N el 1993, al termine della guerra civile tra Georgia e il piccolo territorio dell’Abcasia, una serie di storie riguardanti il centro di primatologia di Sukhumi prende spazio sulla stampa. In quegli anni, l’enorme struttura di ricerca, poco fuori città, versa in condizioni di semi-abbandono. Il complesso di edifici è circondato da un’insolita flora tropicale e all’ingresso la statua di un babbuino, alta più di 2 metri, sorveglia l’atrio sporco e i muri forati dai proiettili. I giornali spiegano che è quello il centro di ricerca in cui Stalin sperava di creare, segretamente, un esercito di uomini-scimmia, resistente alle condizioni più estreme e dalla forza straordinaria.
Gli edifici contenevano in effetti centinaia di esemplari in gabbia, che erano per la maggior parte morti di freddo o di fame a causa dell’assenza di risorse e di scienziati. Ma il centro di primatologia di Sukhumi era stato in realtà un importante e serio istituto di ricerca, luogo di sperimentazione medica per più di mezzo secolo. In quei laboratori i primati erano stati utilizzati per sperimentare i vaccini per la poliomielite, l’encefalite e i principi su cui è basato quello per la tubercolosi, oltre che per alcune ricerche sui viaggi spaziali.
La notizia della creazione di un esercito di ibridi nacque probabilmente dalla forzata associazione tra il ritrovamento di documenti in cui Stalin parla del necessario potenziamento dei soldati russi e una serie di esperimenti effettivamente ideati settanta anni prima dal biologo Il’ja Ivanovič Ivanov.
Tentativi ibridi
La possibilità di incrociare un uomo o una donna con altri animali è una fantasia che costella il nostro immaginario, la mitologia, gli incubi e i desideri di molte culture del pianeta. Ed è in particolare l’ibridazione tra uomo e scimpanzé o altri grandi primati – esseri considerati da sempre legati e affini – a essere il mito più suggestivo e persistente, quello che più spesso riemerge, negli anni, con nuovi abiti cuciti su casi di cronaca e racconti. Ma quella degli esperimenti russi di inizio secolo non è una leggenda.
Ivanov rivelò la sua idea di ibridazione uomo-scimpanzé al Congresso Internazionale di Zoologia tenutosi a Graz nel 1910. Era considerato il massimo esperto mondiale di incroci tra specie animali e di inseminazione artificiale, in un momento in cui questa pratica era perlopiù considerata disdicevole e perversa: nel 1897 il Vaticano e successivamente la Chiesa ortodossa avevano vietato ai fedeli di ricorrere a tale procedimento. Come racconta Sam Kean nel Pollice del violinista (Adelphi, 2016), quello che poteva rivelarsi un freno per la carriera del biologo russo si trasformò invece in un inaspettato trampolino di lancio qualche tempo dopo, quando le alte cariche bolsceviche videro nella sua aspirazione di ibridare l’uomo un modo trasversale per attaccare le gerarchie ecclesiastiche.
Negli anni Venti, mentre lavorava all’istituto Pasteur di Parigi, ottenne il permesso di recarsi alla stazione primatologica di Kindia, nella Guinea francese, e di cominciare i suoi esperimenti. Anche i sovietici, come detto, appoggiarono il progetto, stanziando l’equivalente di 130.000 euro di oggi.
Gli elementi che all’epoca erano in mano agli scienziati sembravano dimostrare che la somiglianza fisiologica tra uomo e primati fosse un campo su cui lavorare. I rinomati e straordinari trapianti di ghiandole e testicoli di scimmia che eseguiva il chirurgo e sessuologo Serge Voronoff per ringiovanire la virilità negli uomini anziani erano considerati una delle prove lampanti della nostra affinità con scimpanzè e simili. Inoltre Ivanov durante la sua carriera aveva creato i più disparati incroci: zebra e asino, bisonte e mucca, antilope e mucca, ratto e topo, lepre e coniglio, porcellino d’India e coniglio. Oltre ad aver divertito lo zar e i cortigiani negli ultimi anni dell’impero, e aver poi ricevuto il via libera del partito una volta nata l’URSS, scrive Kean, il lavoro di Ivanov “provava che animali di linee genetiche divergenti anche da milioni di anni potevano ugualmente accoppiarsi e dare vita a una prole, fenomeno poi comprovato da successivi esperimenti condotti da altri scienziati”. Con questo bagaglio di convinzioni e conoscenze, nel 1926 atterrò in Africa occidentale con il figlio e un gruppo di scienziati, pronto a rendere concreta la sua intuizione.
Al suo arrivo trovò circa 700 esemplari di scimpanzé stipati in piccole gabbie e tenuti in condizioni di massimo degrado, perlopiù malati. Con il governo francese si accordò per catturare altri esemplari nelle foreste interne, proseguendo il suo programma nel giardino botanico di Conakry. Il 28 febbraio del 1927 trovò finalmente due femmine che chiamò Babette e Syvette e che inseminò con una siringa, immobilizzandole e usando lo sperma di un donatore anonimo. Il 25 giugno ne inseminò una terza dopo averla narcotizzata.
Tutti e tre i tentativi fallirono perché nonostante la determinazione del dottore, assistito dal figlio, il seme non raggiunse l’utero degli animali. Il resto degli esemplari fu falcidiato dalla dissenteria e Ivanov cominciò a pensare a una nuova strategia per continuare i suoi esperimenti. Mantenere un gruppo di femmine di scimpanzé era un’occupazione dispendiosa e complicata a livello logistico, così un’idea, la più ovvia, spuntò al dottore: avrebbe tenuto un solo esemplare maschio e a essere fecondate sarebbero state donne umane.
Con quella soluzione decise di tornare in patria al nuovo centro di primatologia di Sukhumi. Passò altro tempo prima che riuscisse a trovare nuovi finanziamenti, ma alla fine persuase la Società dei Biologi Materialisti che il suo lavoro era sinceramente bolscevico.
Ivanov durante la sua carriera aveva creato i più disparati incroci: zebra e asino, bisonte e mucca, antilope e mucca, ratto e topo, lepre e coniglio, porcellino d’India e coniglio.
Quell’inverno non fu tenero con il centro di ricerca e tutti i primati morirono, tranne un orango maschio di 26 anni chiamato Tarzan. Il progetto poteva continuare, mancava solo una volontaria. I funzionari avvertirono Ivanov che le donne non potevano essere pagate ma si sarebbero dovute donare volontariamente per amore della scienza sovietica. Questo sottrasse altri mesi al dottore e all’esperimento che scivolò fino alla primavera del 1928 quando arrivò la seguente lettera, che riprendiamo sempre dal libro di Sam Kean: “Egregio professore, la mia vita è a pezzi e non vedo alcun motivo per continuare a vivere… Ma nel pensare di rendere un servizio alla scienza, raccolgo il coraggio sufficiente per rivolgermi a Lei. La prego, non mi respinga”.
Ivanov accolse la richiesta di quella che oggi conosciamo solo come “G.” e organizzò il suo trasferimento al laboratorio, vedendo il suo sogno finalmente avvicinarsi. Poco prima dell’arrivo della donna l’unico orango del centro venne colpito da un’emorragia cerebrale e morì. A questo punto il test sarebbe potuto proseguire solo l’estate successiva, con l’arrivo di nuovi primati. Durante la primavera del 1930, però, Ivanov venne epurato dal partito, arrestato e condannato a cinque anni di esilio ad Alma Ata in Kazakistan, per motivi oscuri e probabilmente inconsistenti. Nel 1932 venne prosciolto, ma il giorno prima del ritorno morì anche lui a causa di un’emorragia cerebrale, come l’ultimo orango, chiudendo un cerchio di contingenze che a intermittenza hanno impedito a questo mitologico incrocio di prendere vita.
Morto Ivanov, lo spettro dello humanzee verrà accostato più volte alla Germania nazista, a Mengele, alla Repubblica popolare cinese e a qualche laboratorio segreto negli Stati Uniti. Al di là delle leggende, però, si tornerà a parlare apertamente di ibridi uomo-scimpanzé solo nel dopoguerra.
I’m a believer
Nel 1976, ventisei milioni di spettatori assistettero alla TV giapponese all’esibizione di uno “strano scimpanzé” portato in tour dagli Stati Uniti. In studio, per rafforzare la suggestione, erano stati inviati anche due componenti dei Monkees, gruppo pop californiano scioltosi qualche anno prima. Secondo gli addestratori che l’avevano trovato nella giungla dello Zaire e secondo le analisi che venivano sbandierate, il primate aveva 47 cromosomi, ovvero uno in meno degli scimpanzé e uno in più rispetto agli umani. In molti si convinsero che fosse un ibrido nato naturalmente per qualche motivo misterioso o addirittura il rappresentante di un’antica linea evolutiva che collegava uomo e scimpanzé. Venne chiamato Oliver.
La particolarità di questo esemplare stava nel suo aspetto e nelle sue abitudini. Il viso era piatto, la testa senza peli. Tendeva a camminare eretto senza sforzo. Aveva difficoltà a rapportarsi con i suoi simili. Le persone che gli stavano intorno raccontavano, alimentando lo stupore generale, che amava guardare la televisione seduto sulla poltrona, con le gambe incrociate. A quanto dichiarò Janet Berger, la sua prima addestratrice, aveva una forte attrazione verso le donne umane.
Il caso di Oliver montava, ma il suo destino non differì da quello di qualsiasi animale addestrato. Veniva vestito di tutto punto, fumava il sigaro e girava per il mondo come un fenomeno da circo, mentre le parziali analisi fatte su di lui non portarono a una vera e propria risposta sulla sua natura. Quando l’attenzione scemò fu venduto alla Buckshire Corporation che si occupava di test scientifici e cosmetici. Per sette anni rimase chiuso da solo in una piccola gabbia, stretta al punto di provocargli un’atrofia muscolare. Nel 1998 la Buckshire accettò di liberare dodici primati da laboratorio, tra cui Oliver, mandandoli al Primarily Primates, un’organizzazione no-profit che ospita e cura in grandi spazi tutti gli animali usati per la ricerca, gli esperimenti e l’intrattenimento. Nell’ultima parte della sua vita Oliver diventò cieco e artritico ma visse serenamente nel centro, fino a spegnersi all’età di 55 anni nel giugno del 2012. Gli ultimi test genetici a cui fu sottoposto dall’Università di Chicago stabilirono che era un normale scimpanzé, con 48 cromosomi. Le sue singolarità erano un aspetto particolare e un’intelligenza spiccata.
Tra noi e loro
Prima che la bufala di Oliver si sgonfiasse, la stampa ribattezzò lo scimpanzé “l’anello mancante”. Un soprannome rivelatore. Con anello mancante si intende infatti lo step evolutivo intermedio tra uomo e specie precedenti, in una visione dell’evoluzione lineare e “a catena”, tipica dell’Ottocento, in cui ogni specie è bloccata e non transizionale.
Il concetto di anello mancante è ancora saldo nell’immaginario popolare, eppure, dal punto di vista scientifico, è ormai un concetto vuoto, largamente superato dalla moderna teoria evolutiva. Come racconta al Tascabile Guido Barbujani, docente di genetica all’Università di Ferrara, scrittore e divulgatore, “semplicemente abbiamo compreso che l’evoluzione procede in modo graduale, e quindi l’idea di poter trovare un antenato in cui di colpo comparissero tutte le caratteristiche della specie più giovane era ingenua”.
Prima che la bufala di Oliver si sgonfiasse, la stampa ribattezzò lo scimpanzé “l’anello mancante”: un soprannome rivelatore, che indica lo step evolutivo intermedio tra uomo e specie precedenti.
Una ingenuità che ereditiamo da concezioni antiche e superate delle scienze naturali. “Già Lamarck – e Darwin era d’accordo con lui – mise in crisi questa visione semplicistica, quando scrisse che specie diverse discendono, con modifiche, da antenati comuni. Vuol dire che all’inizio c’è una singola specie, e alla fine ce ne sono due. In mezzo, succedono tante cose. La teoria ci dice che prima si separano due gruppi, due sottospecie, potenzialmente perfettamente in grado di ibridarsi, ma che non lo fanno perché sono isolate l’una dall’altra. Nei due gruppi si accumulano mutazioni diverse; a questo stadio, gli ibridi sono ancora possibili, ma hanno fertilità ridotta. Quando si formano ibridi con fertilità zero (come i muli), allora in genere si parla di specie diverse; ma la transizione fra un livello e l’altro è molto graduale”.
Non potendo sperare di rinvenire l’anello mancante in qualche fossile o ancora vivo in natura, è come se volessimo a ogni costo crearne un surrogato in laboratorio con l’ibrido scimpanzuomo. E oggi che la genetica avanza più velocemente dei limiti etici che riesce a imporsi, non è escluso che il mito possa avvicinarsi velocemente alla realtà. L’ultima notizia emersa su un caso di ibridazione uomo-scimpanzé racconta proprio delle responsabilità della scienza e dei tabù che si toccano inoltrandosi in questo territorio. Gordon Gallup, celebre neuroscienziato che ha sviluppato il test dello specchio per verificare l’autoconsapevolezza negli animali, ha rivelato alla versione online del giornale scandalistico The Sun (e già il contesto dice molto) di un esperimento che si sarebbe svolto in Florida negli anni Venti. Un suo vecchio professore gli confidò che nel laboratorio di Orange Park, nei pressi di Jacksonville, una femmina di scimpanzé sarebbe stata fecondata con seme umano, e che la gravidanza fu portata a termine dando alla luce un figlio. Nel giro di alcuni giorni però gli scienziati valutarono le implicazioni etiche e morali di questo atto e decisero di sopprimerlo.
Naturalmente, ancora una volta, non esistono prove che questo episodio sia davvero accaduto, ma Gallup insiste ormai da tempo sul fatto che un’ibridazione tra l’uomo e tutte le grandi scimmie, compresi gli oranghi e i gorilla, sia possibile. In futuro gli unici limiti che incontreremo potrebbero essere quelli che saremo capaci di imporci. Per questo, come sottolinea Barbujani, nel campo delle sperimentazioni genetiche bisogna avanzare “con il confronto e il buon senso, due generi che stanno diventando sempre più rari”.