S ono così debole che se leggo o scrivo per mezz’ora mi stanco fino a svenire, e mi devo subito coricare”. A scrivere a un amico queste parole è Josephine Butler, attivista dei diritti delle donne, che tre mesi prima lamentava con il fratello Stanley un affaticamento estremo e una grave difficoltà di concentrazione per l’infezione polmonare che l’aveva colpita. L’anno è il 1891: quello della seconda ondata di un’influenza pandemica chiamata la Russa, o anche l’Asiatica, comparsa per la prima volta nel dicembre del 1889 a San Pietroburgo, e ripresentatasi in almeno cinque ondate successive fino alla fine del 1895, causa diretta di oltre un milione di morti.
Qualche mese prima, il Times di Londra aveva pubblicato il seguente comunicato: “Siamo spiacenti di annunciare che il Duca di Clarence e Avondale, che si trova insieme al Principe e alla Principessa del Galles a Sandringham, soffre di un grave attacco d’influenza con polmonite. Un telegramma della scorsa sera da Sandringham afferma che Sua Altezza Reale sta bene. Il dottor Laking è a Sandringham da sabato. Tutti gli impegni del Duca, naturalmente, per il momento sono stati annullati. Il ventottesimo compleanno di Sua Altezza Reale è stato celebrato a Sandringham con una cena venerdì”. E il giorno dopo si aggiungeva: “Un gran numero di domestici della famiglia del Principe di Galles soffre di influenza”, rassicurando però sulle condizioni del principe Albert Victor, per tutti Eddy, nipote della regina Vittoria (che nel frattempo si era ammalata durante la festa di Capodanno) e secondo in linea di successione. Ma il 13 le notizie si erano fatte più fumose, e il 14 drammatiche: quando il Times era arrivato nelle case degli inglesi, Eddy era già morto, e il secondo in linea di successione era diventato George.
Pochi mesi dopo, le cronache inglesi si occupano anche di un altro paziente illustre: il primo ministro Lord Rosebery, che nel 1895, dopo una serie di crisi caratterizzate da depressione, psicosi e insonnia, era rimasto per più di sei settimane a letto, preda di un’invincibile spossatezza. Deriso dalla stampa, anni dopo Rosebery parlerà di quell’esperienza come di qualcosa che nessun uomo sano di mente vorrebbe vivere, e racconterà dei sogni particolarmente bizzarri e spaventosi fatti in quelle settimane, peraltro avvolte da una sorta di nebbia mentale costante. I malati (anche se politici di elevatissimo rango) come Rosebery, soprattutto se rimasti tali per lungo tempo, magari con disturbi poco chiari, vengono sbeffeggiati, considerati simulatori, oppure depressi, quando non direttamente inclusi tra i pazienti psichiatrici. Le donne che non guariscono, poi, sono perlopiù considerate vittime di isteria e, di conseguenza, raramente prese sul serio.
L’influenza Russa è solo una delle tante infezioni respiratorie documentate nei secoli, ma le sue caratteristiche e le analogie con il COVID e con il Long COVID potrebbero risultare utili ai ricercatori di oggi.
Nei mesi e negli anni a venire la comunità medica si interrogherà a lungo su quell’incredibile congerie di sintomi riferiti dai pazienti sopravvissuti alle fasi acute, e inizierà a notare effetti particolarmente evidenti sul sistema nervoso, assegnando alla nutrita famiglia di manifestazioni rilevate un’altrettanto fantasiosa serie di denominazioni, tra le quali neuralgia, neurastenia, neurite, esaurimento nervoso, raffreddore catalettico, intorpidimento post raffreddore, psicosi, prostrazione, inerzia e paranoia. Un neurologo, raccontando di suoi malati che soffrono di varie forme di psicosi e presagiscono spaventosi disastri imminenti, o temono di commettere o subire un crimine sanguinoso (per il quale saranno certamente puniti), propone di chiamare “influenza nervosa” quella strana malattia che si sviluppa dopo la Russa. E l’otorinolaringoiatra vittoriano Sir Morell Mackenzie, nel descrivere la misteriosa sindrome post influenzale, afferma che sembra “correre su e giù come le dita su una tastiera, scatenando dolori e disordini in diverse parti del corpo, quasi per un malizioso capriccio”, e sottolinea come i sintomi a lungo termine più frequenti siano insonnia, depressione, ansia e sfinimento.
Anche se la Russa è solo una delle numerose pandemie di infezioni respiratorie documentate nei secoli, le sue caratteristiche e le analogie con il COVID e con il Long COVID sono evidenti, e potrebbero risultare molto utili ai ricercatori di oggi. Ma c’è di più, perché recenti, sofisticate analisi di tipo genetico autorizzano a pensare che, in quel caso, non si sia trattato affatto di un virus influenzale. Piuttosto, sarebbe stato un nuovo coronavirus a imperversare per anni su un’umanità del tutto impreparata, priva di anticorpi, e a lasciare dietro di sé sequele particolarmente lunghe, articolate e difficili da interpretare e guarire, caratterizzate soprattutto da sonnolenza e mancanza di energia, ossia da una spossatezza che oggi definiremmo, con ogni probabilità, fatigue. In Italia le complesse sequele della Russa prenderanno un nome ricordato ancora oggi: la Nona.
Tutto, della Russa prima e della Nona poi, richiama la crisi del COVID e del Long COVID. Innanzitutto, nelle fasi acute, la contagiosità e la capacità di diffondersi dell’infezione sono strabilianti: nei primi quattro mesi del 1890, a poche settimane dai casi d’esordio, la nuova influenza ha già conquistato tutto l’emisfero Nord, viaggiando veloce sui nuovi mezzi di trasporto, ed eleggendo l’Italia al poco invidiabile ruolo di paese europeo colonizzato probabilmente per primo. Inoltre si accanisce in misura preferenziale sui maschi, e uccide prima gli anziani (la pandemia successiva, la Spagnola, com’è noto, flagellerà in modo letale soprattutto i più giovani).
In seguito, ciò che differenzierà maggiormente la Russa da altre grandi epidemie virali sono gli effetti a lungo termine a carico del sistema nervoso tipici della Nona: secondo lo storico della medicina e giornalista Mark Honigsbaum, oggi alla City University di Londra, che già nel 2013 avanzava l’ipotesi di un coronavirus come agente responsabile della Russa, in nessuna delle precedenti pandemie, comprese quelle di tifo, difterite o morbillo, si era vista un’incidenza così elevata di conseguenze neurologiche e psichiatriche a lungo termine. Per questo – sottolinea Honigsbaum – sarebbe il caso di studiare nel dettaglio tutto ciò che si sa della Nona, se si vuole capire il Long COVID.
L’ipotesi di un coronavirus come agente responsabile della Russa è suggerita anche dall’incidenza elevata di conseguenze neurologiche e psichiatriche a lungo termine.
Che le analogie tra la Nona e il Long COVID siano impressionanti, del resto, lo si capisce anche dalle parole dell’immaginario dottor Arthur Feveral, che nel brano “A Doctor’s Dilemma” (“Il dilemma del dottore”), racconto di fantasia pubblicato sul londinese Strand Magazine nel 1895, per illustrare la condizione dei malati spiega: “Le mie capacità di resistenza sono seriamente compromesse dopo l’attacco d’influenza. La malattia mi ha lasciato un’incredibile serie di sequele e un indicibile terrore, che ho paura di non riuscire a superare. Un’altra straordinaria conseguenza sono i vuoti di memoria: non posso fidarmi della mia mente, né dei miei ricordi. E mi sento così nervoso che temo di non poter tornare al lavoro”.
Per molti anni i virologi e gli epidemiologi hanno cercato di capire quale fosse l’agente infettivo responsabile della Russa, e quindi anche della Nona, senza giungere a conclusioni definitive perché, a differenza di quanto accaduto in tempi più recenti con la Spagnola, non è mai stato possibile recuperare campioni di malati in condizioni tali da consentire indagini approfondite. Dopo le prime, approssimative ricerche, basate sulla cosiddetta sieroarcheologia, cioè sull’analisi del siero dei sopravvissuti per la rilevazione della presenza di eventuali anticorpi specifici a molti anni di distanza dalla fase pandemica, si era ritenuto che quelle ondate fossero state causate, come altre, da virus influenzali di tipo a. Ma in seguito l’ipotesi ha perso forza, fino a essere superata da uno studio di filologia genetica, pubblicato nel 2005 sul Journal of Virology. In esso i ricercatori dell’Istituto di virologia dell’Università di Lovanio, in Belgio, hanno decodificato l’intera sequenza del genoma di uno dei quattro coronavirus che oggi causano un normale raffreddore, l’OC43, e hanno dimostrato la sua derivazione da un progenitore presente nei bovini, che avrebbe fatto il salto di specie proprio attorno al 1890, evolvendosi poi nella forma umana odierna OC43, oppure nell’attuale forma bovina BCoV. A rafforzare l’ipotesi ci sarebbero anche dati storici, perché tra il 1870 e il 1890 si sono registrate successive, devastanti epidemie di infezioni respiratorie tra i bovini in tutto il mondo, talmente gravi da costringere gli allevatori a uccisioni di massa, per evitare ulteriori diffusioni della malattia. E proprio quelle macellazioni sarebbero state uno scenario perfetto, allora come oggi, per uno spillover verso l’uomo. Alla stessa conclusione è poi giunto un analogo studio genetico danese, pubblicato nel 2020.
In definitiva, la coincidenza temporale tra malattia dei bovini e pandemia degli umani non sarebbe affatto tale, e la genetica confermerebbe l’ipotesi: la Russa sarebbe stata provocata da un coronavirus passato dagli animali all’uomo, in seguito adattatosi gradualmente, fino a diventare l’agente di un banale raffreddore. Non senza aver prima lasciato dietro di sé, per anni, una lunga coda.
Se davvero fosse così, anche Sars-CoV-2 potrebbe seguire un destino analogo, e cioè diventare, nell’arco di pochi decenni, un raffreddore. Ma prima di allora, come OC43, starebbe lasciando molti segni di “influenza nervosa”. E non ci sarebbe nulla di anomalo: si comporterebbe come numerosi altri virus hanno fatto prima di lui. (…)
Decrittare il Long COVID
Il fatto che molte sindromi post infettive virali e batteriche condividano così tante caratteristiche non è passato inosservato agli occhi di chi sta cercando di decrittare il Long COVID. Soprattutto da parte dei ricercatori che si occupano di me/cfs, così come dalle associazioni e dai gruppi di supporto, sono arrivati, nei mesi, appelli a condividere le informazioni, a individuare connessioni e differenze, a raccogliere dati e campioni, a impostare nuove ricerche che tengano conto di quanto già acquisito, e di ciò che resta da capire (molto). Il tutto con un unico, grande scopo: spiegare perché così tante persone non riescono a guarire del tutto, e sviluppano una malattia diversa, che può essere invalidante e che, a oggi, non è dato sapere quanto durerà, né come si evolverà. E, contestualmente, se possibile, spiegare anche le altre sindromi almeno in parte simili.
In questi mesi, esperti di diverse discipline hanno perciò iniziato a effettuare studi di vario tipo, per rafforzare le ipotesi fin qui fatte, o escluderle dal novero delle possibilità. Il quadro delle interpretazioni, a oggi, è ancora incerto, ma relativamente omogeneo. Le cause più probabili del Long COVID sono infatti quattro – sostiene la maggior parte dei ricercatori – e non sono mutualmente esclusive, cioè potrebbero essere tutte vere e coesistere, oppure ce ne potrebbe essere una predominante, magari scatenata da altre. Il Long COVID potrebbe infatti essere determinato dallo stesso Sars-CoV-2, che rimarrebbe nell’organismo in concentrazioni non rilevabili, e continuerebbe ad alimentare un’infiammazione cronica. Oppure potrebbe essere l’esito dei danni apportati a vari organi e tessuti da un’infezione così violenta, ma i cui contorni non sono ancora ben definiti, essendo questo coronavirus al suo esordio assoluto come agente infettivo della specie umana. In alternativa, si tratterebbe di una perdita di equilibrio del sistema immunitario, che non riuscirebbe più a tornare allo stato precedente, dopo essersi mobilitato contro un ospite tanto devastante, quando non di un’autentica reazione autoimmune, già proposta per molte delle altre sindromi post virali fin qui descritte, e per altre ancora. Infine, potrebbe essere causato da un effetto secondario di Sars-CoV-2, che risveglierebbe altri virus già presenti nell’organismo, in stato quiescente. Al momento, l’ipotesi che sembra attrarre maggiori consensi è quella dell’autoimmunità. (…)
Il Long COVID potrebbe essere determinato dallo stesso Sars-CoV-2, che rimarrebbe nell’organismo in concentrazioni non rilevabili, e continuerebbe ad alimentare un’infiammazione cronica; ma ci sono anche altre ipotesi valide.
Negli scorsi mesi, parlando con molti immunologi e virologi, ho capito che esistono alcuni elementi condivisi, nell’idea che tutti stanno cercando di farsi. Uno di questi riguarda proprio l’impatto di un nuovo virus, fresco di spillover, sull’organismo umano: è molto, davvero molto profondo, a livello appunto di bomba biologica. E siamo ancora lontani dall’avere di Sars-CoV-2 una visione chiara e, soprattutto, completa. Probabilmente nel tempo evolverà verso forme meno bellicose, come hanno fatto i suoi quattro predecessori che oggi provocano i raffreddori, e come sembra voler già fare la variante omicron, molto più contagiosa delle precedenti, ma anche meno violenta. Tuttavia, per ora, l’ipotesi delle prime settimane, e cioè che Sars-CoV-2 causi, nei più sfortunati, una specie di polmonite un po’ più grave del solito, ormai farebbe sorridere, se non si stesse parlando di una pandemia che ha già provocato più di cinque milioni di morti.
In questi due anni, infatti, via via che si analizzavano i danni, ci si è accorti che era meglio procedere per sottrazione, cioè cercare organi e tessuti non colpiti, molto meno numerosi di quelli interessati da trombi, infiammazioni, collassi, lesioni, fibrosi e cicatrici. E questo ha portato a formulare anche l’ultima delle ipotesi in campo per il Long COVID, e cioè che si tratti di conseguenze della compromissione di organi e tessuti causata dall’attacco virale. In realtà, questa spiegazione è considerata valida più che altro per chi ha avuto una forma molto grave di COVID acuto, e quindi non si adatta alla fisionomia del tipico Long hauler, che in genere non ha riportato danni così estesi e non manifesta conseguenze come, per esempio, le cicatrici polmonari tipiche di chi sopravvive a una polmonite interstiziale bilaterale.
Queste quattro ipotesi non sono però mutualmente esclusive: è possibile che il fallout nucleare del nuovo virus inneschi l’autoimmunità, o che sia lo stesso Sars-CoV-2 residuo, invisibile ai test, a farlo. Ma anche che, nel frattempo, lo sconvolgimento in atto risvegli virus dormienti. Tutto questo, in un organismo in cui ci sono tanti distretti corporei non perfettamente efficienti – quando non fuori gioco o quasi – a causa di un’infezione acuta appena superata, amplifica grandemente le conseguenze della malattia, fino a compromettere cronicamente la salute.
Estratto da Il lungo Covid, di Agnese Codignola (UTET libri, 2022).