L i chiamano long haulers, e sono i figli di un dio pandemico minore. Sono quelli che non guariscono, anche se non hanno più tracce di virus nell’organismo, e che continuano a stare male per mesi, senza che quasi nessuno abbia né il tempo né le competenze per cercare di capire di che cosa soffrono, e come li si può aiutare. Eppure sono tanti, tantissimi: secondo le stime più conservative circa il 10% di chi si ammala e presenta sintomi anche lievi (ma altre stime arrivano a più del 50%). Cioè, a oggi, nel mondo, non meno di 10 milioni di persone.
Si discute, nella comunità scientifica, sulle origini e sulle caratteristiche di quella che è stata chiamata Long COVID, e le ipotesi sono numerose, in parte non mutualmente esclusive. Si chiama in causa anche il passato, perché è già successo molte volte, nella storia, che a una grande pandemia facessero seguito sindromi e malattie con tratti neurologici spesso contraddistinte da stanchezza e deficit cognitivi, quando non vere e proprie letargie, coma e, successivamente, demenze e parkinsonismi.
E si cercano analogie e differenze con altre due malattie attuali, descritte ormai da anni, ma altrettanto incomprese e sfuggenti: la fibromialgia e la sindrome da stanchezza cronica. Per ora, però, non ci sono certezze né soluzioni, se non un approccio riabilitativo, e un supporto psicologico. Il Tascabile ne ha discusso con alcuni di coloro che sono in prima linea, e che stanno osservando, per la prima volta nella storia in tempo reale, che cosa può lasciare dietro di sé un’infezione virale che fa un salto di specie e infetta una specie nuova – quella umana.
Che cos’è
In pochi mesi, anche grazie alla mobilitazione via social, sono stati descritti più di cento sintomi diversi che colpiscono i long haulers. Alcuni, però, iniziano a essere considerati veramente distintivi di questa condizione, e cioè: il fiato corto, l’affaticamento dopo il minimo sforzo (fatigue), la depressione e la difficoltà a concentrarsi (brain fog), o nebbia mentale. In genere iniziano a comparire qualche giorno dopo la scomparsa dei sintomi classici, e non suscitano particolare allarme perché sentirsi spossati dopo una malattia che ha costretto a letto, fatto risalire la febbre e causato tosse, raffreddore, e spesso manifestazioni gastrointestinali è del tutto normale. Ma poi si scopre che sono particolarmente tenaci, che sembrano non volersene andare, e si capisce che si sta scivolando gradualmente nella Long COVID. Una condizione straniante, quando accentuata, perché capace di condizionare gravemente la qualità di vita di persone che prima della malattia stavano benissimo, fino a impedire loro di lavorare o di svolgere compiti del tutto normali.
Chi soffre di Long COVID non ha più tracce di virus nell’organismo ma continua a stare male per mesi. Una condizione straniante, capace di condizionare gravemente la qualità di vita delle persone.
Già nella prima ondata i medici hanno cercato di capire meglio che cosa fosse, questo strascico. Tra i primi a mettere nero su bianco i risultati delle osservazioni sul campo ci sono stati dei medici italiani: quelli del Policlinico Gemelli di Roma, che il 21 aprile hanno aperto il primo ambulatorio post COVID, e poi hanno pubblicato sul Journal of American Medical Association una casistica di 143 long haulers di tutte le età: due mesi dopo i primi sintomi, tutti gli ex malati avevano ancora sintomi di diverso tipo, anche se la maggior parte di loro non aveva subito procedure invasive.
Spiega Francesco Landi, responsabile dell’ambulatorio del Gemelli e coautore dello studio: “Abbiamo iniziato ad assistere persone che erano state in terapia intensiva o comunque ricoverate, e avevano bisogno di riabilitazione magari perché erano state intubate, oppure avevano avuto conseguenze quali embolie o ictus. Ci siamo però subito resi conto che, accanto a questi, molti altri pazienti – che non avevano avuto forme molto gravi – avevano bisogni complessi e diversi. Per esempio, quasi tutti avevano perso peso, a volte fino al 20% di quello iniziale, e non era solo a causa del ricovero. Molti, poi, avevano bisogno di un sostegno psicologico, perché avevano vissuto un trauma profondo. E moltissimi riferivano una spossatezza che andava al di là di quella che ci si aspetta dopo un ricovero: per il 44% di loro la qualità di vita era nettamente peggiorata”. A quel punto, racconta ancora Landi, hanno cercato esperienze analoghe, ma c’era ben poco da consultare, perché questo era il primo incontro dell’uomo con Sars-CoV 2. “Per questo abbiamo iniziato a mettere a punto trattamenti personalizzati, sempre multidisciplinari, e contemporaneamente abbiamo iniziato a predisporre uno studio sistematico”.
Oggi, che di pazienti ne hanno visti più di 600, la situazione è un po’ più chiara, almeno dal punto di vista clinico, anche se non ci sono cure ancora specifiche. A tanti, oltre a un programma di riabilitazione, viene proposto sia un monitoraggio regolare (per esempio ogni tre mesi) e consigliati rimedi non farmacologici in senso stretto come specifici supplementi, anche perché spesso i long haulers sono reduci da terapie farmacologiche pesanti, e si cerca di evitare di somministrarne altre. La riabilitazione funziona per molti ma, chiarisce Landi: “Non per tutti. Inoltre bisogna pensare al futuro, e cioè a prevenire danni peggiori, che possono insorgere proprio quando non c’è un pieno recupero. Visti i numeri, e poiché è probabile che avremo a che fare con i long haulers per anni, bisognerebbe aprire molti ambulatori specifici sul territorio e, per esempio, pensare ad adeguati rimborsi per tutto ciò che si deve fare sia dal punto di vista diagnostico che da quello riabilitativo”.
Visti i numeri, e poiché è probabile che avremo a che fare con i long haulers per anni, bisognerebbe aprire ambulatori specifici sul territorio.
Una casistica molto più ampia, di oltre 700 malati, raccolta dai medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e pubblicata in gennaio, su Epidemiology & Infection, ha sostanzialmente confermato quanto osservato al Gemelli, e lo stesso è accaduto con un’altra, raccolta dai medici dell’Ospedale Maggiore di Novara (oltre 200 pazienti ) e con altri studi nel frattempo pubblicati da centri covid di diversi paesi.
In generale, la Long COVID sembra colpire di più persone che non hanno avuto forme troppo gravi della malattia, spesso giovani, quasi sempre diventate negative al tampone e più frequentemente donne che uomini. Un aspetto, quest’ultimo, che ha avuto un suo peso soprattutto nei primi mesi, perché in molti hanno ritenuto che tale differenza fosse la prova di una somatizzazione di un trauma (e qualcuno ha parlato di isteria di massa, veicolata soprattutto, guarda caso, da donne). Ma, come è sempre più chiaro, anche se la componente psicologica traumatica gioca un ruolo, c’è ben altro, nella Long COVID, e siamo ancora lontani dal capire esattamente di che cosa si tratti.
I precedenti
Se per l’oggi non ci sono riferimenti validi, nel passato ci sono vistose tracce di epidemie che, dopo la fase acuta, hanno lasciato conseguenze che, almeno in certi tratti, ricordano la Long COVID. La più nota è sicuramente l’encefalite letargica, malattia ancora misteriosa che fece la sua comparsa nel 1915, per poi protrarsi almeno per un decennio, sovrapponendosi alla spagnola, di cui è stata ritenuta (probabilmente a torto) un’eredità a lungo termine, e ad amplissimo raggio.
Descritta per la prima volta nel 1917 dal medico austriaco Constanin von Economo, si pensa abbia colpito non meno di un milione di persone, uccidendone circa la metà e provocando, in moltissime, la situazione di coma letargico descritta da Oliver Sacks in Risvegli, e in altri varie forme di grave parkinsonismo.
Anche nel passato ci sono state epidemie che, dopo la fase acuta, hanno lasciato eredità a lungo termine: la più nota è l’encefalite letargica.
Anche in quel caso tra i primi sintomi vi erano stati la febbre, il mal di gola, la spossatezza e diverse manifestazioni neurologiche che, però, avevano dato presto origine al coma letargico, quando non alla morte. Anche la maggior parte di chi ne ebbe una forma lieve non tornò quasi mai allo stato precedente. Tra le ipotesi sulle cause fu avanzata quella di un’infezione virale mai identificata, proposta dal neurologo tedesco Felix Stern, che negli anni venti esaminò centinaia di letargici. Stern, che ipotizzava un virus simile alla poliomielite, fece un esperimento cruciale, oggi al centro di una delle possibili strategie anticovid: somministrò ai malati, non appena manifestavano sintomi, il plasma dei guariti. Il test fu un successo, e Stern ne parlò in un libro del 1920, ma il suo suicidio, avvenuto durante la seconda guerra mondiale, condannò purtroppo quei dati all’oblio.
Poi, negli anni Duemila, l’idea di un virus riprese forza. In particolare, si pensò che si trattasse di un enterovirus, possibilità che parve plausibile allo stesso Sacks. Ma la prova definitiva, a oggi, non c’è ancora. Paolo Mazzarello, docente di storia della medicina dell’Università di Pavia, che all’encefalite letargica in Italia ha dedicato il libro L’erba della regina, spiega: “Oggi prevale l’idea che si sia trattato di un’infezione virale rimasta sconosciuta, più che di una conseguenza della Spagnola. Bisognerebbe cercare reperti da utilizzare per nuove indagini, anche riesumando i corpi rimasti: con i metodi attuali di sequenziamento si potrebbe forse capire, finalmente, se ci sono quelle tracce di virus che allora non furono trovate”.
Ciò che colpisce, però, sono anche altri precedenti, molto numerosi. I primi risalgono al 1500, quando in Europa comparvero, a ondate, diverse epidemie di forme letargiche, come quella che attraversò tutto il continente nel 1580, o quella che colpì Londra nel 1673 (febbre comatosa), o l’abulia che esplose a Tubinga, in Germania, nel 1712, cui seguirono, nella stessa Germania e in Francia, e fino ai primi dell’Ottocento, varie ondate di coma sonnolento.
Molti virologi e patologi suggeriscono di guardare alle enigmatiche malattie del passato, mai comprese fino in fondo, per capire che cosa sia la Long COVID.
L’Italia fu poi l’epicentro della cosiddetta Nona, una forma letargica che seguì una grave epidemia di influenza nel 1889-1890, e anche in anni più recenti sono stati segnalati diversi episodi come la febbre degli yuppie, che nel 1985 colpì Incline Village, in Nevada e che fu poi declassata a isteria di massa o, secondo Newsweek, ad affascinate forma di ipocondria. Molti virologi e patologi stanno suggerendo che si debba guardare anche a queste enigmatiche malattie, mai comprese fino in fondo, pur tenendo ben presenti le differenze, per capire che cosa sia la Long COVID.
Le ipotesi
Perché sia così complicato capire che cosa sta succedendo lo sintetizza Luca Guidotti, immunologo e virologo, che ha lavorato per oltre vent’anni a San Diego, ai modelli animali di epatite B (che per primo ha messo a punto), e oggi vice direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano, dove ha realizzato uno dei pochissimi laboratori P3 adatti a studiare malattie infettive come il Covid: “A oggi non sappiamo neppure se questo sia un virus che uccide la cellula infettata, cioè citopatico, oppure no. E si tratta di un’informazione cruciale, per capire che cosa succeda nell’organismo infettato, una volta passata la fase acuta”.
Altre informazioni fondamentali potrebbero arrivare dalle autopsie che, però, sono effettuate in numero esiguo, come ricorda un lungo articolo dello Smithsonian Magazine, sia perché i medici sono impegnati nelle corsie, sia perché compierle è molto più complicato e lungo del normale, a causa del virus. Secondo una recente casistica degli esperti della Johns Hopkins University che ne ha condotte 135, comunque, il quadro è preoccupante: Sars-CoV 2 devasta molto più del previsto, e di quanto ci sia scritto sulle cartelle cliniche.
Esistono virus come alcuni della famiglia degli herpes che restano latenti nell’organismo, annidati da qualche parte, e si riattivano anche ad anni di distanza dalla prima infezione (l’herpes che causa la varicella può dare, decenni dopo, il cosiddetto fuoco di Sant’Antonio): una delle ipotesi, spiega Guidotti, è che il Sars-CoV 2 sia un virus di questo tipo, e possa nascondersi in qualche organo, oppure in strutture del sistema immunitario. La sua permanenza, spesso non rilevabile con i normali tamponi, sarebbe all’origine dello stato di infiammazione cronica che, a sua volta, sarebbe all’origine di spossatezza, dolori e brain fog.
Secondo una recente casistica degli esperti della Johns Hopkins University il quadro è preoccupante: Sars-CoV 2 avrebbe un impatto molto più devastante del previsto, e di quanto ci sia scritto sulle cartelle cliniche.
In alternativa, l’infezione causerebbe un tale sconvolgimento del sistema immunitario e in generale dell’organismo, da innescare il risveglio (la cosiddetta slatentizzazione) di virus di altro tipo, già presenti nell’organismo. In questo caso, i disturbi sarebbero quindi dovuti ad altre infezioni, per il momento ignote: qualcosa di simile, secondo alcuni, potrebbe essere accaduto con l’encefalite letargica e con le altre malattie simili, provocate da virus risvegliati da infezioni acute come la Spagnola.
Supposizioni diverse chiamano invece in causa la grave patogenicità di questo virus. Nei mesi, infatti, medici di tutto il mondo hanno riferito danni ai più disparati organi e tessuti, perché Sars-CoV 2 si muove benissimo all’interno dell’organismo. Il segreto è nel suo aggancio alle cellule dell’ospite, che necessita di proteine chiamate recettori ACE2, quasi ubiquitarie. Poiché il virus può arrivare quasi ovunque – si pensa – le conseguenze sono così estese che, anche quando non ci sono sintomi, il danno è grave, e non risparmia il sistema nervoso. Sintomi come il fiato corto si spiegherebbero con le lesioni ai polmoni e ai vasi e così via, manifestazioni neurologiche con quelli al cervello, e così via, nella pletora di possibili effetti della malattia descritti in meno di un anno.
C’è poi un modello che mette insieme i precedenti, e che punta tutto sull’autoimmunità. Nei mesi scorsi molti clinici hanno infatti segnalato le più disparate malattie autoimmuni comparse in seguito al Covid nei loro pazienti: dal lupus alle miastenie, dalle tiroiditi a varie infiammazioni dei nervi, dall’artrite reumatoide a forme intestinali simili al morbo di Chron, e si è fatta strada una visione secondo la quale Sars-CoV 2, restando nell’organismo, oppure innescando una forte reazione difensiva, manderebbe in tilt il sistema immunitario che, dopo la fase acuta, non riuscirebbe più a rientrare nei ranghi e a funzionare regolarmente.
Secondo una delle ipotesi, Sars-CoV 2 manderebbe in tilt il sistema immunitario che, dopo la fase acuta, non riuscirebbe più a rientrare nei ranghi e a funzionare regolarmente.
Il nesso tra infezioni e autoimmunità ha precedenti illustri: da tempo si ipotizza, per esempio, che la sclerosi multipla sia causata da una mononucleosi provocata dall’herpesvirus di Epstein-Barr, o che l’artrite reumatoide derivi da una borrelliosi (o malattia di Lyme , veicolata dalle zecche), e si sa che certi febbri reumatiche sono da ricondurre a uno streptococco, così come alcune malattie autoimmuni come certe encefaliti possono dare sintomi psichiatrici (in quel caso analoghi a quelli della schizofrenia). Inoltre, come nel Long COVID, in quasi tutte le malattie autoimmuni le donne sono molto più colpite degli uomini, per motivi non chiari.
Nei long haulers, quando si va a controllare si trovano quasi sempre autoanticorpi (cioè anticorpi diretti contro proteine dello stesso organismo che li produce) di vario tipo, che non forniscono quasi mai una visione chiara (in base a ciò che si sa oggi) ma, al tempo stesso, dimostrano che qualcosa, nel sistema immunitario, è andato in tilt. Uno studio molto particolare, per ora pubblicato in attesa di revisione su MedXRiv rafforza questa idea. Gli immunologi di Yale hanno infatti controllato se il siero di 190 pazienti reagisse o meno contro 3.000 proteine self, e hanno scoperto che nel 5% di loro regnava l’entropia: erano presenti anticorpi contro vari tipi di cellule e sostanze del sistema immunitario (cellule B e linfociti T, interferoni e altro), in un caos molto significativo, ma di cui non si è ancora capito il significato.
Un’ipotesi fa un passo ulteriore, collegando Sars-CoV 2, sistema immunitario e sistema nervoso. A spiegarla è Francesco Benedetti, docente di psichiatria dell’Università Vita e Salute dell’Ospedale San Raffaele, esperto di immunopsichiatria e responsabile di uno dei primi ambulatori aperti in Italia per i long haulers, insieme a Patrizia Rovere Querini (responsabile dell’Unità Funzionale di autoimmunità dello stesso ospedale), e autore di alcuni importanti studi sul tema. “I legami tra depressione e infiammazione sono noti ormai da tempo, e quello che vediamo ha diversi aspetti che fanno pensare che la nebbia mentale, la depressione e la mancanza di energia siano riconducibili a cause infiammatorie”. Benedetti in estate ha pubblicato, su Brain, Behaviour and Immunity, uno studio su 400 pazienti COVID che, oltre a descrivere disturbi psichiatrici come lo stress post traumatico e l’insonnia in moltissimi di loro (il 56% ne avrebbe almeno uno a mesi dalla diagnosi), va in questa direzione. Il dosaggio di alcuni marcatori tipici delle infiammazioni avrebbe infatti un elevato valore predittivo sull’ansia e la depressione: più sono alti i primi, maggiore è il rischio delle seconde. Peraltro, già nel 2011, uno studio sulla depressione mostrava una relazione tra presenza di anticorpi anti virus influenzali e anche anti coronavirus e depressione.
Un’altra ipotesi collega sistema immunitario e sistema nervoso riconducendo nebbia mentale e depressione a cause infiammatorie.
Lo psichiatra sta continuando a studiare i long haulers attraverso il dosaggio di molecole tipiche dell’infiammazione, così come l’esecuzione di test specialistici sulle performance cognitive, ricorda che molti, con il giusto supporto, nel tempo guariscono. Ma non tutti. In questi ultimi, oggetto delle indagini, oltre agli effetti infiammatori, si devono sempre tenere presenti anche quelli psicologici, e cercare di distinguere tra i due. Ma la pandemia, se non altro, potrebbe finalmente chiarire molte delle domande ancora senza risposta sui più che complessi rapporti tra sistema nervoso e sistema immunitario, perché “i neuroni e gli elementi del sistema immunitario si parlano costantemente, e decidono in che direzione andare in base all’esito di questi dialoghi”.
Se così fosse, si potrebbero avere risposte anche sulle due sindromi considerate più vicine, l’encefalomielite mialgica o sindrome da affaticamento (fatigue) cronico, detta anche ME/CFS, e la fibromialgia. Descritte ormai da decenni, sono tuttora entità sfuggenti, il cui studio è stato ostacolato per anni dalla convinzione che si trattasse di somatizzazioni di natura psichiatrica o psicologica (anch’esse, tra l’altro, colpiscono più donne che uomini). Ci sono alcune differenze rispetto a Long COVID, per esempio per quanto riguarda i marcatori infiammatori presenti, ma anche tante similitudini. E disturbi assimilabili alla ME/CFS e alla fibromialgia sono stati descritti anche dopo la SARS e la MERS (e accade anche nell’AIDS, nell’epatite C, nella varicella e in altre infezioni virali).
A differenza dei malati di fatigue cronica e di fibromialgia, stigmatizzati e derisi per anni, quelli di Long COVID hanno molti sguardi attenti su di loro, via via che aumentano le segnalazioni e che cresce la consapevolezza di quanto sia necessario trovare spiegazioni, e soprattutto cure. La sfida, dal punto di vista scientifico, è affascinante e sostenuta anche dalle comunità social, sempre più numerose e combattive, e la situazione è in rapida evoluzione: a livello internazionale sono noti almeno una cinquantina di studi specifici (sugli oltre 5.000 in corso sui diversi aspetti della COVID). L’OMS in autunno ha riconosciuto la Long COVID iniziando a fornire definizioni e perimetro e indicando un valore di incidenza al 35%. Ha anche invitato a non sottovalutare i rischi dei possibili effetti, a lungo termine, per esempio sul rischio di altre malattie, ricoveri, e morti.
Nessuno, oggi, sa esattamente cosa sia la Long COVID, pochissimi sanno come comportarsi per contrastarla e, soprattutto, nessuno può dire come evolverà.
In agosto l’immunologo statunitense Anthony Fauci, al meeting dell’American Society of Microbiology, e in seguito in un’intervista al British Medical Journal ha avvisato il mondo: la Long COVID è qui per restare, ed è molto preoccupante. Perché nessuno, oggi, sa esattamente di che cosa si tratta, pochissimi sanno come comportarsi per contrastarla e, soprattutto, nessuno può dire come evolverà.