un milionesimo di miliardesimo di metro).
A questa scala e per questo tipo di interazioni, le simulazioni della QCD su reticolo sono repliche affidabili della realtà. Secondo Davoudi, allora, nei prossimi anni lo sviluppo tecnologico potrebbe consentire di far evolvere queste simulazioni. E arricchendole, le simulazioni potrebbero a quel punto arrivare a replicare anche le altre forze della natura (la forza nucleare debole, quella elettromagnetica e la gravità). E sviluppandole ancora si potrebbe arrivare finalmente a simulare un intero universo. Secondo Davoudi, insomma, gli ipotetici “simulatori di universi” potrebbero essere partiti a loro volta da un reticolo fentometrico non continuo (magari per motivi di ricerca scientifica pura), ed essere arrivati a una simulazione estremamente sofisticata su scala cosmologica che ha generato il nostro universo.
A questo punto se il nostro universo è una simulazione elaborata e potente basata su un reticolo, dovremmo riuscire a trovare qualche traccia di questo reticolo studiando la struttura fine del cosmo. Le dimensioni degli ipercubi – i “pixel” della realtà – che costruiscono il nostro universo simulato, però, potrebbero essere inferiori alla lunghezza di Planck (la lunghezza più piccola misurabile in natura), e quindi i “pixel” potrebbero non essere rilevabili da nessuna osservazione diretta. Ma anche in questo caso rimane qualche possibile soluzione: “Nel nostro universo le leggi della fisica sono le stesse in tutte le direzioni. Ma in un reticolo questo cambia. Dal momento che non c’è più un continuum spazio-temporale, le leggi della fisica dipenderebbero dalla direzione”, spiega al New Scientist Silas Beane, uno degli autori del paper. La simulazione potrebbe mostrarsi, per esempio, nella distribuzione dei raggi cosmici ad altissima energia. Invece di provenire da tutte le direzioni, infatti, per motivi di coerenza della teoria, i raggi cosmici ad altissima energia dovrebbero a quel punto mostrare direzioni preferenziali che dipendono proprio dalla struttura del reticolo su cui avviene la simulazione. “Abbiamo calcolato che se i simulatori usassero un reticolo con dimensioni di circa 10^-27 metri, l’energia limite cambierebbe per direzioni diverse”, spiega Beane. Data anche la rarità di questi fenomeni, però, al momento gli esperimenti non sono ancora in grado di indagare i raggi cosmici ad altissima energia con il dettaglio necessario per osservare la distribuzione e dirimere la questione.
Un ulteriore perfezionamento della simulazione potrebbe tra l’altro correggere anche questo “errore”, rendendolo invisibile anche alle nostre misurazioni indirette; ma resta un fatto: un universo simulato dev’essere per sua natura finito, perché le risorse dei potenziali simulatori sono finite. Pertanto, il volume che contiene la simulazione sarà a sua volta finito e ciò implica uno spazio-tempo discreto; per cui “in principio resta sempre la possibilità per il simulato di scoprire i simulatori”. Una di queste possibilità, secondo il cosmologo e matematico John Barrow, è quella di rilevare delle possibili modifiche alle costanti di natura e alle leggi fondamentali che i simulatori potrebbero aver avuto bisogno di introdurre di tanto in tanto per correggere gli errori strutturali della simulazione che si accumulano nel tempo. Come scrive nel suo Il libro degli universi: “se i simulatori usassero i codici informatici di correzione degli errori per premunirsi dalla fallibilità generale delle loro simulazioni (e li simulassero su scala inferiore al nostro codice genetico) […] avverrebbero allora improvvisi cambiamenti in apparente contraddizione con le stesse leggi di natura che gli scienziati simulati erano abituati a osservare e predire”.
Uno dei partecipanti all’Asimov Memorial Debate, James Gates, direttore del Center for String and Particle Theory all’Università del Maryland di College Park, crede di aver trovato qualcosa del genere all’interno di un formalismo della supergravità, una delle tante teorie proposte in questi anni per provare a descrivere la gravità quantistica. Per ordinare geometricamente il modo in cui, in questa teoria, le particelle sono classificate, Gates e i suoi colleghi usano infatti delle figure molto complesse, chiamate “adinkra”, che nella cultura Ashanti rappresentato una sorta di ideogrammi. Non sono dei semplici disegni, però: gli adinkra sono la visualizzazione di un meccanismo più complesso, e il loro funzionamento ha effettivamente delle analogie con i codici di correzione degli errori utilizzati in informatica. Se questi “adinkra” giocassero davvero un ruolo essenziale nella rappresentazione della natura di una (eventuale) teoria del tutto della supergravità, avremmo quindi una teoria che descrive l’universo e che incorpora al suo interno dei codici binari in grado, forse, di riparare la realtà da errori di trascrizione, confermando l’ipotesi della simulazione. Quelle di Gates restano però ipotesi per ora forse troppo fantasiose, non verificabili, al limite della fisica nota, e non hanno raccolto molto successo nella comunità scientifica.
Le costanti della natura
Tuttavia, anche senza scomodare concetti così complessi, esistono altri strani indizi in natura, molto più noti e ben studiati, che potrebbero spingerci a conclusioni inquietanti. È noto da tempo, per esempio, che esistono certe “coincidenze” nelle leggi di natura che permettono alla vita come la conosciamo di esistere. Una di esse è la cosiddetta “risonanza” del carbonio, che è l’elemento chimico fondamentale della vita. Il carbonio nasce all’interno dei nuclei delle stelle grazie ai processi di fusione nucleare, in particolare alla fusione di tre atomi di eli. Tuttavia la possibilità che tre atomi di elio collidano in uno stesso istante è così irrisoria da non sembrare sufficiente a consentire la produzione delle quantità di carbonio che osserviamo nell’universo. Fred Hoyle, negli anni Cinquanta, suggerì una soluzione: due atomi di elio collidono e si fondono formando l’isotopo berillio-8, e questo, anziché decadere immediatamente perché instabile, resta “vivo” per un tempo insolitamente più lungo, sufficiente a ricevere la collisione di un altro atomo di elio e trasformarsi in carbonio. Il meccanismo che consente ciò si chiama “risonanza” e dipende dal fatto che il berillio-8 ha quasi la stessa energia dei due atomi di elio che lo hanno creato, e analogamente le masse del berillio-8 e di un altro atomo di elio possiedono lo stesso livello energetico di un nucleo eccitato di carbonio-12; ciò produce una risonanza che consente all’atomo di berillio di mantenersi stabile fino a cento miliardesimi di miliardesimo di secondo, il tempo sufficiente per collidere con un altro atomo di elio e formare il carbonio. Senza questa “coincidenza”, noi non staremmo qui a parlarne.
Questa e molte altre coincidenze hanno spinto gli scienziati a introdurre la congettura del multiverso: il nostro non è che uno di innumerevoli universi dove le costanti di natura assumono tutti i valori possibili, e solo in pochi, tra cui il nostro, questi valori consentono l’esistenza della vita. Ma, secondo gli scienziati che si interessano alla congettura della simulazione, potrebbe esserci un’altra spiegazione: qualcuno, lì fuori, ha “progettato” l’universo apposta per la vita. La comunità scientifica inorridisce di fronte a questo cosiddetto “principio antropico”, perché ritiene sia un modo per reintrodurre nella scienza il ruolo di un Progettista, ossia Dio. Ma se il progettista fosse semplicemente una civiltà post-umana?
Lo scrittore di fantascienza e studioso di cibernetica Stanislaw Lem trattò della congettura della simulazione nella sua imponente Summa Technologiae del 1966, purtroppo ancora inedita in Italia. Ma nel 1971 scrisse sull’argomento un racconto, Non Serviam, pubblicato nella raccolta Vuoto assoluto. Non Serviam è la storia della nascita della “personetica”, la scienza fittizia della creazione di personalità simulate all’interno di mondi virtuali, definita da alcuni “la più crudele tra le scienze ideate dall’uomo”. Anche se le simulazioni create dal professor Dobb non sono identiche alle nostre – per esempio i “personoidi” non si riproducono sessualmente –, sono rette dalle stesse leggi fisiche. “Oggi è possibile confezionare un ‘mondo’ abitato nel giro di un paio d’ore – il tempo necessario per inserire nel computer i dati di uno dei programmi di base”, si legge nel racconto di Lem.
La creazione dell’universo simulato si svolge a velocità accelerate e, analogamente, il programmatore può far scorrere il tempo più velocemente per saltare certi stadi dello sviluppo della civiltà personoide, per poi farlo combaciare con il tempo reale al fine di raccogliere i dialoghi e i pensieri dei singoli personoidi e studiarli. Tra questi ci sono esempi di dibattiti dei personoidi su Dio e sul perché della loro esistenza, del tutto identici a quelli che ci poniamo nel “mondo reale”. Discorsi che mettono a disagio il loro creatore, il professor Dobb, che presto si ritroverà, sotto la pressione dei costi energetici sempre più alti per far funzionare l’esperimento, a staccare la spina: “Spegnerò le macchine e sarà la fine del mondo. Cercherò di rimandare quell’istante il più possibile. È l’unica cosa che posso fare e non mi sembra esattamente degna di lode. Si tratta di quel che volgarmente viene definito ‘uno sporco lavoro’. Detto ciò, spero che nessuno si sia fatto venire strane idee. Se sì, sono affari suoi”.
Supervisione di Cesare Alemanni e Matteo De Giuli.