C i sono pochi dubbi che un giorno il ghiaccio ritornerà. Nell’ultimo milione di anni i ritmi di avanzamento e di ritiro sono stati regolari come un orologio. Farci trovare impreparati alla prossima avanzata potrebbe causare morte e carestia in proporzioni senza precedenti nella storia. Ciò che ora gli scienziati ci stanno dicendo è che la minaccia di un’era glaciale non è remota come si pensava un tempo. Già i nostri stessi nipoti potrebbero viverla: freddo artico e neve perpetua in grado di trasformare la maggior parte dell’area abitata del nostro pianeta in un deserto polare.
A parlare, con addosso un cappottone di panno, è un insolitamente apocalittico Leonard Nimoy, ai più noto come Spock della serie televisiva Star Trek. La sua narrazione accompagna il documentario The Coming Ice Age, parte della serie In search of… dedicata a fenomeni soprannaturali o misteri irrisolti e presentata per anni dallo stesso Nimoy. La puntata è uscita il 5 maggio 1978, sulla scia di un inverno più freddo del solito per il continente nordamericano. Abbastanza freddo, a quanto pare, da spingere i climatologi a lanciare l’allarme: c’è un’era glaciale in arrivo, e non siamo pronti. L’ipotesi di un raffreddamento globale su larga scala, come potete immaginare, aveva il nome di global cooling.
Non era solo il buon Spock a parlarne. Nel corso degli anni Settanta riferimenti a cali preoccupanti di temperatura si possono trovare sia su riviste divulgative come Time Magazine, Popular Science e National Geographic, sia sui quotidiani più mainstream come il New York Times. Gli articoli, corredati di interviste a ricercatori degli osservatori climatici, parlano di avvisaglie inequivocabili, e di conseguenze devastanti per la produzione di cibo su larga scala. A volte il global cooling finisce in copertina, con illustrazioni del pianeta Terra sotto una coltre di ghiaccio o di persone infreddolite sotto strati di coperte. A distanza di mezzo secolo e nel pieno del riscaldamento globale, l’ipotesi del global cooling ci fa alzare gli occhi al cielo, se non addirittura desiderare “magari”. Cos’è successo da allora, come mai i climatologi hanno preso un tale abbaglio? Che fine ha fatto questa era glaciale tanto imminente quanto temuta?
Andiamo con ordine: quando si afferma che “i climatologi hanno previsto un’era glaciale negli anni Settanta” occorre per prima cosa capire di quanti climatologi stiamo parlando. A leggere le dichiarazioni riportate sulle riviste del periodo, l’idea che sembra passare è che il consenso nel campo della climatologia fosse tutto a favore del global cooling, per poi cambiare più recentemente a favore del global warming. Era davvero questa l’opinione condivisa? Rispondere a questa domanda non ci permette solo di ricostruire la storia di una teoria scientifica: in ballo c’è anche il senso di affidabilità di un’intera disciplina e la fiducia stessa da parte del pubblico. Se i climatologi si sono sbagliati allora sul raffreddamento, è possibile che oggi siano eccessivamente allarmisti sul riscaldamento?
Se i climatologi si sono sbagliati allora sul raffreddamento, è possibile che oggi siano eccessivamente allarmisti sul riscaldamento globale?
A rispondere a questa domanda ci ha provato Thomas Carl Peterson, climatologo del National climatic data center degli Stati Uniti e presidente della World meteorological organization, agenzia di cooperazione internazionale per la ricerca sul clima delle Nazioni Unite. In un articolo del 2008, Peterson passa in rassegna la letteratura scientifica sui mutamenti climatici dal 1965 al 1979, catalogando 71 articoli in base alla loro posizione riguardo al futuro del clima: global cooling, global warming, oppure neutrali. Secondo la sua analisi, questo famigerato consenso non emerge, anzi: le previsioni offerte dagli articoli raccolti propendono più verso uno scenario di riscaldamento che di raffreddamento.
C’è solo un anno, il 1971, in cui gli studi pubblicati a favore del global cooling superano gli altri: passato questo picco, la posizione rimane minoritaria fino a scemare del tutto verso la fine degli anni Settanta. Quanto minoritaria? Un’analisi sul numero di citazioni degli stessi studi è ancora più drastica: quelli di gran lunga più citati propendono per il riscaldamento. Peterson è categorico già nel titolo della sua analisi: l’idea che negli anni Settanta ci fosse consenso scientifico sul global cooling non sarebbe altro che “un mito”.
Rimane da capire perché, seppur pochi in proporzione, ci siano stati climatologi che la pensavano diversamente. In quel decennio la climatologia moderna era a tutti gli effetti in fasce: lo studio dei cambiamenti climatici era appena iniziato, i dati raccolti saltuariamente, e si era appena iniziato a usare modelli predittivi computerizzati che si basavano su programmi primitivi. Il ruolo dell’anidride carbonica sull’effetto serra, per dare un esempio, ha cominciato a essere chiaro solo negli anni Sessanta. In questo contesto incerto alcuni elementi sembravano davvero suggerire un futuro più freddo, o almeno lasciare aperta questa possibilità. L’inquinamento atmosferico da aerosol, si pensava, avrebbe creato una sorta di coltre capace di schermare i raggi solari e ridurre l’illuminazione del suolo. Dati raccolti dal 1940 al 1960 delle stazioni climatiche nordamericane mostravano un calo generalizzato delle temperature, e dalle prime immagini satellitari dell’emisfero Nord si poteva notare un aumento della coltre di ghiaccio e neve. Il trend su scala globale raccontava una storia diversa, ma la comunità scientifica internazionale non aveva ancora messo assieme i pezzi.
Sempre in quegli anni nuove scoperte sulla ciclicità delle ere glaciali basate sulle variazioni dell’inclinazione dell’asse terrestre (i cosiddetti cicli di Milanković) portarono molti a formulare la seguente previsione: se non ci fosse stata influenza antropogenica sul clima, il prossimo ciclo sarebbe stato uno di raffreddamento. È su questo gigantesco “se” che si regge tutto l’equivoco del global cooling: l’impatto umano sull’ambiente è stato sottostimato, mal compreso, male interpretato. Sulla scia di alcuni inverni un po’ più freddi del solito, spuntarono articoli, documentari, libri di fiction e non-fiction a tema climatico, e il global cooling finì per essere sovrarappresentato nel dibattito culturale rispetto alla sua effettiva rilevanza in ambito accademico. A pochi anni di distanza, dati sempre più accurati e modelli matematici sempre più sofisticati portarono alla consapevolezza inequivocabile che la Terra si stava invece riscaldando, e in fretta.
Dati sempre più accurati e modelli matematici sempre più sofisticati portarono alla consapevolezza inequivocabile che la Terra si sta invece riscaldando, e in fretta.
Insomma, anche al suo picco la teoria del global cooling aveva un peso limitato dal punto di vista scientifico, e a mano a mano non ne ha avuto alcuno. È finita nella soffitta delle teorie scientifiche sorpassate, assieme all’etere e alla frenologia. Ma ancora oggi il global cooling è tutt’altro che scomparso: sopravvive in alcuni ambienti, e non sono quelli scientifici. Stiamo parlando di quella galassia eterogenea composta da negazionisti climatici, blogger “scettici del clima” e complottisti assortiti. La vicenda del global cooling è tra i loro esempi preferiti per promuovere diffidenza nei confronti della scienza. L’allarme sul cambiamento climatico sarebbe solo isteria collettiva, perché gli scienziati sono in grado di sbagliarsi (vedete come si sono sbagliati allora?).
Le argomentazioni dei negazionisti includono controanalisi, metodologicamente carenti, dell’articolo di Peterson (una vera ossessione in queste comunità), che a detta loro avrebbe considerato solo gli studi che gli facevano più comodo per dimostrare la sua tesi. L’esistenza stessa del suo studio non è che una riprova di un qualche tipo di complotto per nascondere la verità. Per denunciare il presunto allarmismo climatico, si mostrano le copertine degli articoli degli anni Settanta, in maniera decontestualizzata (alcune parlano di inverno in senso metaforico, altre sono ritoccate ad arte).
Anche i media italiani non sono da meno: un articolo pubblicato sul quotidiano La Verità del 22 settembre 2024, intitolato “Oggi fa più freddo che mai: lo dice la scienza” travisa le conclusioni di un’analisi di Science sugli ultimi 485 milioni di anni di clima, per poi prendersela col “maoismo verde dell’UE” e la pretesa di fermare le esondazioni acquistando più Tesla. La logica è sempre la stessa: la temperatura media di quest’era geologica è tra le più basse della storia del pianeta, e in ere passate ha fatto molto più caldo, ergo i climatologi stanno solo facendo allarmismo e gli attivisti “gretini” andrebbero ignorati (Antonio Scalari in un articolo su Facta smonta abilmente questa retorica). È vero: viviamo in uno dei periodi più freddi di sempre, ma la nostra specie non si è evoluta in un clima caldo e non è affatto detto che sia in grado di tollerarlo. Nemmeno innalzamenti di temperatura così repentini sono una novità: si sono verificati, infatti, in corrispondenza delle grandi estinzioni di massa del passato.
Prendere con le pinze quello che hanno da dire gli scienziati è sempre buona prassi, finché lo si fa in buona fede, non si nega l’evidenza, non si avvelena il pozzo di proposito. Chi oggi usa il global cooling come ragione per non fidarsi degli scienziati non è negazionista tanto per esserlo: tra le loro fila ci sono promotori del “libero commercio”, politici e consulenti di amministrazioni conservatrici, gruppi a favore del tabacco, think-thank legati agli ambienti industriali, e vari membri della galassia libertarian all’americana. Tutta gente che spinge per minori regolamentazioni allo sfruttamento delle risorse ambientali. Il sottinteso è che il cambiamento climatico non è altro che un complotto dei climatologi contro lo sviluppo industriale.
È vero, viviamo in uno dei periodi più freddi di sempre, ma la nostra specie non si è evoluta in un clima caldo e non è affatto detto che sia in grado di tollerarlo.
Non stiamo parliamo di complottisti strampalati con un microscopico blog, la loro presenza è decisamente mainstream: c’è stato, per esempio, Patrick Michaels del Cato Institute, uno dei think-tank statunitensi più influenti e meglio finanziati, c’è Peter Ferrara dell’Heartland Institute, opinionista su Forbes. Nel 2014, il celebre anchorman di Fox News Lou Dobbs ha ripetuto in diretta la storia che la comunità scientifica negli anni Settanta era concorde sul global cooling. Donald Trump lo ha fatto un mese prima di essere eletto per il suo secondo mandato: “prima lo chiamavano diversamente. Riscaldamento globale, ricordate? Ma non funzionava perché stava facendo un po’ più freddo. Così hanno detto: che cosa ci inventiamo? Lo chiamiamo global cooling? No. Così si sono inventati ‘cambiamento climatico’ perché va bene per tutto”.
È quasi come una ripetizione in salsa climatica del Teach the controversy, una campagna degli anni Duemila per promuovere l’insegnamento del “disegno intelligente”, una variante pseudoscientifica del creazionismo come alternativa alla teoria dell’evoluzione darwiniana. Se anche gli scienziati erano indecisi sul funzionamento dell’evoluzione, allora entrambe le teorie meritavano di essere insegnate nelle scuole. Solo che questo dibattito, tra evoluzionisti, non esisteva affatto: oggi come allora nessun evoluzionista ritiene il disegno intelligente un’ipotesi valida. Nel caso del clima c’è stato davvero un dibattito, ma quasi cinquant’anni fa. Oggi, come per l’evoluzione in biologia, il consenso di cui gode il riscaldamento globale in climatologia è incontrovertibile. La controversia che i negazionisti climatici stanno proponendo corrisponde a quella che i climatologi hanno superato ormai da decenni.
Chi oggi usa il global cooling come ragione per non fidarsi degli scienziati non è negazionista tanto per esserlo: ci sono promotori del “libero commercio”, politici di amministrazioni conservatrici e think-thank legati agli ambienti industriali.
L’ironia della sorte è che, forse, un’era glaciale in miniatura nei nostri giorni ci sarebbe potuta davvero essere. Un report della National Science Board statunitense del 1972 aveva previsto, in base al pattern di alternanza di cicli glaciali e interglaciali, un raffreddamento progressivo che sarebbe culminato in una vera e propria glaciazione nell’arco di 20.000 anni – a patto, come si legge nello stesso report, che le attività antropogeniche non avessero già alterato questo pattern. Forse sarebbe servito a poco e la direzione era già ampiamente segnata a partire dalla rivoluzione industriale, ma ciò non toglie che un’inversione di rotta avrebbe potuto almeno mitigare le attuali condizioni. Mancava una piena cognizione della portata della nostra influenza sul clima, ma anche ammettendo di averla, non è detto che si sarebbe lo stesso fatto qualcosa per scongiurarla. La gestione del clima, ancora più della sua percezione pubblica, è una questione poco scientifica e molto politica.