I l segreto del successo dell’Homo sapiens sapiens non è qualcosa di cui vantarsi troppo. Non mi riferisco all’inquinamento, all’allevamento intensivo di animali o ai genocidi ma a qualcosa di ancora più antico e nascosto, come la caccia. Così piccolo, spelacchiato e gracile, l’ominide non è nato per cacciare usando artigli e fauci. Le sue armi segrete erano la resistenza e l’intelligenza. Cacciava in piccoli gruppi, inseguendo prede più grandi di sé per ore, giorni. Sotto al sole e alla pioggia. Noncurante dell’afa, poteva bruciarsi le spalle per inseguire un mammifero fino a stremarlo. A quel punto, nel modo più sadico e vigliacco possibile, l’ominide attaccava la preda con un bastone appuntito o una freccia rudimentale. Uccideva, squartava, abbrustoliva, ingeriva. Il grande successo umano parte da storie simili, da quel tipo di caccia ossessiva, vigliacca e brutale.
Non è chiaro come quel mammifero si sia ritrovato a pensare all’infinito. Ed è difficile comprendere quale linea invisibile unisca i primi insediamenti, le prime civiltà, le prime guerre, a un’idea così sovversiva: in un mondo in cui tutto ha fine – e la fine è il fine stesso di tutto – noi abbiamo immaginato l’eccezione. L’infinito. Il primo a parlarne fu Anassimandro, che lo indicava con il termine ἄπειρον, che potremmo rendere con “senza limiti”. Non bastava. L’infinito è qualcosa di diverso, di più grande, di una cosa che non ha un limite. Secondo i Greci l’infinito aveva in realtà un principio: o meglio, come diceva Aristotele, “sembra essere principio di tutte le altre cose e tutte abbracciarle e governarle”. Il matematico francese Paul Tannery, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, propose una traduzione alternativa di ἄπειρον: “inconoscibile”, “insondabile”, a suggerire come l’assenza di una fine porti con sé una mancanza di senso o direzione. Eccoci già nei territori del mistero e della perdizione. L’infinito è pericoloso per definizione, un enigma senza risposta per noi poveri mortali. Quand’ero bambino lo sentivo dire spesso: “a pensare all’infinito si diventa pazzi”. Dev’essere un monito che si rifila ai bambini quando imparano che i numeri sono infiniti e decidono di verificarlo, cominciando a contare a voce alta senza dare l’impressione di avere in programma di smettere. Comunque sia, ricordo di aver provato da bambino a pensare a una cosa che non finisce mai, a immaginare l’universo senza fine – e guardate dove sono oggi.
Ai nostri umili fini matematici, però, immaginare l’infinito non serve a granché. Ci basta recuperare una pagina della terza superiore, tornare ad Archimede e al poligono di 96 lati con cui calcolò il perimetro di una circonferenza, partendo da un esagono e raddoppiando di volta in volta il numero dei lati, seguendo il metodo di esaustione. Immaginate se fosse andato avanti: 192 lati, 384, 768, ancora, e ancora, in un poligono che avrebbe avuto sempre più lati, senza arrivare mai a una fine, perché nessun poligono di n-lati potrà mai diventare un cerchio. Oppure ripeschiamo il grafico della funzione logaritmica, che vediamo sprofondare verso lo 0 nei pressi dell’asse delle ordinate. La curva scende senza mai arrivare a toccare lo 0, o l’asse delle y, poiché non si può ottenere uno 0 elevando una quantità, qualunque essa sia (qualsiasi valore diverso da 0, elevato alla 1, dà sé stesso; elevato alla 0, dà 1). Come in uno strano girone dantesco, la funzione logaritmica passa l’eternità ad avvicinarsi allo 0 senza toccarlo mai: in questi casi si dice che la retta y è asintoto della funzione.
L’infinito è pericoloso per definizione, un enigma senza risposta per noi poveri mortali.
Le discussioni sull’infinito si fecero piú interessanti con quel burlone di Zenone di Elea, un presocratico vissuto nel V secolo a.C. noto per i suoi paradossi, come quello di Achille e la tartaruga: il piè veloce Achille, l’eroe omerico per eccellenza, procede a velocità continua inseguendo una tartaruga, animale lentissimo, che pure si muove a velocità costante. Il paradosso sta proprio nel concetto di “costante”: per raggiungere la tartaruga Achille deve prima raggiungere il punto di partenza della tartaruga stessa (chiamiamolo punto A), che nel frattempo si è mossa di pochissimo verso un altro punto (chiamiamolo A1); una volta arrivato ad A1, l’animale sarà già un poco piú avanti, in A2, in un inseguimento infinito e impossibile. Vi è piaciuto? Ecco un altro paradosso ancora più strambo, secondo il quale sarebbe addirittura impossibile muoversi da un punto all’altro, sempre per colpa dell’infinito. Immaginiamo di volerci muovere dal punto A al punto B: per coprire l’intera distanza tra l’uno e l’altro dovremmo prima percorrerne la metà (AB/2). Per farlo, però, dovremmo percorrere la 2 metà di quella metà (AB/4). Per farlo, però, dovremmo prima arrivare alla metà di quest’ultimo tratto, ovvero AB/8. E così via, all’infinito, dimezzando di continuo la stessa quantità senza mai raggiungere il fondo.
Dietro questo inghippo si nasconde in realtà uno degli ostacoli mentali che impedì ai Greci di formulare una rudimentale teoria sull’infinito. Secondo Paolo Zellini, matematico e grande lume di riferimento nei dungeons della materia, “l’infinito era stato ben presente e intuibile nella matematica che precedette l’analisi differenziale, e se pur ancora sconosciute a quel tempo, anche le dimostrazioni del Metodo di Archimede ne avevano già offerto un’immagine riconoscibile […]. Ma i Greci non vollero capire o accettare i vantaggi della generalizzazione algebrica. Fu invece Leibniz a scoprirli e a esaltarli”. I pitagorici arrivarono addirittura ad associare la perfezione al concetto di limitato e l’imperfetto all’illimitato. Per questo e molti altri motivi, a quelli che noi chiamiamo limiti si arrivò solo nel Seicento, quando due dei personaggi più strampalati di questo lungo percorso (Isaac Newton e Gottfried Wilhelm von Leibniz) cominciarono a prendersi a cornate in pubblico per decretare chi di loro aveva veramente inventato gli strumenti per calcolare l’impossibile.
Questo è il problema della matematica scolastica: prende una storia umana millenaria e la trasforma in una serie di “argomenti” disponendoli in un ordine arbitrario. Nessuno si è svegliato un giorno e ha detto: “voglio calcolare i limiti di una funzione”. Si è andati per gradi, partendo dalle coniche, inventando gli assi e il concetto stesso di funzione, fino a ottenere “la piú grande creazione di tutta la matematica, dopo la geometria euclidea”, ovvero il calcolo infinitesimale, una creatura fatta di derivate e integrali. E di limiti. Tutti i libri scritti sull’argomento parlano a questo punto di Cartesio, della tangente, di Newton e di Leibniz. Ma il programma di matematica non vuole sentire ragioni: prima devono esserci i limiti! Ci adeguiamo.
I pitagorici arrivarono addirittura ad associare la perfezione al concetto di limitato e l’imperfetto all’illimitato.
Il simbolo con cui in matematica si indica l’infinito è ∞, battezzato in seguito “lemniscata”. L’origine del glifo sembra legata all’abitudine di usare la lettera M per indicare una quantità grandissima presso i Romani. Abbiamo accennato al rapporto poco proficuo che questi ultimi ebbero con la matematica, disciplina troppo eterea per quello strano popolo di imperialisti con la passione per gli acquedotti. Così, quando dovevano immaginare una quantità davvero grande, pensavano a M, la lettera con cui indicavano il numero mille, che alle volte veniva riportata in minuscolo (m), trasformandosi nel corso dei secoli in una coppia di cerchi congiunti: M → m → ∞. Il primo ad applicare il concetto di “senza fine” alla realtà fu un pensatore latino del I secolo a.C., Lucrezio, secondo il quale l’universo era appunto infinito. Nel mondo antico, quanto meno in Occidente, era un’idea malsana e pericolosa. Per difenderla, Lucrezio architettò una delle sue trappole logiche: immaginò che l’universo avesse una fine e che qualcuno vi si avvicinasse per poi tirare un sasso verso il bordo, la fine o l’inizio di tutto. Stabilì poi che il sasso non poteva infrangersi contro qualcosa – la fine – perché quel qualcosa avrebbe dovuto poggiarsi su qualcos’altro, e quel qualcos’altro si sarebbe trovato al di fuori dell’universo stesso. Il che non aveva senso. Quindi l’universo doveva essere infinito.
L’avvento del cristianesimo e il declino dell’Impero romano d’Occidente spensero quei pensieri libertini sulla natura dell’infinito. Nel XIII secolo, san Tommaso d’Aquino immaginò un Dio “infinito, ed eterno, ed incircoscrivibile”, precisando che esistevano due nature di infinito: la prima legata alla forma, l’altra alla materia. Una era Dio, l’altra si rifaceva all’idea aristotelica di “senza fine”. Bisognava però andarci cauti: siamo nel Duecento, la scienza è intrisa di religione e la Chiesa di Roma si trova in una delle fasi meno autoironiche della sua storia: in un’Europa dal rogo facile, parlare di infinito era pericoloso. Lo capì a sue spese Giordano Bruno, filosofo vissuto nel Cinquecento, che cercò di coniugare l’idea lucreziana di un universo infinito con il cristianesimo, scrivendo De l’infinito, universo e mondi, pubblicato a Londra nel 1584. Bruno provò dunque a far ragionare la Chiesa con la seguente formulazione logica: come poteva Dio, l’essere infinito, creare un universo finito? Era assurdo: solo un Dio finito avrebbe potuto creare un universo finito – e l’idea di un Dio non infinito era del tutto fuori questione. La Santa Sede la prese benissimo. Il 17 febbraio 1600 Giordano Bruno fu messo al rogo a Roma, in Campo de’ Fiori, dove oggi una statua ne commemora il sacrificio.
Un estratto da La seconda prova. Imparare la matematica, vent’anni dopo (Einaudi, 2024) di Pietro Minto.