È un fatto poco noto che, per sette minuti, l’umanità ha sconfitto la morte. In quei sette minuti del 30 luglio del 2003 un neonato di bucardo – specie estinta – venne alla luce, soffrì e morì.
Tre anni e mezzo prima, il 6 gennaio 2000, i veterinari trovarono Celia, l’ultimo esemplare di bucardo – o capra dei Pirenei – morta sui monti al confine tra Francia e Spagna, schiacciata da un albero crollato. Celia era punto finale di una specie che aveva almeno venticinquemila anni, annientata nel corso di un secolo dai fucili dei cacciatori. Nel 1989 il governo spagnolo cercò di raccogliere gli ultimi bucardo sopravvissuti, ma trovò solo tre femmine anziane. Quando nel 1999 Celia rimase l’unica, un team di ricercatori francesi e spagnoli si sbrigò a catturarla, narcotizzarla e a raccogliere campioni di cellule per attuare un piano disperato: clonarla.
Non fu né facile né divertente. Clonare oggi è routine, lo era meno nei primi anni 2000, e resta comunque un affare precario e imprevedibile. Dalle cellule di Celia furono generati 497 embrioni: 154 vennero impiantati in quarantaquattro capre. Solo cinque rimasero gravide. Tutte persero il cucciolo, tranne una. Una volta giunta apparentemente a termine, i veterinari decisero per il cesareo. La capretta era viva, ma soffocava, con la lingua fuori, stravolta in uno spasmo grottesco. Pochi minuti dopo era immobile. L’autopsia rivelò che, come capita spesso con i cloni di mammiferi, i polmoni erano malformati. Probabilmente per questo rimase tutto in sordina: la brevissima de-estinzione del bucardo venne pubblicata molti anni dopo, nel 2009, su una rivista non particolarmente prestigiosa. Ma intanto, per la prima volta, una specie estinta aveva di nuovo aperto gli occhi sulla Terra.
Il principale ideologo della de-estinzione è Stewart Brand, inclassificabile futurologo il cui motto è: ‘Siamo come dèi, tanto vale imparare a farlo bene’.
Si dice che l’entomologo Robert John Tillyard, folle di nostalgia per gli insetti fossili che non poteva studiare vivi, un giorno si rivolse a un medium per riavere viva una libellula dell’era Carbonifera. Oggi non serve l’occulto, ma la genetica: c’è un lungo elenco di specie – dal tilacino all’alca, dal moa alla tigre dai denti a sciabola, al piccione passeggero – che potrebbero tornare davvero in vita. La prossima sarà probabilmente la “rana dalla gestazione gastrica” del Queensland che – degna di un bestiario medievale – allevava i suoi figli nello stomaco per poi partorirli dalla bocca. Estinta dagli anni ’90, nel 2013 ne sono stati clonati degli embrioni, anche se per ora non è nato nessun girino. Per le altre è più complicato, ma è solo questione di volontà e denaro.
E allora, dove sono i mammut?
Siamo come dèi
Sebbene preceduto da Carnosaur di John Brosnan nel 1984 e dal fumetto Judge Dredd negli anni ’70, è il romanzo Jurassic Park di Michael Crichton che introduce al pubblico il concetto di de-estinzione. Dinosauri a parte, molti ricorderanno che il libro ruota attorno allo scontro tra il matematico Ian Malcolm, esperto della teoria del caos e Cassandra del vaso di Pandora e del principio di precauzione, contro il miliardario John Hammond, irresponsabile Trump biotecnologico nel romanzo, ingenuo sognatore nel film di Spielberg.
Il dibattito odierno è un po’ diverso. Il principale ideologo della de-estinzione è Stewart Brand, inclassificabile futurologo il cui motto è “Siamo come dèi, tanto vale imparare a farlo bene” (“We are as gods and might as well get good at it”). La sua storia inizia con la controcultura anni ’60, quando diventa un guru pubblicando nel 1968 il leggendario Whole Earth Catalog. Un libro/collage fieramente libertario e autarchico, il cui scopo era recensire e catalogare strumenti per “istruirsi da soli, trovare la propria ispirazione, modificare il proprio ambiente e condividere la propria avventura”. Secondo una visione ecologista, ma vigorosamente pro-attiva, il Catalog è il primo tentativo di Brand di consegnare a tutti il potere di plasmare se stessi e l’ambiente, togliendolo alle élite. Una cassetta degli attrezzi per visionari che assieme a calcolatrici, pelli per vestirsi e manuali per soffiare il vetro include anche i libri dell’architetto Buckminster Fuller, Crescita e forma di D’Arcy Thompson, compendi di psicologia junghiana e altri artefatti culturali. Oggi sarebbe un blog o un forum Reddit, e infatti il Catalog è stato chiamato “Internet prima di Internet” (Brand ha in seguito fondato nel 1985 una delle prime comunità online del mondo, The WELL) e non a caso ha ispirato una generazione di élites tecnologiche della Silicon Valley. È di Brand il famigerato slogan “Stay hungry, stay foolish” che Steve Jobs citava esplicitamente dall’edizione 1974 del Catalog.
Per Revive and Restore la miglior difesa della biosfera è l’attacco: abbiamo distrutto la biodiversità, quindi abbiamo l’obbligo di ripararla.
Finita l’era hippie, Brand ha proseguito il suo approccio controverso, che definisce “eco-pragmatico”. In Whole Earth Discipline, libro del 2009, sostiene il potenziale ecologico di biotecnologie, energia nucleare e perfino geoingegneria. Con la moglie Ryan Phelan crea Revive and Restore, la fondazione che è il nodo culturale, se non organizzativo, dell’attuale movimento della “ecologia della resurrezione”, identificando le specie chiave su cui concentrare gli sforzi.
Per Revive and Restore la miglior difesa della biosfera è l’attacco. Noi abbiamo distrutto la biodiversità, quindi abbiamo l’obbligo di ripararla. Quando gli chiedono se riportare alla luce una specie estinta è “giocare a essere Dio”, Brand risponde seccato: “Abbiamo già giocato a essere Dio quando abbiamo sterminato queste specie”.
Dal Jurassic Park al Pleistocene Park
La de-estinzione è presa sul serio dall’ecologia: la International Union for Conservation of Nature, nel 2016, ha pubblicato delle linee guida in merito. Ma le singole specie, a volte, non sono il punto. La de-estinzione non ha come scopo finale quello di creare parchi per turisti (anche se i suoi fautori non hanno problemi a dichiarare che potrebbero avere importanti conseguenze culturali ed economiche, oltre a finanziare ulteriori sforzi di conservazione ecologica), ma reinserire dei nodi fondamentali nella rete dell’ecosistema. Molte piante neozelandesi stentano dopo la scomparsa dei moa che disperdevano i loro semi. L’estinzione dei mammut potrebbe aver devastato l’ecologia della Siberia, trasformando in tundra quella che 10.000 anni fa era una ben diversa steppa erbosa.
De-estinguere un ecosistema: con questa idea l’ecologo russo Sergey Zimov fonda nel 1988 il Pleistocene Park. Sedici chilometri quadrati nel mezzo della Siberia, dove non ci sono turisti ma scienziati e grandi mammiferi. Reintroducendo animali come il bue muschiato, alce e altra grande fauna erbivora, Zimov sta ricostruendo un fazzoletto di steppa pleistocenica. Mancano solo mammut e rinoceronti lanosi. Zimov cerca di simulare i loro effetti, per esempio con mezzi cingolati per compattare il terreno, ma non basta: “Tiriamo giù gli alberi con i carri armati, ma i carri armati non producono letame”. Per Zimov e collaboratori, ripristinare l’antica fauna siberiana potrebbe perfino essere d’aiuto contro il riscaldamento globale. Il continuo calpestio della neve da parte di grandi mammiferi evitava lo scioglimento del permafrost e quindi il rilascio del metano contenuto nel suolo, un gas serra molto potente. Riavere i mammut – progetto oggi guidato dal genetista George Church ad Harvard – non è un capriccio per biologi nostalgici, ma una forma di geo-ingegneria.
Eppure proprio chi si occupa di conservazione della biodiversità guida un movimento trasversale di biologi, bioeticisti, ecologi e comunicatori scientifici (tra cui l’intera redazione di Scientific American nel 2013) che si oppone alla de-estinzione. Invece del lusso di riavere un bucardo sulla Terra per sette minuti, si sarebbe potuto spendere in modo più efficiente per proteggere le sottospecie di capre dei Pirenei che esistono ancora, ma sono anch’esse in difficoltà. Benaltrismo? Recentemente su Nature Ecology and Evolution hanno pubblicato dei calcoli: investendo nella resurrezione di specie si rischia di perdere biodiversità, stornando fondi da sforzi di conservazione che salverebbero molte più specie a un costo minore. Secondo un modello, riavere cinque specie significherebbe perderne altre quarantadue. Tori Herridge, paleontologa specializzata in mammut ma contraria alla loro resurrezione, ha scritto sul Guardian: “Mi viene da piangere quando penso a quanto abbiamo perduto, gli animali che non vedremo mai. Ma […] se ci sentiamo così per il mammut, pensate a come si sentiranno i nostri figli quando faremo estinguere gli elefanti. Dovremmo concentrarci su questo, perché non accada mai.”
Nel 1988 l’ecologo russo Sergey Zimov fonda il Pleistocene Park con lo scopo di ricostruire un pezzo di steppa pleistocenica, reintroducendo la grande fauna erbivora.
Altri autori ammoniscono: se convinciamo il pubblico che dall’estinzione si possa ritornare, non sarà che poi si disinteressino dal salvare le specie esistenti? Per Peter Banks e Dieter Hochuli dell’Università di Sydney le specie estinte devono essere considerate martiri della distruzione ecologica e la resurrezione li priverebbe di valore simbolico. Che la de-estinzione sia un modo per scaricarci di una responsabilità?
Falsi dilemmi, rispondono i fan della de-estinzione. Riportare in vita specie estinte sarebbe un immenso shock culturale capace di incentivare la conservazione della natura. Brand scrive sul sito di Revive and Restore: “L’immaginazione prende il volo. Solo il pensiero di mammut e piccioni passeggeri di nuovo vivi invoca la meraviglia e lo stupore che guida tutti gli sforzi di conservazione al loro livello più profondo”.
Caso unico tra i dibattiti bioetici, nella de-estinzione è imprescindibile anche il valore estetico. Possiamo raccontarcela finché ci pare sul ruolo ecologico del mammut o sul senso di colpa per aver fucilato i tilacini, ma sotto sappiamo tutti che, molto semplicemente, rivedere una specie estinta sarebbe bellissimo. È quel batticuore di meraviglia, il sense of wonder, da sempre uno dei primi motori di ogni indagine scientifica, di ogni ambientalismo. La stessa Tori Herridge, mentre argomenta contro la resurrezione dei mammut, scrive “nonostante le mie proteste, pagherei per vederne uno”. C’è un richiamo viscerale al quale non si può sfuggire. Ma – ed è un grosso “ma” – la de-estinzione è un atto dell’uomo. Per Ben Minteer, professore di etica ambientale all’Arizona State University, è in realtà un “sublime tecnologico”, in cui la meraviglia per una natura misteriosa e incontrollabile si trasforma in fierezza per la nostra capacità demiurgica.
Il facsimile malinconico
Ogni de-estinzione è possibile solo se c’è informazione genetica disponibile. Non vedremo mai un trilobite o un dinosauro vivo, il DNA dopo pochi milioni di anni è perduto per sempre. Ma anche quando c’è, va ricostruito e non è facile. Parlare di de-estinzione come se potessimo portarci dietro una mandria di dinosauri da una macchina del tempo è fuorviante. Una specie de-estinta è un facsimile e lo si comprende guardando le tre tecniche note per riportare una specie in vita.
La prima – e finora l’unica che ha funzionato – è la clonazione. Queste saranno le uniche de-estinzioni ripristinate da un patrimonio genetico intatto, ma ben poche sono le specie estinte di cui abbiamo cellule in buono stato. La seconda è il backbreeding, o retro-selezione. Per esempio il patrimonio genetico dell’auroch, il gigantesco toro che popolava le foreste europee fino al ‘600, non è scomparso: è disperso nelle varie razze di mucca domestica. Reincrociandole è possibile riassemblare lentamente il genoma dell’auroch finché non si ottiene una stirpe di animali simili agli originali. Infine, c’è la soluzione più generale: l’ingegneria genetica. Se c’è un parente vivente di una specie estinta e se abbiamo assemblato il genoma di quest’ultima (oggi abbiamo numerosi genomi di specie estinte, dal Neanderthal al mammut), possiamo riscrivere pezzo per pezzo il DNA della specie esistente, fino a che non diventi simile a quello del nostro obiettivo.
Nuova vita ®
Se la de-estinzione è una forma di biologia sintetica, sorgono numerose domande. Tali creature sono brevettabili? A che punto, ricostruendo pezzo per pezzo un genoma come la nave di Teseo, otteniamo davvero una antica (nuova?) specie? Conta la sua origine artificiale o conta la somiglianza con la specie originaria? Stiamo recuperando o stiamo creando qualcosa di nuovo?
Ogni de-estinzione è possibile solo se c’è informazione genetica disponibile: non vedremo mai un trilobite o un dinosauro vivo, il DNA dopo pochi milioni di anni è perduto per sempre.
Tranne che nel caso del backbreeding, il primo individuo de-estinto sarebbe solo quanto l’ultimo della sua stirpe, fin dalla nascita. Il primo mammut del XXI secolo vivrà una indicibile malinconia. La sua madre surrogata sarà, nella migliore delle ipotesi, un’elefantessa indiana che nulla sa di come istruire un cucciolo a sopravvivere in una steppa artica. Molte specie si trasmettono comportamenti in modo culturale. Ben Novak, genetista alla guida del progetto di resurrezione del piccione passeggero americano, propone un complesso piano di bootstrap per ripristinare il comportamento di questo uccello. Ad esempio sarà necessario creare “stormi surrogati” di piccioni moderni colorati artificialmente per insegnare a migrare ai giovani piccioni passeggeri. Una specie de-estinta inoltre non ha più il suo “alone ecologico”: non ha più i suoi virus e parassiti specifici e rischia di diventare invasiva. O viceversa di perire senza il microbioma con cui era in simbiosi. In decenni o secoli gli ecosistemi sono andati avanti: il buco lasciato dalle specie estinte è stato, almeno in parte, coperto da altre specie.
Neon Genesis Thylacinus
Il gergo della de-estinzione gronda teologia e millenarismo. Brand stesso scrive: “Abbiamo ucciso numerose specie negli ultimi 10.000 anni. È ora di fare un po’ di resurrezione. Potremmo ricavarne un po’ di redenzione”. Nomi come Project Lazarus, Project Ark, locuzioni come “ecologia della resurrezione” alludono al peccato di aver ferito l’Eden della biosfera, il perdono tramite la resurrezione della carne.
Per Emily Thew, dottoranda in letteratura all’Università di Sheffield, ispirata da Thom van Dooren e Deborah Rose, lo sforzo di de-estinzione è – nel senso freudiano – intrinsecamente melancolico. Secondo molti, quando nel TED Talk sulla de-estinzione nel 2013 Brand usa lo slogan: “Non stiamo in lutto, organizziamoci!”, in realtà non sa gestire quel lutto. Diventa una forma di narcisismo in cui non riusciamo a sganciarci da quello che abbiamo perduto, perché è parte di noi, della nostra identità. E non si può negare che le specie estinte siano ben vive nella nostra fantasia, affascinando le bambine e i bambini di tutto il mondo. I dinosauri sono l’equivalente moderno dei draghi delle favole. Il pupazzo che fa compagnia ai bambini nel programma L’albero azzurro si chiama Dodo. Riaverle è la fiaba che diventa realtà.
Non sappiamo se un giorno dei mammut artificiali ci salveranno dal riscaldamento globale. O se davvero ricreare un moa o un tilacino sia giusto o sbagliato. Se ci farà sentire a posto con la coscienza o se sia un lusso decadente. Sappiamo però che la de-estinzione è uno specchio: dopo quei sette minuti in cui una capra dei Pirenei ha di nuovo chiuso gli occhi, noi li stiamo aprendo su cosa significhi per noi la vita sulla Terra, sul ruolo della meraviglia nel fare scienza. Questo, forse, ci potrà redimere.