L a prima testimonianza di lotta biologica, la strategia che prevede l’uso di insetti per proteggere le piante coltivate, ha origini molto antiche: risale alla Cina del Quarto secolo dove gli agricoltori utilizzavano particolari colonie di formiche predatrici per contenere gli insetti dannosi negli agrumeti, appendendone delle ceste tra i rami. Nel 1200 furono invece gli Arabi che per primi pensarono a un trasferimento di insetti utili dalle montagne alle oasi per combattere i parassiti delle palme. Solo nell’Ottocento, con l’arrivo di alcune temibili infestazioni sia negli Stati Uniti che in Europa, l’entomologia agraria diventa ufficialmente una disciplina scientifica organizzata e la lotta biologica comincia a scrivere la sua storia con esempi di successo alternati a tentativi infruttuosi. La nuova disciplina nasce parallelamente allo sviluppo delle conoscenze sui rapporti tra le popolazioni naturali e del concetto di crescita, limitazione e competizione: dal momento in cui si cominciano a definire i confini di quella che sarà l’ecologia, quindi, all’intuizione che questa possa trovare applicazione anche in agricoltura, il passo è breve.
Allearsi con il nemico
È Erasmus Darwin, naturalista evoluzionista e nonno di Charles, a fare una delle prime osservazioni sul campo: osserva che un gruppo di insetti, gli icneumonidi, è capace di deporre le uova sul dorso delle larve delle farfalle cavolaie Peris rapae per nutrirsene. Gli entomologi cominciano in quegli anni a sperimentare l’uso di alcuni insetti in orti, giardini e serre, per combattere localmente questo o quel parassita delle piante, ma è in America, con la colonizzazione degli Stati dell’Ovest e il trasferimento delle coltivazioni (e dei loro parassiti) dall’Est e dall’Europa, che la lotta biologica diventa una pratica interessante.
In California, dove praticamente ogni coltivazione e pianta da frutto sembra poter dare raccolti e qualità mirabili, con gli agrumi, i susini e i cereali importati da altre regioni del mondo cominciano ad arrivare anche i loro parassiti, che tuttavia non avendo nella nuova località i loro nemici naturali banchettano indisturbati a danno delle coltivazioni. La storia è ricca di infestazioni di quelli che oggi, con una definizione che evoca la fantascienza della Guerra dei Mondi, vengono chiamati insetti alieni, la cui diffusione ha quasi sempre fatto seguito all’intensificazione degli scambi commerciali e dei fenomeni di globalizzazione: dalla fillossera della vite, alla cocciniglia cotonosa degli agrumi e la dorifora della patata, fino a quelli più attuali come il punteruolo rosso delle palme, il cinipide del castagno, la Drosophila suzuki e la cimice asiatica.
La prima testimonianza di lotta biologica risale alla Cina del Quarto secolo, dove gli agricoltori utilizzavano particolari colonie di formiche predatrici per contenere gli insetti dannosi negli agrumeti.
Il primo progetto pianificato e di successo rappresenta una pietra miliare dell’entomologia agraria e avviene alla fine degli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo: protagonisti sono l’Iceria purchasi, la cocciniglia cotonosa degli agrumi, che sta danneggiando le piantagioni della California e due predatori, individuati nel corso di una missione scientifica in Australia, da dove proviene la stessa cocciniglia: un dittero – una moschina che si chiama Chriptochetum iceriae – e una coccinella, la Rhodolia cardinalis. Quest’ultima si rivela particolarmente efficace: allevata nei laboratori e rilasciata sugli agrumi infestati, la coccinellina comincia a nutrirsi avidamente delle cocciniglie, e a ovideporre. Insediandosi rapidamente, riporta il danno nei frutteti a livelli accettabili. È un grandissimo successo e da quel momento fino ai primi decenni del Novecento, prima in California e poi nel resto del mondo è un continuo fiorire di progetti di introduzione di insetti utili da un paese all’altro: cocciniglie e afidi hanno i giorni contati. I coleotteri e in modo particolare le coccinelle diventano le vere star del controllo biologico e il loro successo è ancora talmente presente nella nostra società che l’immaginario collettivo ha assegnato alla coccinella settempuntata, un predatore in realtà assai poco benevolo con le sue prede, il ruolo di portafortuna e simbolo della sostenibilità in agricoltura.
Non c’è rosa senza spina
Facciamo un passo indietro. In un ecosistema naturale, animali e vegetali interagiscono e stabiliscono le loro relazioni, e si adattano gli uni agli altri nel tempo e nello spazio. In un ambiente agrario tutto questo continua ad avvenire, ma succede in modo molto più semplificato e, per usare un concetto ormai chiarissimo a tutti, molto meno resiliente. Il motivo è che uno dei componenti del sistema, l’essere umano, decide o almeno tenta di decidere la presenza, l’abbondanza e la durata di tutte le altre specie vegetali e animali (non è un giudizio né una denuncia: è solo l’agricoltura).
Le piante coltivate hanno numerosi nemici naturali: funghi, batteri, virus e insetti si sviluppano sui loro organi e di conseguenza danneggiano i raccolti. Nel corso della domesticazione delle piante coltivate, e nei loro paesi di origine, gli insetti erbivori o fruttivori si co-evolvono sia con la coltura che li ospita (che quindi sviluppa dei meccanismi di difesa o di resistenza), sia con altri insetti o microrganismi, predatori o parassiti, che permettono il contenimento delle loro popolazioni.
È in questo equilibrio instabile ed estremamente intricato che operano i piani di lotta biologica. Non stupisce, quindi, che non sempre tutto vada per il meglio: le strategie di sopravvivenza delle specie sono molto più fini (e gli ecosistemi molto più complessi) di quello che si potrebbe immaginare, e di sicuro non vale lo schema semplicistico del pesce grande che mangia il pesce piccolo, per cui se tu divori le mie piante allora io introduco un alleato che divora te e tutto torna come prima.
Vediamo alcuni esempi. Ci sono casi in cui la lotta biologica non è abbastanza efficace perché gli insetti dannosi sono molto più veloci a diffondersi e a colonizzare le coltivazioni delle specie utili di nuova introduzione. Nel 1873 Riley tenta di introdurre in Europa un antagonista della temibile fillossera, un afide proveniente dall’America che attacca le radici della Vitis vinifera e che in quegli anni, prima in Francia e successivamente in Italia, sta mettendo a rischio la sopravvivenza della viticoltura europea. Si decide di usare Tyrogliphus philloxarae, un acaro che nelle regioni di provenienza della fillossera svolge il suo ciclo a danno del temibile insetto, ma la sua introduzione non ha l’effetto sperato.
Quello dell’invasione fillosserica diventa un problema impellente che richiede soluzioni rapide. Anche il grande Louis Pasteur pensa allora a una soluzione di controllo biolgico e suggerisce l’uso e l’inoculo di microrganismi del suolo, un rimedio che al tempo non è mai stato testato sul campo e che viene scartato, ma che oggi appare visionario, alla luce degli studi sul microbiota e dei concetti di organismo ospite e microrganismi simbionti. La soluzione che si individua per salvare la Vitis vinifera europea, invece, e che si applica ancora oggi a distanza di più di 150 anni, consiste nell’uso delle specie americane del genere Vitis, resistenti alle generazioni radicicole dell’insetto, come portainnesto, per individui che, da allora e in quasi tutti i vigneti del mondo, hanno le radici di una specie e la parte aerea (quella che dà le foglie e soprattutto i grappoli) di un’altra.
A partire dal secondo dopoguerra in agricoltura arriva la lotta chimica e le soluzioni di biocontrollo diventano improvvisamente meno interessanti per gli agricoltori: con un insetticida gli insetti dannosi si eliminano in tempi più brevi e con meno costo. È chiaro però che in questo modo soccombono anche le popolazioni degli insetti utili, nativi o introdotti che fossero. Complice anche la crescente diffusione su aree spesso molto vaste della monocoltura, i concetti di ecosistema agrario, di rapporti tra popolazioni e di biodiversità, iniziano a venir meno. E quando accade che gli insetti sviluppano una resistenza all’insetticida, come a un certo punto fa la dorifora della patata e molti altri nei confronti del DDT, i problemi possono diventare enormi.
La ricerca sul biocontrollo degli insetti dannosi così non si ferma e, complice anche una nuova coscienza ecologica, oggi la lotta biologica con le sue diverse tecniche è parte integrante dei protocolli sempre più applicati e diffusi di agricoltura biologica e integrata. Ma rispetto ai pionieri della fine dell’Ottocento, anche le battaglie tra insetti dannosi e utili nei nostri campi vengono combattute con una diversa consapevolezza derivante soprattutto dalle migliori conoscenze sul funzionamento degli ecosistemi.
La lotta biologica con le sue diverse tecniche è parte integrante dei protocolli sempre più applicati e diffusi di agricoltura biologica e integrata.
Soprattutto ci si è chiesti: se l’introduzione accidentale di un insetto dannoso e invasivo da un paese straniero ha provocato dei danni (e semplicemente ce ne siamo accorti perché si è sviluppato a carico dei nostri campi, orti o frutteti), l’insetto utile che importeremo per fronteggiarlo, che cosa farà nel nuovo ambiente? I predatori degli insetti alieni non sono forse a loro volta degli alieni? La risposta è scontata ed è ovviamente affermativa, e difatti dopo che i ricercatori hanno studiato il loro comportamento nei paesi di origine e nell’ambiente confinato di un laboratorio, oggi prima dell’introduzione e il rilascio degli insetti viene fatta una lunga e attentissima valutazione di impatto sull’ambiente, sulla salute umana e quella delle piante coltivate e spontanee. Sono procedure necessarie che spesso durano anni, con tempi che a volte, applicati in emergenza (se gli studi cominciano quando la diffusione dell’insetto dannoso è in fase avanzata ad esempio), mal si conciliano con le necessità e gli obiettivi di difesa delle colture (anche in questo caso appare chiaro quanto sia necessario investire nella ricerca non nel momento dell’emergenza ma prima, in modo da avere pronta la soluzione nel momento in cui il rischio si manifesta).
Insetti alieni e lotta biologica
Con i cambiamenti climatici e con gli scambi commerciali il rischio di introduzione e di diffusione di specie aliene è sempre più alto. La sorveglianza e il monitoraggio sono fondamentali ma, soprattutto in un paese come l’Italia dove gli accessi dai porti e dalle vie di terra e di aria sono moltissimi, sembra non sia così facile.
La storia recente è piena di piccolissimi e perniciosi invasori. La cimice asiatica, Halyomorpha haliis, è uno di questi; negli ultimi anni l’abbiamo probabilmente incontrata quasi tutti, perché oltre che nei frutteti, si è spesso presentata, soprattutto delle regioni del Nord, in gruppi più o meno folti per passare l’inverno nelle nostre case, rimesse, garage e ripostigli. Arrivata in Europa, si pensa, nascosta in alcuni container contenenti pneumatici tra il 2004 e il 2012 dai paesi dell’Estremo Oriente, Cina, Corea e Giappone, la cimice asiatica è un insetto molto insidioso, perché genera popolazioni numerosissime e perché polifago e quindi in grado di causare danni su molte colture e spostarsi facilmente tra le diverse coltivazioni e sulle piante spontanee, sfuggendo ai metodi di controllo più comuni.
I ricercatori hanno studiato il suo comportamento e valutato dapprima se i nemici naturali delle cimici native europee potessero essere in qualche modo adatti al suo contenimento e poi hanno rivolto lo sguardo al Giappone per individuare il Trissolcus japonicus, detto anche la vespa samurai, che parassitizza in modo specifico le uova di cimice asiatica e ne impedisce la schiusa. E a questo punto, come detto sopra, si è valutato se l’introduzione della vespa potesse essere una via perseguibile, finché nel 2020 è arrivato il semaforo verde.
Lo studio, il monitoraggio della cimice asiatica e successivamente anche la diffusione della vespa samurai sono avvenuti soprattutto per l’attività dell’Università di Modena e Reggio Emilia, l’Università di Torino e la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige in provincia di Trento e in alcuni passaggi hanno coinvolto in un’attività di citizen science anche gli agricoltori e il pubblico, ai quali è stato chiesto prima di segnalare gli individui per comprendere le zone di diffusione e infestazione e poi di raccoglierli e spedirli ai laboratori. Perché dove si allevavano le vespe samurai, che per moltiplicarsi hanno bisogno di uova di cimice, è ovviamente necessario un numero cospicuo di cimici che ovidepongano.
Un altro esempio recente di successo della lotta biologica è quello del cinipide galligeno del castagno. Chi è solito frequentare i boschi, qui in Italia, si ricorderà non molti anni fa i castagneti da legno e da frutto quasi completamente defogliati e con i rami disseminati di grosse galle rosse: questi alberi grandissimi e fogliosi in pochi anni rischiavano di morire senza più nutrimento dalle foglie. La causa era in questo caso un imenottero arrivato dalla Cina e segnalato per la prima volta in Italia nel 2002 in Piemonte. Il cinipide galligeno del castagno è una piccola vespa (Dryocosmus kuriphilus) che depone le uova nelle gemme e provoca con un segnale di tipo chimico la formazione di una galla, cioè una neoformazione creata dalla pianta stessa nei cui tessuti le uova e poi le larve si sviluppano e trovano riparo. La pianta però, impegnata a costruire galle, non sviluppa a sufficienza le foglie e gradualmente deperisce, oltre a non fare fiori né frutti.
Adesso pensate ai boschi, alla loro diffusione e alla loro accessibilità: trovare una difesa di qualunque tipo, chimica ad esempio, che richiedesse l’intervento dell’uomo su tutte le superfici interessate non era una via percorribile. Eppure qualcosa occorreva fare, e con grande urgenza, perché dal punto di vista paesaggistico e ambientale la scomparsa del castagno dall’Appennino e dagli altri ambienti, avrebbe potuto avere un impatto molto grave. La soluzione è stata affidata a Torymus sinensis, un altro imenottero, parassita specifico delle uova del cinipide, che depone le sue uova nella galla o addirittura nelle larve dell’insetto e ne provoca la morte.
Stratagemmi sessuali e comunicativi
L’uso degli insetti utili che parassitizzano o predano le popolazioni dannose è solo una delle tecniche della lotta biologica. In tempi recenti, a partire soprattutto dalla fine degli anni Ottanta del Novecento e grazie agli studi sempre più approfonditi sul comportamento e la comunicazione animale, hanno cominciato a diffondersi anche altre strategie e tecniche, come quella basata sui feromoni, i segnali chimici che le diverse specie lanciano per incontrarsi, aggregarsi, accoppiarsi o indicare un pericolo.
I feromoni utilizzanti in agricoltura sono molecole che vengono diffuse nei frutteti o nei vigneti con appositi sistemi e materiali, e che simulano le sostanze emesse dagli insetti inducendone un determinato comportamento, attraendoli verso una trappola, distraendoli da un obiettivo o confondendoli quando sono spinti dal desiderio di incontrare gli individui dell’altro sesso (come avviene in quella che si definisce “confusione sessuale”).
Oggi vengono usate anche altre strategie e tecniche, come quella basata sui feromoni, i segnali chimici che le diverse specie lanciano per incontrarsi, aggregarsi, accoppiarsi o indicare un pericolo.
Negli insetti che comunicano con questi segnali di tipo olfattivo percepito con degli organi si senso chimico posti sulle antenne, come in alcuni lepidotteri (la tignoletta della vite, Lobesia botrana è una delle specie alle quali la confusione sessuale si è applicata con maggior successo), l’erogazione del feromone, che in natura sarebbe emesso dalle femmine come richiamo per l’altro sesso, disorienta o distrae il maschio che è portato a seguire false tracce e dirigersi laddove le femmine in realtà non ci sono, oppure che di fronte a un eccesso di segnale resta inibito e rinuncia alla ricerca di una compagna “reale”.
In entrambi i casi il risultato è che i due sessi non si incontrano, non si accoppiano, non ovidepongono e non portano quindi alla nascita di nuove generazioni che danneggino i frutti (sempre che la tecnica sia applicata su superfici sufficientemente estese perché maschi e femmine non trovino come escamotage per i loro incontri galanti quello di spostarsi altrove).
Tremori
Non tutti gli insetti per comunicare e per incontrarsi rilasciano segnali chimici, però. Alcuni emettono dei suoni mentre altri vibrano. Ognuno lo fa in modo diverso. La biotremologia studia i messaggi vibrazionali degli insetti e li sfrutta per interferire nella loro comunicazione. Nel mondo, i gruppi di ricerca specializzati in questa nuovissima disciplina sono pochi ma già ci sono all’attivo due convegni mondiali, entrambi organizzati in Italia dal gruppo di ricerca di Valerio Mazzoni, entomologo della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige. “Fino al 2016 la biotremologia era una branca della bioacustica, la scienza che studia i suoni”, racconta Mazzoni. “Le vibrazioni però non sono suoni: i suoni si trasmettono attraverso i fluidi, le vibrazioni sono segnali che viaggiano all’interno dei substrati solidi, che nel caso degli insetti sono le superfici degli organi delle piante”. Gli insetti che comunicano con le vibrazioni di substrato, per farlo usano organi completamente diversi da quelli di chi emette e riceve segnali sonori, “più vicini al tatto piuttosto che all’udito”.
Se un animale fa una cosa piuttosto che un’altra, vibra anziché cantare o spruzzare un feromone, nella sua “economia” c’è sicuramente un motivo: “La differenza è nella capacità di trasmettere informazioni a distanze più o meno grandi”, spiega Mazzoni. “Gli insetti che emettono vibrazioni sono generalmente molto piccoli e per raggiungere le distanze necessarie per comunicare tra loro, emettere suoni aerei non sarebbe nè conveniente – cioè richiederebbe molta energia – né efficace”. Al contrario, le vibrazioni che hanno frequenze più basse dell’ordine degli Hertz si trasmettono a distanze maggiori, e permettono di raggiungere le distanze necessarie per comunicare all’interno della pianta.
A emettere vibrazioni (ma non solo, perché nella strategia di comunicazione spesso si combinano segnali vibrazionali e chimici), tra gli insetti dannosi di interesse agrario studiati da Mazzoni e dai suoi colleghi ci sono la Drosophila suzuki e lo Scaphoideus titanus, una delle cicaline della vite la cui lotta è particolarmente importante in quanto veicolo del fitoplasma della flavescenza dorata, una malattia molto pericolosa e difficilmente curabile dei vigneti.
Nello scafoideo, il maschio manda un segnale attraverso la pianta che viaggia per diversi cm fino a un metro e che permette alle femmine di intercettarlo. “A quel punto, sempre mantenendo attiva la comunicazione vibrazionale, parte un dialogo, le due cicaline entrano in comunicazione, si avvicinano, si riconoscono, c’è il corteggiamento e poi avviene l’accoppiamento”. Nelle loro sperimentazioni, Mazzoni e colleghi mandano nel vigneto vibrazioni con frequenze che vanno a imitare, coprire e mascherare il segnale delle specie interessate e in questo modo interrompono la comunicazione tra i due sessi. “Ma ogni specie ha la sua vibrazione e ogni messaggio il proprio canto, si potrebbe dire, quindi ogni volta che si vuole applicare il metodo a un’altra specie occorre cambiare frequenza”. Alcune di queste cose sono state scoperte solo negli ultimi anni, quando la tecnologia ha potuto fornire strumenti ad alta sensibilità che hanno permesso di registrare i segnali di insetti anche molto piccoli. Oggi è possibile decifrare le diverse “canzoni” degli insetti: “ogni insetto emette fino a 4-5 canzoni, tutte con finalità diverse, una per l’accoppiamento, una per spaventare i maschi rivali una per chiamare a raccolta i simili, e così via”.
Naturalmente la prima cosa da fare è osservarli in laboratorio, comprendere quale sia il “canto” che utilizzano nelle diverse occasioni, registrarlo e infine tentare di riprodurlo per indurre determinati comportamenti. E poi disturbarli.
Guerre che guerre non sono
La lotta biologica, che ha radici antiche, è oggi una delle frontiere della ricerca scientifica applicata. È uno strumento fondamentale per l’agricoltura e potrà diventare sempre di più un’arma preziosa per difendere il benessere degli ecosistemi agrari pressati, come abbiamo visto, dalla globalizzazione e i cambiamenti climatici. Vale la pena allora chiudere questa panoramica riflettendo sulla narrazione che invece se ne fa, soprattutto in Italia: quando se ne parla, la lotta biologica viene raccontata sulle pagine dei giornali esclusivamente come una guerra tra gli invasori (che in più vengono definiti alieni) e l’esercito degli insetti “utili” (il parassitoide della cimice asiatica il Trissolcus japonicus non a caso è stato chiamato Vespa samurai, come un guerriero). Quello che in natura è un rapporto di predazione tra un insetto erbivoro (la cui unica colpa è quella di apprezzare foglie o frutti delle piante che noi coltiviamo e che anche noi mangiamo) e il suo predatore o parassitoide, in una rappresentazione del tutto antropizzata diventa qualcosa di simile a un combattimento anche quando non lo è affatto (generalmente sono gli adulti che predano o parassitizzano le uova o le larve e quindi a essere precisi sarebbe in caso più esatto parlare di infanticidio).
La lotta biologica è ormai uno strumento fondamentale per l’agricoltura e potrà diventare sempre di più un’arma preziosa per difendere il benessere degli ecosistemi agrari pressati da globalizzazione e cambiamenti climatici.
In italiano, in agricoltura, poi, si parla di lotta agli insetti dannosi e al tempo stesso si usano termini come protezione o difesa quando il “nemico” sono i microrganismi come i funghi, i batteri o i virus delle piante coltivate. Nei fatti in entrambi i casi proteggiamo le nostre coltivazioni ma nel linguaggio comune andiamo all’attacco quando si tratta di insetti e ci difendiamo dai funghi. Una peculiarità italiana che ci dice qualcosa del nostro rapporto con gli insetti e sulla quale varrebbe forse la pena interessare sociologi e linguisti.
Non è così nei paesi anglosassoni dove la lotta biologica si chiama biological control, controllo biologico, che oltre a non offrire rischio di frantendimento con l’agricoltura biologica (in inglese organic agricolture) di cui la lotta biologica rappresenta una pratica ma nella quale né si identifica né si esaurisce, descrive molto meglio l’obiettivo di operare un controllo delle popolazioni, che non coincide con la loro distruzione, ma con la ridefinizione di un rapporto di equilibrio, all’interno del quale la popolazione dannosa si contiene al di sotto di una soglia definita soglia di danno.