P er Michael Lewis, The Undoing Project doveva essere un libro tranquillo. Niente attualità, per una volta. Di quella ce n’era già a sufficienza nei suoi molti e fortunatissimi libri precedenti. Come The Big Short, uno dei migliori libri sulla crisi finanziaria del 2008, diventato anche un film con Christian Bale e Ryan Gosling. O Flash Boys, sugli effetti nefasti dell’informatizzazione dei mercati azionari. Prima ancora il celebratissimo Moneyball, storia (anche questa trasposta in pellicola, con Brad Pitt protagonista) dell’ingresso della scienza dei dati nel baseball professionistico americano. E così via, indietro fino al suo esordio, Liar’s Poker, basato sui suoi trascorsi giovanili di broker alla Salomon Brothers.
Insomma, per quello che è ormai un principe del giornalismo economico USA, questo libro doveva essere una piacevole divagazione intellettuale: il racconto della vita e del lavoro di Amos Tversky e Daniel Kahneman, la coppia di ricercatori israeliani che per primi costruirono un ponte tra psicologia ed economia, analizzando gli errori sistematici in cui cade la mente umana di fronte all’incertezza, e mostrando quanto siamo diversi dall’homo oeconomicus razionale descritto dagli economisti.
E invece, al momento di rilasciare interviste per promuovere il libro (uscito in USA all’inizio di dicembre del 2016, e speriamo che qualcuno lo traduca presto in italiano) Lewis si è trovato a rispondere a domande tutte sull’attualità: cosa avrebbero detto Tversky e Kahneman di Donald Trump? Quale parte della loro teoria descrive meglio i suoi elettori? Leggere il libro può aiutare a spiegare le ultime elezioni, o almeno a farsene una ragione? Il fatto è che quando uno scrittore ha fiuto per lo spirito dei tempi, come Lewis, finisce per dire tanto del presente anche quando vorrebbe solo parlare del passato. Ed è quello che succede con The Undoing Project, libro sull’incertezza e la fallibilità umana, perfetto da leggere in questo incertissimo e fallibile 2017 anche se la sua storia è tutta compresa tra gli anni Quaranta e il 2002.
Si comincia alla fine della seconda guerra mondiale, nella terra che sta per diventare lo Stato di Israele. Daniel Kahneman, figlio di ebrei lituani trapiantati a Parigi, ci arriva dopo un’infanzia passata in giro per la Francia a fuggire dai nazisti. Amos Tversky invece è nato lì, da genitori russi parte della prima ondata di pionieri del sionismo.
Fin da giovani appaiono agli opposti. Daniel è l’outsider: schivo, cupo, insicuro, sempre pieno di dubbi. Amos è l’insider: carismatico, tagliente, leader naturale, abituato fin dalla scuola a essere la persona più in gamba nella stanza. La mente di Kahenman è letteraria e dialettica, quella di Tversky matematica e analitica. Per molti anni conducono vite parallele, si sfiorano senza incontrarsi mai. Si iscrivono entrambi a psicologia, allora una disciplina caotica e poco strutturata in cui convive di tutto, da Freud al comportamentismo di Skinner. In un certo senso entrambi se la insegnano da soli, perché negli anni Cinquanta l’Università israeliana è a malapena in grado di mettere assieme un corso di laurea in psicologia. Ma hanno capito che lì ci sono praterie e che si può fare la differenza: non come nella filosofia, che a Tversky piace molto ma dove, come confida a un amico, “non si può avere impatto. Platone ha risolto quasi tutti i problemi, e quelli rimasti non hanno soluzione”.
I ricercatori israeliani Amos Tversky e Daniel Kahneman furono i primi a costruire un ponte tra psicologia ed economia.
Come tutti i loro connazionali passano dall’esercito, dove Danny fa più che altro lo psicologo, ridisegnando i test attitudinali usati per valutare soldati e allievi ufficiali, mentre Amos, manco a dirlo, fa l’eroe, guadagnandosi a 20 anni una medaglia al valore per aver salvato un commilitone che si stava facendo esplodere con una granata durante un’esercitazione.
Entrambi passano poi un periodo all’Università del Michigan, allora tra le capitali della psicologia USA, per poi tornare all’Università di Gerusalemme nella seconda metà dei Sessanta. A quel punto sono già due piccole leggende locali, i professori più celebri del dipartimento. Kahneman studia problemi molto concreti: percezione visiva e attenzione. Tversky diventa uno psicologo matematico e sviluppa astrusi formalismi per spiegare, tra le altre cose, la “non transitività” del giudizio umano (per cui, per esempio, le persone a volte dicono di preferire il caffè al the, e il the alla cioccolata, ma poi tra caffè e cioccolata scelgono la cioccolata).
Già sanno molto l’uno dell’altro e finalmente, nel 1969, Kahneman invita Tversky a tenere un seminario nel suo corso. Amos sceglie di parlare di un lavoro, non suo, che dovrebbe dimostrare che la mente umana, di fronte a problemi che coinvolgono le probabilità, applica inconsciamente le regole della statistica – solo in modo troppo conservativo. Danny ascolta, non condivide una parola e alla fine lo massacra. Per Tversky è un’esperienza nuova. Non è abituato a perdere le discussioni, meno che mai quelle di psicologia. Ma capisce che Danny ha ragione, e fa una cosa che nessun amico o familiare gli aveva mai visto fare prima: abbozza. Quell’esperimento è una sciocchezza, la mente umana non è un calcolatore di probabilità. Che cos’è allora? Attorno a questa domanda Amos e Danny diventano amici e cominciano a parlare, per ore e ore, in lunghe passeggiate o chiusi in stanze dove i colleghi non possono entrare. Lì escogitano diabolici indovinelli che sottopongono alle loro cavie: studenti di varie età, ma anche matematici e statistici di professione (i quali non se la cavano necessariamente meglio degli altri). Per esempio:
- In una famiglia con sei figli, qual è l’ordine di nascita più probabile di maschi e femmine tra MMMFFF e FMMFMF?
La risposta corretta è che i due ordini hanno la stessa probabilità, ma la maggior parte delle persone sceglie il secondo, che “sembra” più casuale.
Oppure
- Nel vocabolario inglese, pensi che la lettera K appaia più frequentemente come prima lettera di una parola o come terza? Fai una stima della proporzione tra la frequenza con cui la K appare come prima lettera e come terza
La risposta corretta, per la K come per molte altre consonanti, è 1:2, ovvero ci sono circa il doppio di parole che hanno la K come terza lettera piuttosto che come prima. La maggior parte delle persone risponde 2:1, per la K e per altre lettere.
Danny ha un talento impareggiabile per formulare questi problemi, Amos per analizzarli e formalizzare matematicamente i risultati. Diventano i “Lennon e Mc Cartney” della psicologia, come li chiama qualcuno. Perché firmano sempre in coppia, e perché dopo il loro passaggio cambia tutto.
Il loro “Revolver” è un articolo su Science del 1974, Judgement under Uncertainty: heuristics and biases. Qui dimostrano che la mente umana non usa il calcolo statistico per affrontare le decisioni dove sono in ballo rischio e probabilità, ma regole di tutt’altro tipo. Sono utili e funzionali nella maggior parte dei casi ma a volte inducono gli esseri umani in errori grossolani.
La mente umana non usa il calcolo statistico per affrontare decisioni in cui sono in ballo rischio e probabilità, ma regole di altro tipo.
Chiamano quelle regole “euristiche”, e chiamano bias (errori sistematici) le loro conseguenze. C’è quella della rappresentatività, per cui riteniamo più probabile ciò che assomiglia di più al nostro stereotipo di un fenomeno. Spiega l’errore nell’indovinello delle famiglie con sei figli (il secondo ordine di maschi e femmine sembra più casuale, quindi più rappresentativo di come va il mondo). E già che ci siamo, spiega in parte perché oggi tanti americani siano d’accordo con il “muslim ban” di Trump, anche se non esistono numeri che legano i cittadini dei sette paesi islamici coinvolti nell’ordine esecutivo del presidente americano al rischio di attentati sul suolo USA. L’adesione a uno stereotipo è molto più convincente delle statistiche.
C’è l’euristica della disponibilità, per cui la stima delle probabilità è distorta dalla memoria: ritengo più probabili le cose di cui ricordo più facilmente degli esempi. È più facile ricordare parole che iniziano per K che parole che hanno K come terza lettera, anche se le seconde sono più delle prime (ed è più facile ricordare i reati commessi dagli immigrati, specie se i media danno ad essi più risalto, sovrastimandone il peso statistico).
C’è quella dell’ancoraggio, per cui la vista di un numero grande subito prima di calcolare una probabilità mi porta a sopravvalutare quella probabilità: Danny e Amos se ne accorgono facendo girare ai loro soggetti una “ruota della fortuna” che dà un numero da 1 a 100, e subito dopo chiedendo a loro di stimare la percentuale di paesi africani tra i membri dell’ONU. Più è alto il numero uscito sulla ruota, più alta la percentuale. “Trump usa l’ancoraggio in continuazione” ha spiegato Lewis in una di quelle recenti interviste. “Quando dice che ci sono milioni di votanti illegali, quando descrive tutto come grande, gigantesco. Non credo lo faccia consciamente, ma riesce molto bene a inserirsi in quella crepa della nostra armatura mentale”.
E che dire dell’hindsight bias, quello che Tversky rimproverava soprattutto agli storici di professione, che porta a ritenere lo stesso evento molto più probabile una volta che è accaduto – e quello che è peggio, a convincersi che si sarebbe potuto prevedere quando in realtà non si poteva? “Il tono dei commenti sull’elezione di Trump”, spiegava Lewis, “è: se foste andati là fuori, aveste tastato il polso dell’America profonda, avreste capito che stava per succedere. Ma non è vero! È stato una sorta di incidente, Trump ha preso 3 milioni di voti meno di Clinton. Ne ha solo presi di più nei posti giusti, ma è più intellettualmente onesto descriverlo come il risultato di un processo caotico”.
Di fronte al rischio, gli esseri umani non scelgono razionalmente la strategia che massimizza le probabilità di vittoria, come vorrebbero gli economisti.
L’articolo su Science fa di Danny e Amos due superstar della psicologia. Ma il loro “Sgt. Pepper” è Prospect Theory, pubblicato su Econometrica nel 1979. È lì che il loro lavoro invade definitivamente il territorio dell’economia, denunciando l’inganno della teoria dell’utilità attesa. Di fronte al rischio, gli esseri umani non scelgono razionalmente la strategia che massimizza le probabilità di vittoria, come vorrebbero gli economisti: non cercano razionalmente il miglior risultato possibile. Per cominciare, temono la perdita più di quanto siano attirati dal guadagno, e reagiscono in modo opposto se lo stesso problema è posto in negativo o in positivo. Fa molta differenza se il problema è presentato come
A – Ti vengono dati 1000 dollari. Ora devi scegliere tra due opzioni
- Una probabilità del 50 per cento di vincere altri 1000 dollari
- Un dono di 500 dollari
Oppure come
B – Ti vengono dati 2000 dollari. Ora devi scegliere tra due opzioni
- Una probabilità del 50 per cento di perdere 1000 dollari
- Una perdita sicura di 500 dollari
Conti alla mano, è sempre la stessa domanda: 1500 dollari sicuri contro il 50 per cento di probabilità di averne 2000. Ma nel primo caso la maggior parte delle persone sceglie 2 (la cosa sicura) nel secondo caso sceglie la scommessa 1.
Non solo. Non giudichiamo guadagni e perdite in astratto, come insistono a pensare molti economisti, ma rispetto a un livello di riferimento che dipende da tante cose: in particolare quello che hanno gli altri, quello che avremmo potuto avere noi, quello che crediamo di meritare. Danny lo spiegava con un esperimento sui bonobo che gli avevano raccontato degli etologi. “Se io e il mio vicino di gabbia riceviamo ciascuno un cetriolo come premio, sono contento del cetriolo. Ma se io ricevo un cetriolo e l’altro una banana, quella diventa la soglia di riferimento – e tiro il cetriolo in faccia all’etologo”. Fin troppo facile notare quante cose – politica sindacale, fiscale, pensioni – si possano spiegare in termini di cetrioli e banane.
L’ultimo importante lavoro teorico che Danny e Amos firmano assieme, il loro “Abbey Road”, è in realtà soprattutto di Danny (d’altronde anche John e Paul scrivevano per lo più ognuno per conto suo) ed è quello che dà il titolo al libro di Lewis. Lo studio di come gli esseri umani “disfano” (undo) a posteriori un evento che vorrebbero non fosse successo, cercando a ritroso il punto in cui qualcosa è andato storto, dicendo “se solo…”. Danny ci arriva da un lutto personale: un nipote muore diciottenne su un caccia dell’aviazione israeliana, dove era secondo pilota, in un incidente dovuto a un errore del pilota e avvenuto solo cinque giorni prima del suo congedo definitivo. I suoi cari si tormentano. “Se solo” si fosse congedato una settimana prima. “Se solo” fosse stato lui ai comandi e non l’altro. L’immaginazione è un modo per elaborare il lutto, nota Danny, ma è curiosamente selettiva. Nessuno pensa “se solo l’aereo fosse rimasto a terra per un guasto”, o “se solo quel pilota avesse avuto l’influenza”, eventi in realtà più probabili. Tantomeno, nessuno dice “se solo Israele non avesse un’aviazione”.
Affrontiamo il mondo immaginando continuamente i possibili sviluppi futuri, ma alcuni sono più facili da immaginare – che non vuol dire più probabili.
Danny si convince che lì c’è la chiave per scoprire un’altra euristica, quella della simulazione. Noi affrontiamo il mondo immaginando continuamente i possibili sviluppi futuri, ma alcuni sono più facili da immaginare – che non vuol dire più probabili. E quando guardiamo indietro a qualcosa che è andato storto, ce la prendiamo con l’evento sorpreso, inaspettato, anche se è in un altro punto della storia che le cose avevano un’alta probabilità di andare diversamente.
Ancora da un’intervista di Lewis: “Dopo l’elezione, molti hanno provato a “disfare” Trump. Partendo dal risultato, sono andati a ritroso alla prima cosa che avrebbe potuto cambiarlo. E la prima cosa era il direttore dell’FBI che ha tirato fuori il problema delle email di Hillary, quando in realtà moltissime altre cose avrebbero potuto succedere, e cambiare il corso dell’elezione”. Qualcuno preferisce varianti come “se Sanders fosse stato il candidato democratico”, o “se Obama avesse punito più duramente Wall Street per la crisi finanziaria”. La cosa più logica da dire sarebbe “se 250 anni fa i fondatori degli Stati Uniti avessero inventato un sistema elettorale un po’ meno bizzarro”, ma nessuno o quasi lo dice.
Non è un libro lungo The Undoing project, ma c’è molto più di quanto si riesca a raccontare qui. Ci sono possesso e gelosia, Lewis racconta il rapporto tra Tversky e Kahneman come una storia d’amore senza sesso, una lunga infatuazione che monopolizza le loro energie emotive e con cui devono fare i conti, non sempre facilmente, mogli e i figli di entrambi. C’è la guerra, anzi le guerre: quella dei Sei giorni nel 1967, quella dello Yom Kippur nel 1973, che trova Danny e Amos in California e li fa saltare su uno degli ultimi aerei per Israele, dove, in una notte, da professori tornano a essere soldati.
Il finale è amaro. Amos Tversky muore per un tumore fulminante nel 1996. Qualche anno prima lui e Kahneman hanno litigato duramente, si sono allontanati in quello che Lewis descrive come un divorzio doloroso. Ma a differenza di John e Paul, hanno un’ultima occasione per riavvicinarsi. Saputa la diagnosi, Amos torna a cercare l’amico, che sarà accanto a lui fino agli ultimi giorni. La storia raccontata da Lewis termina con lo squillo del telefono che annuncia a Daniel la vittoria del Nobel per l’economia nel 2002, premio che sarebbe andato anche ad Amos se fosse stato ancora in vita.