E rano gli anni Novanta quando lo psicologo evoluzionista Klaus Zuberbühler se ne andava in giro per il parco nazionale di Tai, in Costa d’Avorio, con tutta la sua attrezzatura di registrazione in spalla. Quello che gli interessava erano i richiami che risuonavano da una parte all’altra della giungla, componendo un concerto continuo e assordante: era come se le diverse specie “competessero per lo spazio sonoro”. Gli era venuta voglia di capire meglio lo scopo di tutti quei suoni, così scelse una specie di scimmia, il cercopiteco diana, e si diede da fare per provocarne i versi a comando, simulando l’arrivo di predatori vari. Si nascondeva in mezzo ai cespugli e premeva play sul registratore, riempiendo lo spazio circostante di suoni che lui stesso aveva registrato: ora il ruggito di un leopardo, ora il verso di un’aquila, ora lo strisciare di un pitone tra l’erba. In effetti la risposta arrivava, e Zuberbühler divenne famoso tra i colleghi per aver scoperto quanto di più simile al linguaggio umano esista nel mondo animale.
Dammi tre parole
Quando un cercopiteco diana sentiva un leopardo nelle vicinanze, lanciava un grido. Le altre scimmie si guardavano intorno preoccupate e salivano sugli alberi. Fin qui, niente di stupefacente. Ma se il segnale registrato era il verso di un’aquila, all’allarme della scimmia sentinella le altre scrutavano il cielo e si allontanavano dalle cime. L’allarme “pitone in vista”, invece, le faceva guardare tra l’erba in cerca di un serpente. Come se il cercopiteco diana avesse nel suo repertorio tre precisi segnali vocali, con tre significati condivisi, che si traducevano in protocolli di sicurezza completamente diversi. Possiamo chiamarli parole?
Non diremmo mai che i cercopitechi “parlano”. Né lo diremmo degli uccelli canori, che ripetono piccoli brani delle loro melodie per impararle, come fanno i bambini con le sillabe quando iniziano a parlare. O dei cetacei, anche se popolazioni diverse di balene usano segnali sonori diversi, in un modo che ricorda clamorosamente le lingue umane. In effetti, da Esopo a oggi, per noi gli animali “parlano” solo se umanizzati, e un modo più generale di indicare il linguaggio vocale tra animali, nel nostro vocabolario quotidiano, non c’è. Si direbbe insomma che con “parlare” intendiamo “comunicare a voce ed essere persone”. Sarà uno dei nostri soliti vezzi antropocentrici? Se fossi una balena, penserei che gli esseri umani non parlano, semplicemente perché non parlano come me? O il parlare umano è effettivamente, sostanzialmente un’altra cosa?
A regalarci l’esclusiva dello status di animali parlanti è un cocktail di caratteristiche che potremmo definire matematiche.
Per provare a rispondere possiamo percorrere due strade. La prima: fissare un momento storico – oggi – e muoverci nello spazio, confrontando i linguaggi orali delle altre specie animali con il nostro. La seconda: fissare il soggetto – l’essere umano – e muoverci nel tempo, chiedendoci che cosa faceva esattamente l’uomo prima di parlare: grugniva? I versi che faceva, quando e come sono diventati parlare? Parlare è un grugnire sofisticato?
Di versi
Partiamo dal presente. “Molte specie animali sono in grado di associare suoni a concetti, ma le loro intenzioni comunicative non vanno mai oltre il qui e ora”, spiega Denis Delfitto, ordinario di linguistica e glottologia all’università di Verona. “Noi possiamo riferirci a concetti astratti, al passato, al futuro, a un’ipotesi non reale, a cose che non esistono; nessun indizio lascia pensare che sia così anche per altre specie.”
Ma non basta. A regalarci l’esclusiva dello status di animali parlanti è un cocktail di caratteristiche che potremmo definire matematiche. “Nel linguaggio umano, le parti del discorso non sono tutte uguali: ogni frase è fatta di funzioni e di argomenti a cui tali funzioni sono applicate”. Un altro ingrediente chiave è la capacità di costruire strutture gerarchiche combinando gli elementi base, cioè le parole. “Disponendo in fila le parole, costruiamo automaticamente queste strutture gerarchiche, in cui alcune parti del discorso sono prominenti rispetto ad altre.” Funzioni, gerarchie, e infine ricorsività: “Incassando frasi subordinate l’una nell’altra, possiamo ottenere un discorso virtualmente infinito”. Insomma, continueremo a incontrare balene che imparano nuovi dialetti, uccelli che inseriscono motivi diversi nel loro canto, grilli in amore e scimmie straordinariamente precise, ma un’algebra della lingua così solida ce l’abbiamo, almeno apparentemente, solo noi.
Ma come siamo arrivati a conquistare una facoltà così esclusiva? Qual è lo scatto che farebbe diramare a un linguista dotato di macchina del tempo un proclama come: “3 febbraio 89.107 a.C., rive del lago Rukwa, Tanzania. Il figlio maggiore del maschio alfa del gruppo di Homo sapiens ivi residente oggi ha parlato”? L’origine del linguaggio è un problema aperto al quale hanno contribuito fior fior di studiosi. Sul dove, sono tutti d’accordo: le prime parole sono state pronunciate in Africa. Purtroppo verba volant, e le sole tracce concrete a cui ci si può aggrappare sono i fossili dell’osso ioide, l’unico dell’apparato vocale umano. Grazie a questi fossili possiamo verificare il potenziale della vocalità dei nostri antenati. L’uomo di Neanderthal ad esempio, almeno dal punto di vista fisico, aveva tutte le carte in regola per fare i suoi discorsi. Ma quando la parola sia comparsa, come, perché, tutto questo ancora non si sa.
Se il linguaggio verbale è stato oggetto di selezione naturale, e se ha determinato il nostro successo evolutivo sulle altre specie di Homo, perché non lo troviamo negli altri animali?
Il tema è appassionante quanto sfuggente, tanto che nel 1866 la Società Linguistica di Parigi, per porre un freno a un dibattito troppo disordinato, respingeva clamorosamente – già al secondo punto del suo statuto – qualsiasi tentativo di rispondere a questi interrogativi. “È stata a lungo una discussione del tutto speculativa. Fioccavano ipotesi, ma nessuna era supportata da argomentazioni solide, e si è preferito confinare il dibattito in un ambito non scientifico. In parte è ancora così.” Osserva Delfitto. “Le cose sono cambiate solo negli ultimi decenni, e le teorie più accreditate oggi sono due”.
La “storiella evoluzionistica”
Secondo la prima ipotesi, la genesi del linguaggio sarebbe stata lenta e graduale, e l’intero processo potrebbe essere durato anche centinaia di migliaia di anni, così come accade per molti caratteri e comportamenti plasmati dall’evoluzione. A riproporre quest’idea, suggerita in primis dallo stesso Darwin, sono stati nel 1989 Steven Pinker e Paul Bloom, in contrapposizione con il loro stesso mentore, Noam Chomsky, che invece l’ha sempre trovata ingenua e inverosimile. L’influenza di Chomsky sulla linguistica del secolo scorso è stata talmente profonda da scoraggiare chiunque volesse spiegare il linguaggio in termini di evoluzione, al punto che Bloom a quanto pare ebbe a rallegrarsi del mal di schiena che costrinse Chomsky a casa il giorno in cui la ricerca fu presentata al MIT.
Secondo la teoria di Pinker e Bloom, il linguaggio si sarebbe perfezionato poco alla volta, in tempi lunghissimi. Con la nostra macchina del tempo, che cosa avremmo visto? “Per semplificare al massimo, possiamo immaginare tre fasi principali”, risponde Delfitto. “Prima di tutto, una specie umana in grado di padroneggiare un gran numero di concetti. Non qualcuno, com’è il caso delle api, che hanno il concetto di fiore, di colore e pochi altri. Servono molti concetti. Poi, migliaia di anni dopo, avremmo iniziato a scorgere l’uso di un protolinguaggio, fatto di nomi corrispondenti a questi concetti. Infine, l’ultimo passaggio: una vera lingua, declinata nel modo completo che conosciamo oggi.”
Ma se il linguaggio verbale è stato oggetto di selezione naturale, e se ha determinato il nostro successo evolutivo sulle altre specie di Homo, perché non lo troviamo negli altri animali, come accade ad esempio con una facoltà preziosa come la vista? Questa è una delle critiche più comuni al lavoro di Pinker e Bloom, che i detrattori svalutano come una delle tante possibili “storielle evoluzionistiche”.
La teoria del colpo di scena
Ecco allora l’ipotesi chomskiana. Il suo ultimo saggio, dall’eloquente titolo Perché solo noi?, appena uscito in italiano per Bollati Boringhieri e scritto a quattro mani con il linguista computazionale Robert C. Berwick, inizia con un dato: a partire da ottantamila anni fa, Homo sapiens ha attraversato dal punto di vista culturale una brusca accelerazione, dopo che le sue abitudini erano rimaste pressoché le stesse per milioni di anni. È possibile allora che proprio in quel periodo, in modo abbastanza repentino, i nostri antenati si siano messi a parlare? Se fosse così, con la nostra macchina del tempo vedremmo popolazioni senza un linguaggio verbale impadronirsi della parola in tempi relativamente brevi. Magari, come suggerisce Chomsky, grazie a un improvviso transadattamento, “un riadattamento funzionale di circuiti neuronali preesistenti e di alcune delle loro basi genetiche. Naturalmente in una specie già predisposta dal punto di vista fonatorio, e con tutte le altre caratteristiche fisiche necessarie al linguaggio”, chiarisce Delfitto. Insomma, un evento istantaneo, che dovrebbe molto al caso.
La facoltà di parlare, in realtà, è uno strumento complicato, faticoso da padroneggiare, non sempre efficiente.
A quel punto il vantaggio dei sapiens sulle altre specie può apparire schiacciante, e il mistero risolto. Ma questa, per Delfitto, è una semplificazione tipica di chi non ha familiarità con le scienze cognitive.
A noi parlare sembra un vantaggio palese, ma in realtà presenta aspetti di inefficienza dal punto di vista comunicativo. Come abbiamo visto, ogni enunciato è una struttura ad albero corrispondente a un rigoroso sistema gerarchico. Fin qui tutto bene. Il problema è che le regole di questo sistema permettono enunciati del tipo: Il giornalista che lo studente che il professore ha incontrato ha accompagnato è appena uscito, che sfido chiunque a interpretare in modo immediato. Un bel problema per chi sostiene che la selezione naturale ha progressivamente migliorato, nel linguaggio verbale, l’aspetto dell’efficienza comunicativa.
I pronomi riflessivi sono un altro esempio in questa direzione: “non sono essenziali per la comprensione reciproca, eppure esistono nella maggioranza delle lingue. Spesso la sintassi consente strutture difficili da apprendere, e allo stesso tempo non funzionali alla chiarezza.” Insomma, parlare è molto più scomodo di quanto ci sembri ora che lo facciamo da millenni e che è parte integrante di quasi tutti i nostri processi culturali. È uno strumento complicato, faticoso da padroneggiare, non sempre efficiente. Se una facoltà così impegnativa fosse comparsa improvvisamente, si sarebbe conservata solo a fronte di un vantaggio adattativo enorme, ma – a questo punto – diverso da quello comunicativo. Ma quale?
Chomsky ha una risposta anche a questa domanda. Ecco come la sintetizza Delfitto: “L’ipotesi più intrigante è che il linguaggio sia stato una svolta non nella comunicazione, ma nell’organizzazione del pensiero. Poi, una volta che l’uomo ha avuto la possibilità di pensare attraverso il linguaggio, la sua evoluzione sociale e culturale può aver subito un enorme salto in avanti, il che a sua volta può aver comportato un impatto profondo sul linguaggio, che a quel punto sì, è diventato uno strumento comunicativo di grande sofisticazione”
La fortuna aiuta i loquaci
Se Chomsky ha ragione, gli ingredienti necessari per tirar fuori dal cappello una specie parlante sono davvero tanti: una voce capace di modulare decine di suoni diversi, la padronanza di migliaia di concetti, e soprattutto, commenta Delfitto, un’immensa fortuna. “Se anche un domani gli scimpanzé acquisissero una maggiore capacità fonatoria, se aumentasse il numero di concetti alla loro portata, la probabilità che si mettano a parlare potrebbe rimanere, per quanto ne sappiamo al momento, comunque bassissima”.
Per anni Chomsky ha mostrato di snobbare qualsiasi teoria evolutiva del linguaggio, ma nel 2002 appare tra gli autori di una ricerca che riconosce il valore scientifico di un confronto tra linguaggi umani e linguaggi animali. E in fin dei conti oggi la sua ipotesi non prescinde affatto dalla teoria dell’evoluzione – come potrebbe? La differenza tra la sua idea e quella dei suoi ex allievi Pinker e Bloom sembra risiedere soprattutto nei tempi e nelle motivazioni che avrebbero fatto emergere il linguaggio. Pinker e Bloom fanno pensare che tutto sommato, prima o poi, avremmo parlato comunque. Se invece il caso ha giocato un ruolo decisivo come immagina Chomsky, la sorte ci ha messo in bocca una bella responsabilità, e le cose sarebbero potute andare molto diversamente.