I l Friuli Venezia Giulia è terra di partenze e di ritorni. “Per anni siamo stati spettatori dei nostri emigranti che partivano e rientravano”, dice Guglielmo Pitzalis, medico e referente del Gruppo Immigrazione e Salute (Gr.I.S.) della regione. Oggi siamo spettatori di altri emigranti. Prima dai Balcani e dall’Europa Orientale, poi dal Pakistan, dall’Afghanistan, dall’Iraq curdo, dalla Serbia, dall’Africa. Il fenomeno migratorio in Friuli Venezia Giulia è costante, ma difficile da gestire perché invisibile e privo di punti di approdo. “Il verbo più usato qui per chi arriva a piedi o in treno è rintracciare. Nel resto d’Italia i migranti non sono rintracciati, scendono dalle navi”, continua Pitzalis. Esiste invece una rotta balcanica che tende all’Europa del nord, attraversando in modo invisibile Slovenia, Italia, Austria. La stessa che cercavano di seguire i 71 migranti provenienti dalla Siria e da altre zone di guerra trovati morti per soffocamento, nel 2015, in un camion frigorifero abbandonato sull’autostrada tra Austria e Ungheria.
Lungo il nostro confine nordorientale arrivano alla spicciolata, via terra, attraversando i boschi che separano l’Italia dalla Slovenia. Vengono rintracciati lungo le strade provinciali, a piedi o in treno. Alcuni arrivano nel porto di Trieste, all’interno dei container delle navi. Una volta in Italia, cercano di raggiungere le città per fare richiesta di asilo. Non è raro imbattersi in gruppi di tre o quattro migranti che viaggiano sul treno per Tarvisio Boscoverde, ultima stazione prima del confine nordorientale, a meno di dieci chilometri da Austria e Slovenia.
L’Ufficio Rifugiati dell’Italian Consortium of Solidarity (ICS) di Trieste è all’inizio di una salita ripida, in una palazzina residenziale circondata da piante rampicanti che scendono da un terrazzo all’altro. “Senza il permesso di soggiorno rilasciato dalla Questura non puoi avere la tessera sanitaria”, mi spiega Claudio Maurici, operatore sociale e coordinatore dell’ICS. Siamo in una piccola stanza quadrata, in penombra. Accanto a me tre donne africane sulle sedie e due giovani ragazzi in piedi. Senza parlare attendono il loro turno, mentre le porte degli altri uffici sono aperte e c’è un gran via vai degli operatori. Solo con la tessera sanitaria è possibile avere un medico di base.
Il fenomeno migratorio in Friuli Venezia Giulia è costante, ma difficile da gestire perché invisibile e privo di punti di approdo: la rotta balcanica tende all’Europa del nord, attraversando Slovenia, Italia, Austria.
Claudio Maurici ha trentacinque anni e dedica le sue giornate all’accoglienza umanitaria. “Facciamo qualcosa che ha una valenza politica molto concreta”. Sono tre anni che Maurici lavora all’ICS. Oggi coordina la struttura di prima accoglienza di Trieste nell’ex-caserma di Fernetti, sulla frontiera con la Slovenia, a circa 15 chilometri dalla città. Insieme ad altri ha pulito il Silos, un edificio monumentale che costeggia i binari della stazione centrale di Trieste, oggi diroccato, dove i richiedenti asilo passavano la notte prima che ci fossero strutture in grado di accoglierli.
In quali condizioni
“Se arrivano in inverno stanno peggio”, dice Maurici riguardo allo stato di salute dei richiedenti asilo. Ne ha visti passare più di novecento tra 2015 e 2016 nel capannone industriale del quartiere triestino di Valmaura, oggi chiuso. “Capita spesso che arrivino persone molto provate che hanno solo bisogno di tranquillità. Ma arriva anche gente con ferite vecchie, che ha cicatrici, pallottole… è molto vario”.
Questi ragazzi “spesso hanno subito violenze, sono disidratati e malnutriti; è vero che chi riesce a fuggire in genere sta bene al momento della partenza, ma questo patrimonio di salute si deteriora”, racconta al telefono Giovanni Baglio, medico epidemiologo e coordinatore scientifico del Programma Nazionale Linee Guida Salute Migranti dell’Istituto Nazionale Salute Migrazione e Povertà (INMP). “La prima accoglienza è il posto dove arrivi, ti fai la doccia con un sapone medicato, ti vengono dati dei vestiti puliti, trovi un letto dove riposare e un pasto caldo”, spiega il dottor Pitzalis, che incontro a Udine, nella sala dell’Ordine dei Medici.
Questo è l’intervento più efficace nel prevenire il rischio di malattie infettive e parassitarie, secondo il Protocollo per la gestione sanitaria dei migranti proposto dal Gr.I.S. del Friuli Venezia Giulia, unità territoriale della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM). Perché il rischio maggiore di contrarre e diffondere malattie si ha nei Paesi di arrivo, a causa delle drammatiche difficoltà del percorso migratorio e del prolungarsi di condizioni di vita precarie e disagiate.
Con triage si indica una valutazione medica rapida volta a individuare le emergenze, sulla base della situazione sanitaria nel Paese d’origine, del percorso migratorio e del Paese di arrivo.
Triage è il termine utilizzato per indicare una valutazione medica rapida volta a individuare le emergenze sanitarie. “Si fa in Sicilia, ad esempio, allo sbarco o direttamente sulle navi, o nelle zone di frontiera come il Friuli Venezia Giulia”, mi spiega il dottor Pitzalis. Si tratta di una valutazione del rischio e delle condizioni di salute, anche sulla base della situazione sanitaria nel Paese d’origine, del percorso migratorio e del Paese di arrivo. “Quello che facevamo noi era la primissima assistenza” mi racconta Maurici, parlando del suo lavoro al capannone di Valmaura. Il medico ti fa spogliare e ti visita: i primi controlli riguardano problemi relativi alla pelle, la scabbia, i pidocchi. Alla fine rilascia un certificato con cui è possibile farsi accogliere in una comunità.
Chi arriva non ha idea di come funzioni il sistema sanitario ed è difficile spiegargli che non si deve andare in Pronto Soccorso se non c’è un’emergenza. Questo non significa che i richiedenti asilo non abbiano diritto alle cure. Ma senza tessera sanitaria, l’unica possibilità è andare al Pronto Soccorso. Così le strutture si sovraffollano e le attività si rallentano.
L’Europa ha varato una normativa che garantisce i servizi minimi che gli Stati devono offrire nei centri di accoglienza. Ma le norme, poi, vengono definite da Paese a Paese. E, in Italia, dalle singole Regioni, che hanno larga autonomia in materia di sanità. La garanzia dei servizi dipende dalle decisioni locali, mentre i servizi di accoglienza sono dati in appalto a strutture esterne, come la Caritas o l’ICS stesso. Le leggi ci sono e l’Italia garantisce non solo le emergenze, ma anche le cure superiori. Eppure manca ancora molto perché i diritti diventino concreti: la burocrazia è gravosa, manca uno standard nazionale e l’accoglienza cambia a seconda della zona in cui viene effettuata. E se è vero che “non emergono elementi di allarme, va anche detto che c’è un’eccessiva variabilità nella pratica dei controlli sanitari”, spiega il dottor Baglio. “Non si sa bene che tipo di controlli debbano essere eseguiti e da chi”.
Mentre l’Organizzazione mondiale della sanità raccoglie buone pratiche da replicare nei Paesi europei, in Italia è nato un programma nazionale per uscire dall’emergenza, le “Linee guida sulla tutela della salute e l’assistenza sociosanitaria alle popolazioni migranti”. La prima linea guida riguarda i controlli sanitari all’arrivo ed è quasi conclusa. Sarà resa pubblica, per una prima consultazione, proprio in questi giorni. “Un documento di questo tipo, così strutturato e sistematico, è una novità per l’Italia”, spiega Baglio dell’INMP, tra i coordinatori del progetto assieme alla SIMM e all’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Le linee guida serviranno a chiarire i ruoli e l’ordine di azione, ma anche a decidere quali controlli fare, quali strategie di assistenza sanitaria adottare, quando metterle in atto, con un metodo scientifico basato su dati epidemiologici ed evidenze, sulla cosiddetta evidence-based medicine.
L’Italia garantisce non solo le emergenze, ma anche le cure superiori. Eppure la burocrazia è gravosa, manca uno standard nazionale e l’accoglienza cambia a seconda della zona in cui viene effettuata.
“L’obiettivo è promuovere controlli sanitari appropriati, riducendo il rischio di test inutili o inutilmente ripetuti, sull’onda di pratiche mediche difensive”, spiega Baglio. Non solo, infatti, i dati sanitari relativi all’accoglienza ai migranti sono frammentari e raccolti localmente, ma non esistono strumenti cartacei o informatici per registrare le azioni sanitarie svolte durante le varie tappe del lungo percorso di accoglienza.
Altri confini
Mediamente i richiedenti asilo non hanno studiato: non è raro che ci siano persone analfabete. “All’epoca dei miei nonni, esisteva una parte di società analfabeta o semianalfabeta, quindi esisteva una parte delle istituzioni attrezzata per questo”, sostiene Maurici. “Adesso non esiste più, nel nostro mondo non c’è spazio per gli analfabeti. Così, chi ha bisogno di più aiuto è chi ne riceve di meno”.
“Ci si riesce a capire per le cose fondamentali, come quante pastiglie vanno prese al giorno” spiega il dottor Pitzalis, ricordando la sua esperienza trentennale di medico in zone di confine, “ma se la sua paura è che gli rubi il sangue, le parole che occorrono sono altre, diverse da quell’inglese imparato solo per sopravvivere”.
Per questo il ruolo del mediatore culturale nelle équipe mediche è fondamentale e deve avere una preparazione accurata, anche di tipo sanitario. Ma questa figura “non è attualmente riconosciuta tra le professioni sanitarie”, mi spiega Baglio. Quindi non è sempre garantita. “Quello che la persona percepisce della sua malattia è frutto di disagi e di vissuti: è qualcosa di diverso da ciò che sappiamo dal punto di vista strettamente biomedico e scientifico”, continua Pitzalis, “e una diagnosi che non consideri questo rischia di fallire la cura”. Nell’immaginario occidentale i migranti sono descritti troppo spesso come untori. Nell’immaginario di molti migranti la medicina occidentale diventa spesso miracolosa. “La relazione tra medico e paziente deve mettere a confronto i diversi modelli culturali, riconoscere i pregiudizi e confrontarsi con gli stereotipi” spiega il dottore. “Non deve dare nulla per ovvio né per scontato”.
“Sono persone che scappano da condizioni di conflitto o di tremenda arretratezza, da persecuzioni, violenze e violazioni dei diritti umani”, conclude Pitzalis. In Friuli Venezia Giulia, a febbraio 2017, erano presenti poco più di 4900 richiedenti asilo e rifugiati internazionali. Sicuramente l’Italia ha salvato centinaia di migliaia di vite in questi ultimi anni. Ma l’approccio emergenziale con cui è gestita l’accoglienza non riesce a tenere conto della complessità di queste storie, che durano giorni, mesi, anni.