A un certo punto della nostra conversazione, in quello che all’inizio sembra soltanto un sussurro, Frans de Waal si lancia in una breve imitazione di uno degli scimpanzé che studia da ormai quarant’anni. Dopo un paio di sbuffi gutturali, senza scomporsi, riprende poi con tutta calma a parlare in inglese. C’è qualcosa di arcano e di irrisolto nel rapporto tra esseri umani e animali, qualcosa che si perde nell’impossibilità di una comunicazione verbale e che poi prende corpo nelle tante contraddizioni con cui li trattiamo. Ogni tanto, però, chiacchierando con de Waal, si ha quasi l’impressione che sia possibile codificare – almeno in parte – la complessità dei loro comportamenti.
Olandese con passaporto statunitense, biologo e primatologo di fama mondiale, Frans de Waal è in Italia per promuovere il suo ultimo libro, Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? (Raffaello Cortina Editore). Lo abbiamo raggiunto al telefono per parlare dei suoi studi sull’intelligenza sociale dei primati e del posto che gli esseri umani hanno nella mappa del mondo animale.
Troppo umano
Il 28 maggio 2016 Harambe, un gorilla di pianura occidentale di 17 anni e quasi 200 chili, è stato ucciso nello Zoo di Cincinnati per salvare la vita a un bambino di quattro anni che era caduto nel suo recinto. Il personale dello zoo ha sparato ad Harambe che, agitato dalle urla di terrore dei presenti, aveva iniziato a comportarsi in maniera scomposta trascinando il bambino per una caviglia.
“È stato un vero shock per me. Ero molto triste”, ricorda de Waal. In un primo momento, subito dopo la caduta del bambino nel fossato, il gorilla sembrava rilassato, quasi protettivo. “Le sue intenzioni non erano chiare, Harambe era infastidito e confuso dalle grida dei presenti. Non era aggressivo: se avesse voluto, avrebbe potuto uccidere il bambino in un istante. Ma quando lo ha afferrato e ha iniziato ad agitarlo con violenza il pericolo è stato reale. Il personale dello zoo probabilmente ha fatto la cosa giusta”.
Il lieto fine forse era impossibile, ma questo non ha arginato le critiche di animalisti e attivisti che hanno ritenuto ingiustificata l’uccisione di un esemplare di una specie a rischio estinzione. La commozione ha portato a petizioni online che chiedevano azioni penali contro i responsabili dello zoo e contro i parenti del bambino. Altre petizioni chiedevano la chiusura dello Zoo di Cincinnati, che nel frattempo è stato costretto a chiudere i propri account facebook e twitter quotidianamente invasi di messaggi di insulti. L’emotività si è fatta così sopra le righe che è diventata a sua volta oggetto di critiche e prese in giro: in reazione agli eccessi della retorica dell’indignazione online, i ricordi sovreccitati della morte di Harambe sono stati cinicamente portati al parossismo e sono diventati uno dei meme di maggior successo degli ultimi anni.
Istintivamente fatichiamo ancora molto a riconoscere la complessità dei comportamenti animali e dei meccanismi della loro mente.
I dubbi sulla reale necessità dell’uccisione di Harambe rimangono anche oggi, e lo stesso de Waal confessa di aver dovuto guardare più volte video e foto online prima di riuscire a farsi un’idea, per quanto vaga, delle intenzioni e del comportamento del gorilla. Al di là del dibattito – legittimo – sulla sicurezza e l’utilità ecologica degli zoo nel 2016, l’episodio di Cincinnati e i vari piani narrativi della sua coda mediatica sembrano la perfetta illustrazione delle difficoltà del rapporto e della comprensione reciproca tra uomini e animali. Perché esperti ed etologi non sono riusciti a decifrare con certezza le intenzioni del gorilla? E perché la gran parte di noi davanti a quelle immagini ha istintivamente pensato che Harambe non fosse una minaccia, ma fosse in qualche modo benevolo e premuroso nei confronti del bambino? “Ancora non sono sicuro di cosa dimostri davvero questo episodio, e se possa davvero essere preso a emblema di qualcosa”, dice de Waal. “Forse solo del fatto che i gorilla possono essere molto pericolosi e che i bambini non dovrebbero arrampicarsi e sporgersi nelle recinzioni degli zoo”. Di sicuro però, istintivamente fatichiamo ancora molto a riconoscere la complessità dei comportamenti animali e dei meccanismi della loro mente. Secondo de Waal, “il fatto che attribuiamo sentimenti e intenzioni umane agli animali – e specialmente chi ha un animale domestico tende a farlo – è uno degli aspetti maggiormente problematici del rapporto che abbiamo con loro. Pensiamo troppo spesso che gli animali siano buoni”.
Nel 2006 il premio Oscar al miglior documentario andò a La marcia dei pinguini (La Marche de l’empereur), del biologo e regista francese Luc Jacquet, che seguiva le migrazioni dei pinguini imperatore in Antartide. Nella versione originale francese la storia era raccontata in prima persona da tre pinguini doppiati con voci umane – mamma, papà e cucciolo. “Era terribile, e ha creato nel pubblico un’impressione completamente sbagliata della vita di questi animali”, dice de Waal.
Forse in un riflesso di pudore, nella versione per il mercato anglofono si scelse di stravolgere la struttura della storia e di introdurre un racconto in terza persona, inserendo la voce narrante di Morgan Freeman a restituire un’apparente serietà al documentario (serietà che nella versione italiana si perdeva di nuovo: alla voce narrante italiana, quella di Fiorello, era stata lasciata carta bianca per modificare alcune battute del copione con i risultati che sono facili da immaginare anche a chi non ha visto il documentario). “In ogni caso quel film è stato un disastro”, secondo de Waal. Ne è uscita una divulgazione scientifica tanto cattiva che [La marcia dei pinguini] è piaciuto molto alla destra religiosa americana. Predicatori e politici riuscirono infatti a interpretare il documentario in chiave creazionista e anti-darwiniana.
Chi all’epoca si scagliò apertamente contro La marcia dei pinguini fu Werner Herzog. Negli stessi mesi in cui il film di Jacquet vinceva l’Oscar nel 2006, il regista tedesco stava girando, anche lui al Polo Sud, Encounters at the End of the World. Il film di Herzog, che sarebbe uscito un anno più tardi, si apre con la voce fuori campo del regista tedesco che promette che il suo, di documentario, non parlerà di “soffici pinguini”. Herzog in Antartide indugia sul lato oscuro del comportamento dei pinguini che il film di Jacquet aveva deciso di nascondere: la pazzia, la violenza sessuale, l’isolamento di alcuni membri del gruppo.
L’incapacità di comprensione del mondo animale e il rapporto difficile tra noi e loro, questioni discusse per mesi nei giornali dopo l’incidente dello Zoo di Cincinnati, richiamano alla memoria però un altro film di Herzog, Grizzly Man, che racconta la storia di Timothy Treadwell, l’ambientalista che morì divorato dagli orsi grizzly dell’Alaska con i quali aveva deciso di convivere e con i quali pensava di aver stretto un rapporto di profonda amicizia. Il sottinteso del film è che l’equilibrio tra uomo e natura è impossibile. “Non c’è nessuna armonia così come la intendiamo noi. L’unica armonia è quella di uno scontro collettivo e travolgente”, disse una volta Herzog in un discorso diventato famoso per i toni allucinati e apocalittici.
“Herzog ha ragione su alcune cose, ma esagera su altre”, secondo de Waal, che difficilmente potrebbe fare sua la visione cupa che il regista tedesco ha della natura e delle forze che la agitano. “Nature is not all murder. La natura non è tutta uno scontro”, risponde a tono de Waal. “Se è vero che alcune persone idealizzano gli animali, sbagliando, è vero anche che esistono diverse specie che sono cooperative e che vivono in società nelle quali ogni individuo è legato all’altro, per esempio. Alcuni animali fanno sul serio amicizia tra loro, si aiutano, cooperano, fanno cose insieme. Herzog, invece, dipinge la natura esclusivamente come un luogo di sopraffazione, e questo è scorretto tanto quanto il film sui pinguini”.
La visione del mondo animale come teatro di competizione e lotta è stato a lungo popolare anche nell’ambiente accademico. Negli anni Sessanta e Settanta scienziati di varie discipline, biologi, etologi, antropologi ed economisti hanno cercato di rintracciare nel comportamento animale le radici dell’egoismo umano. “Dal gene egoista di Dawkins in giù, quella era la visione dominante all’epoca”. Ma secondo de Waal le cose sono cambiate. “Recentemente sono stato a un convegno in Svizzera dove abbiamo parlato del comportamento altamente cooperativo e sociale dei pesci. E comportamenti simili sono stati registrati ormai da anni in uccelli, mammiferi e primati”.
Affinità e divergenze
Non c’è bisogno di andarle a rintracciare nei casi più o meno drammatici di cronaca: le contraddizioni del nostro rapporto con il mondo animale sono evidenti nella nostra vita quotidiana. Le differenze nei modi in cui trattiamo un cane e un maiale sono così grandi che è impossibile trovarci una logica di qualsiasi tipo. “È sotto gli occhi di tutti ma allo stesso tempo è molto strano a pensarci”, dice de Waal, “abbiamo un grande pregiudizio positivo ma solo verso certi animali, quelli che per qualche motivo pensiamo siano carini.”
Nel modo in cui trattiamo gli animali siamo forse destinati a essere moralmente incoerenti. Some We Love. Some We Hate. Some We Eat è il titolo (e il riassunto perfetto, vagamente fatalista) del libro di un altro Herzog, Hal Herzog, professore di psicologia alla Western Carolina University (in Italia è pubblicato per i tipi di Bollati Boringhieri con il titolo Amati, odiati, mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli animali). Quando si tratta di animali il nostro comportamento si fa eticamente farraginoso. Forse è un risultato inevitabile, forse no, ma il libro di Herzog tocca un nervo scoperto, secondo de Waal. “Il modo in cui trattiamo gli animali non è corretto. Non c’è bisogno di una enorme discussione filosofica a riguardo”. De Waal non è vegetariano, ma su un punto non ha dubbi: “credo che il modo giusto di agire sia pensare a come ridurre le sofferenze degli animali, partendo dagli allevamenti. Dobbiamo pensare a migliorare le condizioni degli zoo, è vero, e a cercare alternative possibili alla sperimentazione animale. Ma è chiaro come i numeri più grandi della sofferenza animale provengano dall’allevamento industriale”.
De Waal descrive come “machiavelliche” le doti politiche degli scimpanzé, animali capaci di instaurare relazioni sociali complesse, alleanze e gerarchie.
Riconoscere la complessità della mente animale, e riconoscere allo stesso tempo che gli animali ci somigliano in alcuni tratti essenziali: su questo dobbiamo far leva, secondo de Waal, per cambiare le cose. “Idealizzare la natura e proiettare costantemente il nostro comportamento su quello animale è un errore, ma negare le similitudini tra noi e loro è un errore ancora più grande”. De Waal lo precisa appena finiamo di parlare della Marcia dei pinguini, e continuerà a farlo ogni volta che durante la nostra conversazione si lascerà andare a qualche critica di troppo all’antropomorfismo.
Per il primatologo indugiare sulle somiglianze tra uomini e animali d’altra parte non è di per sé un problema poi così grande, e per capirlo basta mettere in fila titoli e sottotitoli di alcuni dei suoi saggi di maggiore successo: Naturalmente buoni, il bene e il male nell’uomo e in altri animali; La scimmia e l’arte del sushi, la cultura nell’uomo e negli altri animali; La scimmia che siamo, il passato e il futuro della natura umana; L’età dell’empatia, lezioni dalla natura per una società più solidale e soprattutto Il bonobo e l’ateo, in cerca di umanità fra i primati.
Durante la sua carriera Frans de Waal ha avuto modo di mostrare come bonobo e scimpanzé abbiano un’intelligenza per molti versi simile alla nostra. In uno dei suoi primi testi divulgativi, La politica degli scimpanzé, potere e sesso tra le scimmie, de Waal utilizza il termine “machiavelliche” per descrivere le doti politiche degli scimpanzé, capaci di instaurare relazioni sociali complesse, alleanze e gerarchie.
“Sono stato criticato per questo, come sono stato criticato addirittura per il fatto di aver parlato e di parlare di risate negli scimpanzé. Ma se fai il solletico agli scimpanzé, gli scimpanzé fanno davvero un suono simile a una risata, e hanno un’espressione simile al sorriso in volto. E non vedo perché non dovrei usare lo stesso termine per descrivere quello che fanno loro e quello che fa un bambino quando gli fai il solletico. La reazione è identica”. L’onere della prova, secondo de Waal, sta agli scettici. “Se qualcuno riuscirà a dimostrare che quella cosa lì non è una risata cambierò parola, ma finché non mi mostreranno le prove non vedo perché dovrei abbandonare la terminologia”.
Una vasta gamma di specie animali è in grado di prendersi cura del benessere di un altro individuo anche in assenza di una qualche ricompensa.
La situazione si fa più scivolosa quando si vanno ad analizzare animali decisamente diversi da noi come gli elefanti – che pure sono mammiferi – o gli uccelli e i pesci. “Il rischio di dare per scontato delle somiglianze comportamentali dove non ci sono in questi casi aumenta, è vero. Ma se due animali sono simili ritengo corretto assumere che il loro comportamento abbia le stesse radici, le stesse cause. Significa che l’evoluzione li ha modellati nella stessa maniera. Se due scimpanzé si baciano e si abbracciano dopo un litigio, possiamo permetterci di chiamare quei gesti bacio e riconciliazione, perché il processo che li scatena è molto simile a quello che facciamo noi quando ci baciamo e ci riconciliamo”.
Nei suoi libri de Waal prende spesso di mira la storica mancanza di volontà dell’ambiente accademico nel riconoscere le affinità tra esseri umani e animali. Una resistenza che continua anche ai giorni nostri, naturale conseguenza di quella gerarchia cognitiva che abbiamo costruito negli anni e nella quale ci siamo auto-assegnati il gradino più alto, quello dei più intelligenti di tutti. “Non siamo poi così speciali o unici”, sostiene invece de Waal, e le linee di confine tra noi e loro sono molto più sfumate di quanto spesso ci ostiniamo a credere. “È stato dimostrato che alcuni uccelli hanno un certo grado di consapevolezza del futuro, abbastanza da programmare alcuni loro comportamenti. Ci sono studi molto articolati sugli scimpanzé che mostrano come a volte siano capaci di conservare degli strumenti sapendo di doverli riutilizzare più avanti, in un luogo diverso: raccolgono magari qualche ramo, camminano per ore e poi lo usano in un posto particolare”. Non è unicamente umana neanche la trasmissione culturale: le megattere insegnano le proprie tecniche di caccia ai nuovi arrivati all’interno di una popolazione. Nei capodogli gruppi diversi utilizzano vocalizzazioni con sfumature diverse, un po’ come i nostri dialetti, e la diffusione di questi “dialetti” avviene con dinamiche simili a quelle umane.
Una vasta gamma di specie animali è poi in grado di prendersi cura del benessere di un altro individuo, anche in assenza di una qualche ricompensa. E quindi neanche la reciprocità o l’empatia, che ci appaiono caratteristiche così intimamente legate alla nostra specie, sembrano essere esclusive umane. “Le cose stanno cambiando ultimamente”, secondo de Waal, “l’intelligenza animale è ormai vista come un continuo di quella umana, magari come qualcosa di diverso ma non come qualcosa di estraneo o di meno prezioso”. Alla luce di queste nuove consapevolezze, secondo de Waal, prima o poi dovremo cambiare qualcosa nel modo in cui ci relazioniamo alla natura. Probabilmente eliminare le incongruenze e risolvere completamente il nostro rapporto con il mondo animale sarà impossibile, ma “con l’empatia e la compassione umana abbiamo l’obbligo di cambiare il modo in cui trattiamo gli animali”.