E ra il 4 maggio 1934. Nella zona termale di Bad Dürremberg, in Sassonia, i preparativi procedevano frenetici. Tutto doveva essere pronto per il sabato della settimana successiva: quel giorno era prevista l’inaugurazione ufficiale del parco in cui, oltre alle sorgenti termali saline frequentate da secoli, si trovava nientemeno che l’Hunnenstein, la pietra fondativa dell’impero germanico. Secondo una tradizione mai dimostrata ma tenuta in vita dagli abitanti del luogo, su quella pietra sarebbe stata impressa l’impronta della mano di re Enrico I di Sassonia, che nel Decimo secolo avrebbe detto: “quanto è vero che la mia mano preme su questa pietra, noi vinceremo”. Il 15 marzo del 933 Enrico, sovrano dei Franchi orientali, aveva effettivamente sconfitto i magiari, e per questo la ricorrenza faceva parte da sempre del folklore locale. Ma con l’ascesa al potere di Hitler, la tradizione aveva assunto dimensioni ben più importanti: era diventata scaturigine del Reich, e per questo si era deciso di rendere ancora più sacro quel luogo.
Gli operai erano dunque al lavoro sugli ultimi ritocchi del nuovo parco. Uno di loro, Engel, scavando vicino a una tubatura, trovò delle strane ossa sepolte insieme a resti animali, tutti colorati di un rosso ocra. Engel chiamò allora il responsabile del museo di storia locale, il quale, iniziando a esumare i resti, segnalò quella che sembrava essere una tomba all’Istituto di Preistoria di Halle. Lo scheletro umano era stato riposto in posizione seduta, insieme a denti di animali forati, corna di capriolo, zanne di cinghiale, conchiglie, gusci di tartarughe e un’ascia. La scoperta fu valutata di notevole importanza, ma il tempo a disposizione per esaminare i reperti era così poco che non venne scattata neppure una foto: ci si limitò a uno schizzo della tomba con le posizioni principali dei resti.
Pochi giorni prima, nel giorno del compleanno del Furher, il 20 aprile, il giornale locale Dürremberg Zeitung aveva pubblicato il resoconto di una conferenza tenuta da Friederick-Karl Bicker dell’Istituto di Preistoria e intitolata “L’origine degli ariani”, nella quale l’antropologo – iscritto al partito nazista fin dal 1930 – aveva sostenuto che gli ariani non provenivano affatto dall’India o dalla Persia, come si pensava da tempo, ma dalla Germania centrale e nordoccidentale, e dalla costa baltica. Gli ariani avevano avuto “uno sviluppo completamente autoctono”, predicava Bicker, e quindi ora non restava che “recuperare le prove mancanti riguardo lo sviluppo delle culture indigene dell’era glaciale e postglaciale sul suolo della Germania centrale”. La ricerca avrebbe quindi dovuto solo confermare una teoria preformulata.
Una settimana dopo, il ritrovamento dei resti nel parco di Bad Dürremberg: quelle ossa, pensò subito Bicker, non potevano che essere di un autentico progenitore ariano. La scoperta, alquanto sospetta nella tempistica, venne inizialmente considerata una casualità, ma darà più tardi il via a un’avventura scientifica, politica e culturale non ancora conclusa, e raccontata in Il mistero della sciamana (Feltrinelli, 2024) per voce di due dei suoi protagonisti assoluti, gli archeologi tedeschi Harald Meller e Kai Michel. Ma torniamo ai nazisti, e al primo ritrovamento.
Bicker sosteneva che gli ariani non provenivano dall’India o dalla Persia, bensì dalla Germania centrale e nordoccidentale, e dalla costa baltica.
Già pochi mesi dopo il primo scavo, il fervente nazista Bicker pubblicò il suo primo rapporto: l’antropologo ebbe alcun dubbio sul fatto che si trattasse di un uomo, e non fece alcuna menzione delle ossa di bambino di pochi mesi poste in grembo a quello scheletro. Il suo interesse si concentrò piuttosto su alcuni reperti, in particolare sull’ascia, tipico strumento del Neolitico, e su un osso di gru cavo che conteneva piccole schegge di selce chiamate microliti e più antichi di datazione, poiché caratteristici del Mesolitico. L’incongruenza temporale di quell’osso di gru venne spiegata come un’eredità del passato, perché per Bicker tutto fu chiaro sin da subito: quello scheletro dissotterrato a Bad Dürremberg apparteneva al Neolitico, cioè al momento in cui i popoli antichi erano diventati agricoltori, e quindi stanziali. E appunto da quei primi insediamenti avevano avuto direttamente origine gli ariani, senza ibridazioni o deviazioni. Poco importa se nulla, a parte l’ascia, suggeriva che quel corpo fosse vissuto in una comunità di agricoltori, e che anzi tutto facesse pensare a una società di cacciatori-raccoglitori, e quindi a una sepoltura del Mesolitico. Per Bicker, scrivono Meller e Michel, “la tomba è la tanto attesa prova della continuità della cultura ariana dalla più remota età della pietra”.
In seguito, con la collaborazione di altri scienziati votati alla causa, le cui figure sono ricordate per il ruolo avuto nel dare basi pseudoscientifiche al Reich, si aggiunsero altri particolari come l’altezza dello scheletro, sovrastimata in oltre 165 centimetri, forse per non far sembrare quei gloriosi antenati troppo tracagnotti, e il colore della pelle, identificato, chissà come, inesorabilmente latteo. Gli anni successivi vennero dedicati a interpretare in modi sempre più fantasiosi l’astrusa genealogia della razza ariana discendente da quel presunto progenitore, passaggio fondamentale per sostenere l’importanza di ciò che si stava facendo per preservarla pura. Nessun accenno – forse anche fortunatamente, viste le venature esoteriche di diversi gerarchi – al possibile ruolo sacerdotale o comunque socialmente rilevante degli oggetti ritrovati e quindi della persona sepolta, di cui del resto si continuava a studiare solamente il cranio.
Il successo dell’uomo di Bad Dürremberg terminò miseramente con il regime, e i resti furono di fatto dimenticati dai responsabili del museo di Halle, passato alla Germania Est nel periodo della Guerra Fredda. L’unico approfondimento degno di nota è del 1957, quando l’antropologo Hans Grimm, rianalizzando le ossa, suggerì che si trattasse di una donna, uccisa forse in modo rituale. Nel 1972, un altro antropologo, questa volta della Germania ovest, Fritz Getschwendt, ipotizzò che potesse trattarsi di una guaritrice, visto il corredo e vista la vicinanza con le fonti termali, o comunque di una donna con una posizione sociale di spicco. Poi, nel 1978, un’inspiegabile mutilazione per quegli anni: per effettuare una datazione con il carbonio-14, furono asportati l’omero, la tibia e il femore destro, inviati a un laboratorio di Berlino Est e mai più ritrovati. Trascorsero altri quarant’anni prima che altri archeologi, antropologi ed esperti di diverse materie, riprendessero lo studio di quella tomba così particolare e, soprattutto, di ciò che essa ospitava e di ciò che poteva ancora trovarsi nel terreno circostante, così frettolosamente scavato nel 1934.
Trascorsero altri cinquant’anni prima che altri archeologi, antropologi ed esperti di diverse materie riprendessero lo studio di quella tomba così particolare.
L’occasione giunse nel 2019, quando furono decisi nuovi lavori nel parco. Finalmente si poté studiare il sito con metodi moderni, e senza dover avviare una campagna di scavi dedicata. Ciò che emerse, oltre a numerosi nuovi reperti animali, fu che quei resti erano stati sepolti in una camera di forma geometrica, esagonale, foderata di canne e dipinta di ocra. Per segnalarla, a livello del terreno giaceva una sorta di palo: forse il luogo era diventato di culto o, quantomeno, meta di pellegrinaggi attivi per molti anni dopo la morte della donna. La persona sepolta con tanta cura era quindi importante, ma perché? Qual era il suo ruolo? Per capirlo, Meller e Michel ripercorrono la storia dei ritrovamenti coevi di tutta Europa e non solo, e giungono alla conclusione che quella persona adornata con monili, al cui fianco erano stati posati gusci di tartaruga usati come recipienti (offerte?) e altri oggetti, i cui occhi erano coperti da una sorta di tendina di conchiglie, il cui petto era ornato da collane, e il cui capo era sovrastato da maestose corna di cervo, con ogni probabilità era una sciamana.
Svelato il mistero sulla “donna magica” di Bad Dürrenberg, Meller e Michel raccontano poi l’evoluzione dello sciamanesimo in Europa, allontanandosi dalle mode attuali. Molto di ciò che si è andato accumulando nel tempo riguardo alla figura dei cosiddetti sciamani è infatti quasi sempre infondato, distorto da interpretazioni colonialiste, razziste e profondamente sbagliate. Secondo le due scuole di pensiero principali, lo sciamanesimo nasce nell’estremo nord della Russia, in Siberia, dove sono state descritte le prime manifestazioni di questo tipo (nel 1672), oppure, contemporaneamente un po’ in tutto il mondo, almeno 30.000 anni fa. In ogni caso, lo sciamanesimo è figlio di un rapporto con la natura talmente diverso da quello attuale da risultare difficile anche solo da spiegare.
Gli sciamani erano infatti responsabili, insieme ad altri rappresentanti delle loro comunità, di questioni spirituali, assolvevano diverse funzioni sociali e rappresentavano una sorta di tramite tra il mondo naturale e quello degli uomini, non necessariamente con impostazioni religiose in senso stretto. “Non erano figure dominanti nella loro società e non erano al centro della vita sociale o religiosa”, scrivono Meller e Michel. “In molti luoghi, gli sciamani vivevano ai margini della vita sociale e talvolta persino esclusi dai sacrifici e dalle feste. La varietà è enorme: alcune società avevano 11 tipi di sciamani. Ma, soprattutto, non erano mai gli unici a occuparsi di questioni spirituali”. Anche solo da queste precisazioni si capisce come, fin dalle prime descrizioni di missionari ed esploratori, la cultura occidentale abbia frainteso e piegato ai propri schemi una figura presente in contesti spaziotemporali lontanissimi, e perciò non assimilabile a uno schema univoco.
Lo sciamanesimo è figlio di un rapporto con la natura talmente diverso da quello attuale da risultare difficile anche solo da spiegare.
Meller e Michel vanno poi oltre prendendo in esame le tendenze psichedeliche contemporanee, condizionate tra l’altro da alcuni lavori degli anni Cinquanta di Mircea Eliade, e incentrate su riti e figure cosiddette sciamaniche, ma che in realtà di sciamanico hanno ben poco. “Non era raro”, spiegano i due riferendosi alle mode della seconda metà del Novecento e ancora oggi vivissime, “che nel nuovo sciamanesimo siberiano venissero integrati elementi popolari in Occidente, ma mai radicati in Siberia, come la dottrina del karma, o concetti centrali dell’esoterismo occidentale come ‘aura’, ‘energia’ e ‘corpo australe’. Da allora i viaggi sciamanici si sono rivelati un’offerta turistica molto allettante. […] Oggi quegli occidentali, che sono alla ricerca di un senso della vita, si recano in pellegrinaggio per trovare aiuto o per arricchirsi spiritualmente. Ma l’antica varietà di religioni non esiste più: anzi, troppo spesso si imbattono in un neosciamanesimo globalizzato con relativo folklore locale”.
L’attribuzione del ruolo di sciamana, nel senso autentico del termine, alla donna sepolta in Sassonia, non si basa però solamente sul corredo di oggetti presenti nella tomba, ma fa leva anche su ciò che hanno rivelato la paleomedicina e la paleoantropologia. E qui il testo di Meller e Michel diventa il racconto di un’entusiasmante avventura scientifica: sottoponendo a nuove indagini i resti, gli antropologi hanno riscontrato un’anomalia anatomica che potrebbe spiegare perché proprio quella donna divenne una sciamana. Una specifica alterazione della struttura delle vertebre cervicali le provocava infatti, oltre a dolori lancinanti, sintomi quali la momentanea perdita di coscienza e il rovesciamento degli occhi, che potevano sembrare una trance. Forse, ipotizzano gli autori, questo fu all’origine di una sua emarginazione durate l’infanzia, che la costrinse a un rapporto ancora più intimo con la natura, e a una conoscenza molto approfondita di ciò che vi si poteva trovare per curare.
Ulteriori indizi vanno nella stessa direzione: la sciamana di Bad Dürremberg aveva nella parte interna degli incisivi inferiori due buchi regolari, rettangolari, talmente profondi da arrivare alla polpa dei due denti. Qualcosa di inspiegabile, non attribuibile al logoramento che si riscontra in altri resti – nel Mesolitico i denti erano usati come attrezzi, anche per togliere cortecce e pelli di animali, e si consumavano vistosamente. Non ci sono certezze, ma quei fori sembrano essere stati praticati volontariamente, per motivi oscuri, forse legati all’esigenza di dimostrare una particolare resistenza al dolore. È improbabile però che siano rimasti così, perché avrebbero provocato dolori insostenibili e infezioni mortali. Forse sono stati tamponati con sostanze quali la cera d’api o impacchi di erbe lenitive e disinfettanti, che la sciamana stessa conosceva e sapeva come somministrare. Forse grazie a questo, la donna di Bad Dürremberg raggiunse un’età di tutto rispetto, per quei tempi, e cioè circa 35 anni.
Non ci sono certezze, ma quei fori sembrano essere stati praticati volontariamente, per motivi oscuri, forse legati all’esigenza di dimostrare una particolare resistenza al dolore.
Dalle analisi genetiche poi, oltre a una datazione finalmente attendibile (la donna visse circa 9.000 anni fa, e quindi nel tardo Mesolitico, e non in quel Neolitico che avrebbe fatto così comodo ai nazisti), emersero anche due particolari cruciali: probabilmente aveva gli occhi chiari, ma è impossibile dirlo con certezza, e quasi sicuramente aveva la pelle olivastra (un incarnato di cui Bicker e gli altri sostenitori dell’origine germanica della razza ariana non sarebbero stati affatto contenti). Il volto della donna, con e senza gli addobbi sciamanici, ricostruito in maniera sorprendente dall’artista Karol Schauer, è riportato nel libro ed ora visibile nel nuovo allestimento del museo dedicato alla sciamana di Bad Dürremberg. Infine, il neonato tenuto in grembo nella tomba era un maschio, non era suo figlio e sembra essere morto più o meno nello stesso momento: forse per questo è stato sepolto con lei.
Tutte queste nuove informazioni sono state ottenute con le tecniche di sequenziamento genico più avanzato, che stanno letteralmente riscrivendo la storia dell’archeologia, spesso sgombrando il campo da sovrastrutture culturali errate, e da interpretazioni distorte. L’interesse dell’analisi di Meller e Michel risiede anche nel racconto del progresso delle tecniche adoperate dagli scienziati, capaci di smascherare le forzature pseudoscientifiche introdotte a fini politici, e comunque di rimodellare continuamente quanto si dava per acquisito. E, tra le credenze scardinate, ce n’è una che è forse la più rilevante di tutte: il ruolo della donna nelle società di cacciatori e raccoglitori.
Come spiegano Meller e Michel, non essendoci la necessità di coltivare o di lavorare i raccolti, probabilmente in molte di quelle comunità i maschi non erano affatto dominanti. È assai più probabile che i ruoli fossero paritari e che anzi le femmine, per via della capacità di dare la vita, avessero uno status speciale. Anche per questo era demandata a loro la comunicazione con quel mondo della natura che sembrava animato costantemente, ma anche difficile da decifrare. Inoltre, molte di quelle società nomadi non conoscevano, se non marginalmente, il possesso perché, semplicemente, non ce n’era bisogno e anzi non era neppure conveniente alla sopravvivenza del gruppo, che si spostava di continuo.
Poi, con l’agricoltura, tutto è cambiato, e continua a cambiare, all’insegna del possesso, della diseguaglianza fondata su beni materiali e della distanza tra consimili, pur nella globalizzazione. E la causa del disagio contemporaneo, secondo Meller e Michel, sarebbe da ricercare nella perdita di connessione con la natura e con gli altri esseri umani. “Si può dire che la sciamana abbia una lezione da insegnarci?”, si domandano i due in conclusione del libro. “Noi crediamo di sì. Se gli spiriti ‘buoni’ ci hanno abbandonato e ci ritroviamo oggi in un deficit sociale, la sola via di uscita perseguibile e adatta ai nostri tempi è quella di investire in relazioni stabili con persone reali, in relazioni basate sul principio di reciprocità. […] Questo, almeno, la nostra antica anima animistica lo capisce subito”.