“P osso lasciarle un po’ di materiale?”, mi chiede il sales manager dopo la nostra breve conversazione all’interno di uno stand molto ben progettato e realizzato interamente con materiali di recupero. Me lo domanda porgendomi una borsa di cotone écru, personalizzata con il marchio dell’azienda e una frase ad effetto: every bottle counts, every bag counts. L’azienda, che commercializza bellissime borracce riutilizzabili in acciaio inossidabile, si è data la missione di ridurre il consumo di bottiglie di plastica e incoraggiare le persone a bere acqua di rubinetto, tal quale o filtrata. La scelta di distribuire il materiale informativo dentro una borsa di cotone che potrà essere poi riutilizzata per fare la spesa lega ancora più strettamente il marchio al movimento globale che promuove la cultura del riuso contro quella dell’usa e getta. “Cotone biologico”, precisa l’uomo, con un’espressione che sembra significare ça va sans dire.
Mentre porto in giro per la fiera questa borsa con tutto il suo carico di buone intenzioni e di carta – oltre mezzo chilo, tra catalogo, brochure e leaflet – mi vengono offerte altre shopper dello stesso tipo da altre aziende che vogliono lanciare messaggi green. Ne accetto solo due, entrambe di polipropilene riciclato: non tessuto, in un caso, tessuto, nell’altro. Torno a casa, dunque, con un totale di tre borse e tanta carta. La carta resterà per almeno venti giorni sulla mia scrivania, negletta, fino a che non mi sarò deciso a gettarla nel bidone apposito, dopo averla sfogliata rapidamente una sola volta, per confermare quello che sospetto fin d’ora, cioè che non c’è ragione di conservarla. Le tre borse invece si aggiungono alle trentasette che ho già, tra cotone, juta, e PP. Senza contare poi le borse di plastica e di carta che, sebbene concepite come monouso, ho voluto conservare perché mi sono sembrate resistenti e ben fatte, quindi riutilizzabili anch’esse. A spanne direi che possiedo almeno un centinaio di borse riutilizzabili per fare la spesa.
Grazie a uno studio del 2018, commissionato dalla Danish Environmental Protection Agency e intitolato Life Cycle Assessment of grocery carrier bags, è possibile confrontare l’impatto ambientale di una borsa per la spesa riutilizzabile in cotone con quello di una borsa di plastica usa e getta, più precisamente di un sacchetto in polietilene a bassa densità (LDPE): per intenderci, uno di quelli che si distribuivano in tutti i supermercati prima dell’avvento dei sacchetti biodegradabili in mater-bi. Su entrambi è stata condotta una valutazione di impatto ambientale lungo l’intero ciclo di vita – il “Life Cycle Assessment”, appunto, o LCA – dall’estrazione della materia prima, fino allo smaltimento in discarica: quanta energia, quante emissioni di CO2 equivalente, quanta acqua e così via. Per entrambi, inoltre, si sono considerati i seguenti requisiti funzionali: una capacità di almeno 22 litri e una resistenza a un carico di almeno 12 chili di merce.
La borsa di cotone diventa più sostenibile di quelle in plastica monouso, per le stesse funzioni, solo dopo che è stata effettivamente riutilizzata per un congruo numero di volte.
Il confronto viene rappresentato in questi termini: quante volte dovrò riutilizzare la borsa di cotone per compensare il maggiore impatto che ha comportato la sua produzione rispetto alla borsa di plastica? La risposta è impressionante. Se si considerano solo gli effetti climalteranti, cioè le emissioni di CO2 equivalente, l’impatto ambientale di una borsa di cotone da filiera convenzionale corrisponde a quello di 52 borse di plastica monouso, che è ancora un numero ragionevole; ma se si considerano anche altri parametri, come ad esempio l’impoverimento delle risorse idriche, l’eutrofizzazione del suolo, la riduzione dello strato di ozono eccetera, il valore dei riutilizzi per compensare il maggiore impatto sale a 7.100. Per una borsa in cotone biologico, come quella che mi è stata regalata in fiera, i numeri sono ancora più alti: 149 riutilizzi, considerando solo gli effetti climalteranti, e ben 20.000 (ventimila!), considerando anche tutto il resto.
Non c’era bisogno dello studio danese per sapere che nel sistema produttivo odierno la fabbricazione e commercializzazione di una borsa di cotone ha un impatto ambientale superiore rispetto a una di plastica monouso e diventa più sostenibile di questa, per le stesse funzioni, solo dopo che è stata effettivamente riutilizzata per un congruo numero di volte. Sapevo già, dunque, che possedere quaranta borse riutilizzabili, tra cui quindici di cotone, non mi accredita come un campione della sostenibilità e che se mi limiterò a usare a turno le quattro o cinque che preferisco – che in effetti sono quelle che mi basterebbero – le altre continueranno a gravare sul mio bilancio ambientale come un inutile spreco di risorse. Sì, lo sapevo già, però la quantificazione precisa fornita dal Life Cycle Assessment mi sconcerta e se ripenso alla mia esperienza in fiera alla luce di questi numeri, rivedo, come in un incubo, il sales manager circonfuso di livido green mentre mi porge, anziché una borsa di cotone bio, 20.000 sacchetti di plastica, ciascuno con la sua bella scritta: every bag counts. Una quantità che non potrei smaltire in tutti gli anni che mi restano da vivere, che sono ancora molti. Nemmeno usandone uno al giorno.
Tra i risultati dello studio danese, lo scarto tra il cotone da filiera convenzionale e quello biologico, che in base ai calcoli avrebbe un impatto tre volte superiore, colpisce in modo particolare, perché è controintuitivo. Ci si aspetterebbe il contrario e viene voglia di indagare meglio, o per trovare l’inghippo, o almeno per farsene definitivamente una ragione. Si scopre così che sui motivi di questo scarto si appuntano alcune critiche illuminanti sia allo studio danese nello specifico, sia più in generale all’LCA come metodologia per misurare l’impatto di una filiera. Non entrerò troppo nel dettaglio, ma vorrei almeno evidenziare tre punti chiave nell’impostazione della ricerca danese che ridimensionano la rilevanza dei risultati più eclatanti. Per chi volesse approfondire, c’è questo articolo del 2019 che mi è parso ben scritto e mi ha orientato nella rilettura critica della ricerca. L’intento non è screditare lo studio danese, cosa che sarebbe davvero poco interessante, ma mostrare attraverso un esempio concreto come nella complessità di questo tipo di calcoli, quand’anche scientificamente corretti e metodologicamente inattaccabili, possa annidarsi il pregiudizio ideologico.
È lecito pensare che nell’LCA agisca un pregiudizio sfavorevole nei confronti dell’agricoltura biologica?
Primo punto: il valore di 20.000 riusi per la borsa di cotone biologico si riferisce solo a uno degli impatti considerati, cioè l’assottigliamento dello strato di ozono, rispetto al quale essa avrebbe un impatto di 20.000 volte superiore al sacchetto di plastica e circa 3 volte superiore alla borsa in cotone da filiera convenzionale. L’impatto relativo ad altri indicatori, come ad esempio il consumo di acqua, è nettamente inferiore, benché resti molto elevato. “Se non si considerasse l’impatto sullo strato di ozono”, si legge in una nota a piè di pagina dello studio danese, il numero di riusi raccomandati per la borsa in cotone bio scenderebbe a 3.800, cioè circa cinque volte meno. Perché quindi si è deciso di mettere in primo piano il valore più alto tra quelli ottenuti per ciascun impatto? E perché lo si è presentato come il valore rappresentativo dell’impatto complessivo? L’effetto distorcente di questa scelta è di stabilire surrettiziamente un’equivalenza tanto sensazionale quanto fuorviante tra l’impatto ambientale di una borsa di cotone biologico e quello di 20.000 sacchetti di plastica monouso.
Secondo punto: poiché la capacità media delle borse di cotone biologico disponibili in Danimarca negli anni in cui è stata condotta la ricerca non superava i 20 litri, e quindi era di 2 litri inferiore rispetto ai “requisiti funzionali” stabiliti dai ricercatori per la comparazione, questi hanno deciso di valutare il ciclo di vita di due borse. Avete capito bene: mentre l’impatto ambientale della borsa in cotone da filiera convenzionale è stato calcolato su un singolo esemplare di dimensioni adeguate, l’impatto della borsa in cotone biologico è stato calcolato su due esemplari, ciascuno con capacità di poco inferiore a quella richiesta, ma che nell’insieme hanno un volume di 40 litri, cioè quasi il doppio. È facile supporre che, se si fosse scelto di accettare un’approssimazione di 2 litri per difetto anziché di 18 per eccesso, i valori si sarebbero dimezzati e lo scarto tra i due materiali si sarebbe ridotto drasticamente. Gli autori stessi lo ammettono con la massima trasparenza in appendice. Ma allora? È lecito pensare che in queste scelte penalizzanti agisca un pregiudizio sfavorevole nei confronti dell’agricoltura biologica?
Terzo punto: i valori più alti del cotone biologico dipendono anche dal fatto che un campo coltivato con tecniche bio ha una resa inferiore rispetto a uno dove invece si fa uso di pesticidi e fertilizzanti di sintesi. Nonostante le tecniche intensive convenzionali abbiano un impatto più alto per unità di terreno, esse garantiscono un raccolto nettamente più abbondante delle tecniche biologiche, e dal momento che nella metodologia dell’LCA la valutazione di impatto si effettua per unità di prodotto, cioè per chilo di cotone, i valori risultano comunque inferiori. “Alla fine,” si legge nello studio danese, “[con i sistemi biologici] sono necessarie più risorse e più terreno per produrre la stessa quantità di cotone rispetto ai processi di coltivazione del cotone convenzionale”.
Nell’LCA non conta quello che si fa al terreno, conta solo quello che il terreno fa.
In un breve articolo del 2020 scritto assieme a Marie Trydeman Knudsen e Christel Cederberg, lo scienziato dell’Istituto Nazionale di Francia per la Ricerca in Agricoltura, Alimentazione e Ambiente Hayo van der Werf punta il dito contro questa impostazione metodologica dell’LCA, che assegna alla resa produttiva un peso determinante nel calcolo dell’impatto ambientale, soprattutto quando questo si applica a una filiera agricola. Così concepito, il Life Cycle Assessment “tende a favorire sistemi agricoli intensivi a input elevato e a rappresentare in modo errato sistemi agro-ecologici meno intensivi come l’agricoltura biologica”. Nello studio danese sulle borse per la spesa c’è un passaggio che rappresenta bene il modo riduttivo con cui si dà conto dell’agricoltura biologica nel contesto di un LCA e vale la pena riportarlo qui, anche se Van Der Werf e colleghe non citano mai quello studio: “la produzione di cotone biologico è stata modellizzata sottraendo i dati sulla produzione di fertilizzanti dai dati sulla produzione di cotone convenzionale e riducendo la resa del 30%”. In una formula: agricoltura biologica uguale agricoltura convenzionale meno fertilizzanti, meno 30% di resa.
Se si facessero i calcoli anche per unità di terreno, anziché solo per unità di prodotto, i vantaggi delle pratiche biologiche sarebbero più evidenti. A parità di estensione, una piantagione biologica genera meno emissioni da fonti fossili perché esclude i fertilizzanti di sintesi, e immette nell’ambiente meno sostanze tossiche perché non fa uso di pesticidi. Su questa scala, inoltre, si potrebbero apprezzare anche altri benefici che sono poco rappresentati dall’LCA: la preservazione della biodiversità, per esempio, e il miglioramento della qualità del terreno in termini di struttura, composizione e attività biologica, di resistenza all’erosione e di capacità di trattenere l’acqua. Nell’LCA non conta quello che si fa al terreno, conta solo quello che il terreno fa. Come annotano acutamente van der Werf e colleghe, il terreno è considerato come parte della “tecnosfera”, allo stesso titolo delle macchine agricole, dei capannoni, del gasolio e dei prodotti chimici, ed entra nel quadro come una risorsa preziosa che può essere valorizzata solo in relazione a quanto se ne riesce a ricavare.
L’uso di suolo (land use) è uno degli indicatori chiave dell’LCA, ma ha una sola dimensione, l’estensione: quanto più piccola è questa in rapporto al raccolto, tanto meglio. Il fatto che un’area agricola biologica sia più sana, più varia, più ricca di vita, più resistente alla siccità e più accogliente e salubre per chi ci vive, viene oscurato dal fatto che è relativamente improduttiva. All’opposto, la relativa produttività di un’area agricola convenzionale nasconde il fatto che intanto il suolo si degrada, si erode, muore lentamente e avrà sempre più bisogno di nutrimento chimico, come un tossico della sua droga.
La sostenibilità risiede nel comportamento, non nella borsa in sé, ma è come se si pensasse il contrario.
La metodologia del Life Cycle Assessment si basa su un principio produttivistico secondo il quale produrre più roba è sempre preferibile a produrne meno. I correttivi alla metodologia che chiedono van der Werf e colleghe nel loro articolo si basano invece sull’assunto che la produttività possa essere sacrificata a benefici ecosistemici importanti in relazione alla sostenibilità delle filiere. Il problema è che per questi benefici ecosistemici è difficile definire metriche condivise e standardizzate, e viene da dubitare che l’LCA e l’idea stessa di “misurazione” abbiano alcun senso al di fuori delle logiche produttivistiche. Fuori da quelle logiche, la nozione di “misura” avrebbe molto più senso se fosse intesa nella sua accezione normativa ed etica di “giusta misura”, di “limite”. La domanda allora non sarebbe più: quanto impatta sull’ambiente ogni chilo di cotone che produco e cosa posso fare per ridurre questo impatto? Ma sarebbe: come e quanto ne posso produrre senza compromettere un sano equilibrio ecosistemico nel territorio, senza ridurre troppo la biodiversità, senza degradare il suolo, sterminare le api, peggiorare la qualità di vita di chi abita vicino alla piantagione e di chi ci lavora?
I benefici ecosistemici del biologico e dell’agroecologia, quelli che sono oggi poco rappresentati nell’LCA, diventerebbero così le precondizioni all’attività produttiva e ne definirebbero preliminarmente i limiti. Poi, entro questi limiti si potrà ancora stabilire che tipo di combustibile sia meglio usare per le macchine agricole e i mezzi di trasporto, o quale fertilizzante organico, per minimizzare l’impronta energetica per chilo di prodotto. Ma il grosso si sarebbe già ottenuto e si potrebbe realizzare l’ideale di un sistema produttivo globale basato, almeno in parte, su una sommatoria di “ecosistemi produttivi locali” in equilibrio. Uno scenario di questo tipo provocherebbe inevitabilmente un calo nell’offerta di prodotti di cotone, e per favorire la transizione bisognerebbe agire parallelamente sulla domanda, diffondendo lo stesso senso della “misura come limite” tra i consumatori, affinché si sviluppi in loro un’insofferenza per lo spreco e per l’eccesso. A quel punto ci si renderebbe conto che non c’è bisogno di tutto il cotone che si produce oggi e che si può vivere meglio con qualche camicia in meno nell’armadio e senza cappellini souvenir, strofinacci natalizi, t-shirt promozionali, eccetera.
Con queste idee in testa, tornerò in fiera il prossimo anno e rifiuterò sistematicamente tutte le borse riutilizzabili che mi offriranno in omaggio. Anzi, porterò dimostrativamente a tracolla tutte le quaranta borse per la spesa che possiedo, per scoraggiare le avances degli espositori. Il riuso è una cosa buona, ma ho l’impressione che si stia esagerando con le borse riutilizzabili. La sostenibilità risiede nel comportamento, non nella borsa in sé, ma è come se si pensasse il contrario e bastasse regalarne o averne una in più per sentirsi a posto con la propria coscienza ecologica. Così si finisce per produrne e distribuirne molte di più di quante potranno mai essere “riutilizzate per un congruo numero di volte”, arrivando al paradosso di promuovere una pratica sostenibile attraverso una pratica insostenibile.