S ono le tredici e sei minuti del 26 febbraio 2022 quando il giovanissimo imprenditore ucraino e ministro della trasformazione digitale del governo Zelensky, Mykhailo Fedorov, pubblica un tweet menzionando l’account di Elon Musk, il magnate che di lì a due mesi diventerà proprietario della piattaforma acquisendola per la cifra record di 44 miliardi di dollari. Sono trascorsi solo quattro giorni da quando le truppe della Federazione Russa hanno lanciato una massiccia operazione militare contro l’Ucraina, con l’obiettivo di rovesciare il governo regolarmente eletto per sostituirlo con un gabinetto più favorevole alla politica imperialista del presidente Vladimir Putin. Rivolgendosi direttamente a Musk, Fedorov gli ricorda che “mentre lui sta cercando di colonizzare Marte, la Russia prova a occupare l’Ucraina”, e fa notare che se i suoi razzi atterrano con successo dallo spazio, “quelli russi colpiscono la popolazione civile del paese”. Il tweet si conclude con la richiesta esplicita di fornire all’Ucraina alcuni terminali Starlink.
Sviluppato dall’azienda SpaceX di cui Musk è proprietario, Starlink è il sistema di internet a banda larga più avanzato al mondo. Grazie a una vasta costellazione di satelliti che utilizzano una bassa orbita terrestre, Starlink fornisce connettività per una vasta gamma di utilizzi, offrendo internet ad alta velocità e bassa latenza in tutto il pianeta. La risposta del magnate arriva non più di dieci ore dopo il tweet di Fedorov: nel tweet di commento, Musk dichiara apertamente che il servizio Starlink è stato attivato in tutto il territorio ucraino e che altri terminali sono in viaggio verso il paese. Se la storia di questo scambio finisse qui, sarebbe uno straordinario apologo su come i social network possono influenzare le relazioni diplomatiche tra un paese sovrano e una multinazionale tecnologica. Ma la storia, purtroppo, ha un seguito tutt’altro che trascurabile.
La guerra continua a basarsi su concetti e tecnologie tradizionali ma, al tempo stesso, presenta elementi di profonda innovazione.
Avanti veloce: l’8 febbraio 2023, Gwynne Shotwell, presidente e COO di SpaceX, dichiara di aver preso provvedimenti atti a prevenire che l’Ucraina faccia un uso militare di Starlink. Non c’è mai stata, dice Shotwell, l’intenzione, da parte dell’azienda, di fornire kit satellitari per gli usi bellici che ne sono stati fatti dalle forze armate ucraine. Tali utilizzi non erano intenzionali né facevano parte di alcun accordo tra l’azienda e il governo ucraino. Altro salto in avanti: il 7 settembre del 2023 il Washington Post pubblica un estratto dell’autobiografia di Musk in cui il miliardario racconta allo scrittore Walter Isaacson di aver dato l’ordine di tagliare la copertura Starlink al largo della Crimea, per impedire un attacco di droni ucraini contro la base navale russa di Sevastapol. In entrambe le circostanze, vibranti proteste e richieste di spiegazioni sono state avanzate da ministri e alti funzionari del governo ucraino.
Si potrebbe essere tentati, leggendo il racconto del travagliato rapporto tra il governo ucraino e Musk, di dedicare le proprie energie a capire quali siano state le motivazioni che hanno spinto il miliardario ad agire in modo così schizofrenico. Ma la questione centrale non è tentare di comprendere le scelte di Elon Musk, quanto riconoscere il fatto che la connettività sia diventata, oggi, un requisito fondamentale per poter svolgere una delle più antiche attività umane di cui si abbia conoscenza: la guerra. Come ebbe a dire uno dei suoi teorici più importanti, Carl von Clausewitz, la guerra è un’attività conservatrice e in constante cambiamento allo stesso tempo: ogni guerra è perciò il precipitato della conoscenza generata da ogni altra guerra che l’ha preceduta, aggiornato alle più recenti acquisizioni tecnologiche, intellettuali e contestuali.
Che l’intuizione di Clausevitz sia ancora valida lo racconta non solo l’invasione dell’Ucraina, ma anche la guerra nel Nagorno Karabakh e i più recenti conflitti armati sulla Striscia di Gaza. Dall’importanza dell’artiglieria a quella delle trincee e dell’effetto sorpresa, questi tre conflitti hanno dimostrato come la guerra continui a basarsi su concetti e tecnologie tradizionali ma, al tempo stesso, presenti elementi di profonda innovazione. Elementi evidenti al punto da aver spinto Mick Ryan, generale in pensione dell’esercito australiano, analista e divulgatore militare, a definire questi tre conflitti a transformative trinity, “una trinità trasformativa”.
A un sistema d’arma autonomo verrebbe a mancare la distinzione tra quello che è legale e quello che è giusto.
A giustificare questa definizione sono soprattutto tre elementi: la complessa e intrecciata rete di sensori civili e militari presente sul campo di battaglia; la digitalizzazione delle infrastrutture e dei processi di comando e controllo; l’utilizzo sempre più esteso di sistemi autonomi e di contromisure volte a limitarne o inibirne le capacità. Il primo di questi tre elementi è conseguenza diretta della nascita e dello sviluppo delle comunicazioni satellitari e della rete internet, che hanno permesso di integrare la connettività in un numero sempre crescente di oggetti i quali, grazie ai sensori di cui sono dotati, possono raccogliere e generare dati da condividere in rete.
Un logica che è stata abbracciata dalle istituzioni militari di tutto il mondo fin dagli anni ’90 del Novecento, grazie all’elaborazione del concetto di network centric warfare (“guerra centrata sulle reti”), una dottrina militare che ha come obiettivo quello di trasformare in un vantaggio competitivo l’informazione garantita da una robusta rete di computer dispersi geograficamente. Dunque attraverso la condivisione di informazioni raccolte sul campo di battaglia e il collegamento in rete delle diverse forze alleate, l’approccio alla guerra centrato sulle reti aumenta la consapevolezza condivisa della situazione sul campo, la velocità di comando, il ritmo operativo, la letalità, il tasso di sopravvivenza e il grado di sincronizzazione di una forza militare.
Ai network di carattere militare si aggiungono oggi quelli di natura civile, dando vita a una rete di intelligence sempre più intrecciata e in grado di generare dati che gli operatori militari possono integrare nella loro attività, moltiplicando così la quantità dell’informazione a loro disposizione. La creazione di questo genere di reti e l’aumento dei dati che determinano hanno esteso e velocizzato la capacità di raccogliere informazioni in tempo reale utili a sviluppare una più chiara e profonda consapevolezza delle situazioni che le forze militari si trovano ad affrontare in un determinato momento. Questa capacità di sviluppare consapevolezza si traduce nella progressiva e crescente digitalizzazione delle infrastrutture e dei processi di comando e controllo, che è stato uno dei più importanti fattori di innovazione nelle operazioni condotte dalle forze armate ucraine contro l’invasione da parte della Federazione Russa.
La ‘guerra centrata sulle reti’ ha mostrato il potenziale di un conflitto armato condotto attraverso l’uso di software e logiche algoritmiche.
Per quanto a guadagnarsi le prime pagine dei giornali siano stati i sistemi d’arma come lo Stinger, gli HIMARS o i carri armati Leopard, ad averne moltiplicato in modo esponenziale l’efficacia sono stati i network in grado di connetterli gli uni agli altri, dimostrando tutto il potenziale di una guerra condotta attraverso l’uso di software e logiche algoritmiche. Esemplare in questo senso è il software di consapevolezza situazionale denominato Delta: sviluppato dall’industria bellica ucraina a partire dal 2017, Delta è diventato rapidamente uno dei software di comando e controllo più sofisticati al mondo, permettendo l’integrazione di una grande mole di dati e la loro condivisione in tempo reale lungo l’intera catena operativa. Delta ha anche facilitato l’introduzione di una tecnica di comando più decentralizzata e flessibile, che ha permesso un’evoluzione della cultura tattica ucraina verso logiche di gestione simili a quelle che caratterizzano le organizzazioni nate dalla cultura digitale.
Il terzo e ultimo elemento di innovazione emerso dalla “trinità trasformativa” individuata da Ryan è il complesso di sistemi autonomi e le contromisure necessarie per limitarne o inibirne le capacità. Di questo complesso fanno parte i diversi tipi di droni – aerei, navali e terrestri, militari e civili – che sono stati utilizzati in modo crescente nel corso di tutti e tre i conflitti analizzati e per una molteplicità di scopi che vanno dalla ricognizione al controllo del tiro, dal bombardamento aereo al trasporto di equipaggiamento, fino all’evacuazione di personale ferito e a molti altri utilizzi ancora. L’introduzione e l’uso sempre più esteso di questi tre elementi – reti di sensori, digitalizzazione delle infrastrutture di comando e sistemi autonomi – sui campi di battaglia odierni determinerà una serie di importanti implicazioni nel prossimo futuro.
In risposta e in relazione alla loro introduzione emergeranno infatti nuovi concetti a livello strategico, operativo e tattico; l’elevato tasso di consumo dei sistemi che ne rendono possibile l’utilizzo renderà necessario accelerare e rendere più resilienti al rischio le operazioni di approvvigionamento; il design delle forze armate verrà modificato dall’introduzione di nuove unità come, per esempio, quelle dedicate alle operazioni di guerra elettronica e di gestione delle segnature elettromagnetiche dei diversi sistemi utilizzati sul campo. Infine, ed è forse la principale tra le implicazioni determinate dalla comparsa delle reti di sensori, dalla digitalizzazione delle infrastrutture e dei processi di comando e controllo e dai complessi di sistemi autonomi, assisteremo a un cambio nel ritmo delle operazioni tattiche.
Il software Delta ha facilitato logiche di comando più decentralizzate e flessibili, simili a quelle che caratterizzano le organizzazioni nate dalla cultura digitale.
La maggior accuratezza nel “dipingere” il campo di battaglia che deriva dalla combinazione di questi tre fattori determina infatti un’accelerazione del processo decisionale che modificherà il modo in cui i leader militari saranno addestrati e aumenterà il numero dei sistemi autonomi presenti sul campo di battaglia. Tale accelerazione non sarà priva di conseguenze, perché porrà ai leader militari una sfida rispetto alla loro capacità di gestire enormi quantità di informazione al ritmo sempre più rapido necessario per garantirsi un vantaggio competitivo sul nemico. L’introduzione dell’intelligenza artificiale nei processi di comando e controllo è perciò destinata a diventare una necessità sempre più impellente per far fronte all’aumentata capacità di generazione e raccolta dei dati resa possibile dalla diffusione di reti di sensori sempre più vaste ed estese.
Uno sguardo sulle possibili conseguenze che potrebbe avere questo passaggio nel modo in cui verranno condotte le guerre del futuro ce lo fornisce una lunga inchiesta realizzata dai magazine israeliani +972 e Local Call, intitolata ‘A mass assassination factory’: Inside Israel’s calculated bombing of Gaza. Attraverso testimonianze raccolte nella community dell’intelligence israeliana, l’inchiesta ricostruisce il modo in cui sono stati condotti attacchi aerei contro obiettivi civili nel corso della recente invasione della Striscia di Gaza e il ruolo avuto hanno spinto sulla digitalizzazione dei diversi domini del campo di battaglia e sulla loro integrazione in un sistema di generazione, raccolta, elaborazione e condivisione dei dati, la cui gestione è demandata all’intelligenza artificiale.
È da questo sforzo che è nato il sistema al centro dell’inchiesta pubblicata da +972 e Local Call. Denominato Habsora, questo sistema di intelligenza artificiale lavora su diversi tipi di dati di intelligence (visivi, umani, geografici, di sorveglianza, derivanti da segnali elettromagnetici) ed è in grado di usare strumenti automatici per accelerare il ritmo della produzione di obiettivi da colpire. Alcune delle testimonianze raccolte tra il personale delle forze di difesa israeliane assicurano che il sistema permette di analizzare ed elaborare quantità di dati che nemmeno decine di migliaia di operativi umani potrebbero processare e, in questo modo, riesce a fornire in tempo reale enormi quantità di obiettivi da colpire.
Le nuove tecnologie adottate nel campo di battaglia stanno accelerando il ritmo delle operazioni tattiche.
Introdotto per la prima volta nel 2021 nel corso dell’operazione “Guardians of the wall”, salutata come il primo conflitto armato condotto con l’uso dell’intelligenza artificiale, Habsora è stato in grado di aumentare il numero di obiettivi creati dai circa 50 all’anno delle operazioni precedenti fino a 100 obiettivi al giorno, sopperendo così alla mancanza di obiettivi che in passato aveva limitato l’azione delle forze di difesa israeliane. Numeri che giustificano la dimensione industriale che molte delle testimonianze raccolte nell’inchiesta attribuiscono al modo in cui il sistema fa evolvere la pianificazione e l’esecuzione dei bombardamenti.
Questa dimensione è uno degli aspetti più inquietanti che la prospettiva di una guerra condotta con l’ausilio di sistemi di intelligenza artificiale proietta sul nostro futuro. Tali sistemi, infatti, operano in modo più rapido del pensiero umano, accelerando ulteriormente il processo necessario a trasformare i dati in conoscenza che informa l’azione. Qualora gli utilizzi bellici dell’intelligenza artificiale venissero spinti al loro limite estremo, a essere reso autonomo dal controllo umano sarebbe dunque l’atto di uccidere che, delegato all’AI, porrebbe problemi etici di notevole portata. Lo scopo di un sistema autonomo, infatti, è capire e soddisfare un bisogno: più che eseguire un compito, questi sistemi devono raggiungere un obiettivo, valutando il modo più efficiente per farlo e agendo senza alcun istinto di conservazione.
A un sistema d’arma autonomo verrebbe perciò a mancare la distinzione tra quello che è legale e quello che è giusto, cancellando ciò che rende ogni soldato l’ingranaggio imperfetto di ogni macchina militare: la sua coscienza, senza la quale alla guerra verrebbe a mancare quell’elemento così profondamente umano che è la capacità di riconoscere se stessi nello sguardo dell’altro. Priva di questo elemento, la guerra non sarebbe altro che la cieca e spietata esecuzione di ordini e istruzioni dirette al raggiungimento di un obiettivo, un’attività del tutto priva di quell’istinto di conservazione che, finora, ha garantito all’umanità la sopravvivenza in un’epoca di armi di distruzione di massa.