N el novembre del 1944 il fisiologo americano Ancel Keys, noto per aver inventato la celebre “razione K” in dotazione all’esercito statunitense durante la Seconda guerra mondiale, diede avvio al Minnesota Starvation Experiment. Si trattava di un importante e controverso studio con l’obiettivo di simulare le condizioni di fame che milioni di persone stavano affrontando in Europa a causa della guerra, per esplorare gli effetti della denutrizione sul corpo e sulla mente umana. Trentasei giovani uomini si offrirono volontari per sottoporsi a sei mesi di dieta fortemente ipocalorica – circa 1800 chilocalorie giornaliere – a cui avrebbe fatto seguito un periodo di riabilitazione. Nel corso dell’esperimento, i volontari persero peso e forza, ma svilupparono anche gravi conseguenze psicologiche, come depressione e ossessione per il cibo. Ancora diverse furono le conseguenze durante il successivo periodo di riabilitazione, poiché i volontari, nonostante avessero ricevuto istruzioni su alcune corrette abitudini da mantenere e procedure da seguire, decisero deliberatamente di mangiare di tutto, andando incontro a problemi di sovrappeso e obesità, oltre al fatto che non ricordavano nemmeno più quale fosse il loro regime dietetico prima della riabilitazione.
L’esperimento scatenò un’accesa polemica in ambito nutrizionale con strascichi che arrivano sino ai giorni nostri: a rispolverare lo studio di Keys sono stati di recente Alberto Grandi, docente di Storia del cibo all’Università di Parma e Daniele Soffiati, coautore assieme a Grandi del podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata e del saggio La cucina italiana non esiste, oltre a Vito Teti antropologo e autore di Dieta mediterranea. Realtà, mito, invenzione. Il motivo è che il Minnesota Starvation Experiment si inserisce perfettamente nell’operazione di decostruzione della cucina italiana promossa da Grandi, Soffiati e Teti, ed è paradigmatico per comprendere al meglio il comportamento degli italiani nei confronti del cibo durante il boom economico, periodo in cui per la prima volta nel nostro Paese si iniziò a respirare un’aria di benessere collettivo. Ma è necessario fare un salto indietro per contestualizzare.
Nel 1861, l’anno dell’unità nazionale, l’aspettativa di vita degli italiani era di poco superiore ai trent’anni, per via di scarsa igiene e denutrizione. Alla fine dell’Ottocento l’Italia era all’ultimo posto tra i Paesi europei per consumo di carne, che era sì presente nelle tavole dei ceti più abbienti insieme a uova, latticini, sale e zucchero, ma totalmente assente in quelle delle classi inferiori. Il Paese era soggiogato dai morsi della fame, arretrato, ampiamente analfabeta, ancorato a produzioni agricole non più al passo coi tempi. Questa situazione drammatica ebbe come conseguenza un’emigrazione di massa che Grandi e Soffiati quantificano tra i quindici e i venti milioni di italiani dal 1870 al 1914. Destinazione preferita: Stati Uniti.
Fu proprio lì, dall’altra parte del mondo, che iniziò a concretizzarsi il “sogno italiano”, una realtà fatta di occasioni da sfruttare e di senso di sazietà. L’America accolse i poveri contadini italiani, abituati a un regime alimentare vegetariano obbligato, e mise a disposizione le proprie peculiarità: migliori condizioni economiche e accessibilità a prodotti che in Italia erano destinati solo agli strati più agiati della popolazione. Ecco che dunque, per fare un esempio, la polenta, elemento di sussistenza di tante zone del Nord Italia (e causa di pellagra) divenne solamente un ricordo e fu sostituita da alimenti fino ad allora solamente desiderati come carne, uova, formaggi, caffè e liquori. Oltre a questo, nelle Little Italy statunitensi iniziò a crearsi quel traffico culturale tra immigrati di varie parti d’Italia che permise lo scambio delle (limitate) conoscenze in ambito culinario. Queste trasformazioni a livello di abitudini alimentari, secondo Grandi e Soffiati, costituiscono le basi per comprendere le evoluzioni del periodo del boom economico.
Fu negli Stati Uniti che iniziò a concretizzarsi il “sogno italiano”, una realtà fatta di occasioni da sfruttare e di senso di sazietà.
Alla fine degli anni Cinquanta, infatti, parte degli emigrati rientrò in Italia col proprio bagaglio esperienziale, nuovi costumi, un’accresciuta disponibilità economica e nuovi ingredienti in valigia. Il Paese che trovarono al loro ritorno aveva nel frattempo intrapreso una rapida modernizzazione tecnologica, appropriandosi di alcune fondamentali innovazioni: i progressi nel settore della produzione industriale, in accoppiata con l’ingresso nella vita quotidiana del frigorifero per una fetta sempre maggiore di famiglie, cambiarono per sempre il modo di vivere, produrre e consumare il cibo. Le nuove possibilità portate dal benessere collettivo spinsero tante persone fuori da condizioni di fame e povertà estrema, trasformando radicalmente le abitudini alimentari. È stato in questo contesto di rapida modernizzazione che l’Italia non solo ha riscoperto, ma spesso anche inventato, molte delle “tradizioni” gastronomiche che, al giorno d’oggi, siamo soliti spacciare per secolari. Oltre alla pizza napoletana e alla carbonara – abbondantemente decostruite da Grandi e Soffiati – un posto di rilievo tra le tradizioni inventate è sicuramente ricoperto non da un singolo piatto, ma da un concetto: quello della dieta mediterranea.
Ed è proprio negli anni Cinquanta che rientra in scena anche Ancel Keys. Come scrive Teti, dal 1952 il fisiologo americano “mise in relazione i consumi alimentari – in particolare l’eccesso di grassi animali – e fattori di rischio di aterosclerosi in Paesi ormai industrializzati. Keys sosteneva che il ‘tradizionale’ modello alimentare svolgesse una funzione preventiva per le malattie cardiovascolari”. Da questa intuizione di carattere salutistico, Keys avviò uno studio pilota a Nicotera, in Calabria, e successivamente si trasferì a Pioppi per stabilire nel Cilento il suo gruppo di studi. Dopo anni di indagini, teorizzò – e nel 1975 pubblicò e monetizzò – il suo fortunato How to Eat Well and Stay Well: The Mediterranean Way, testo che promuoveva un regime alimentare basato su cereali, verdure, olio d’oliva, frutta e pesce, esaltando la semplicità e la salubrità di questi alimenti.
Gli studi sul legame tra dieta italiana e salute riscossero da subito grande successo, e sono valsi a Keys la medaglia al merito alla salute pubblica dello Stato italiano. Ciononostante, Teti decostruisce molte delle basi su cui si reggono le riflessioni del biologo americano: “il problema è che una dieta ricca di cereali, legumi, frutta e verdura, pesce fresco e pasta, con pochi prodotti di origine animale come formaggi e uova, ma povera di grassi saturi, con olio di oliva come principale condimento, non era per nulla tradizionale ed era lontanissima dai consumi e dalle disponibilità alimentari delle persone che vivevano nel Mezzogiorno d’Italia e in altre zone mediterranee”. La versione idealizzata della dieta mediterranea, sostiene Teti, è una costruzione post-bellica che riflette “uno sguardo mediterraneista del mondo anglosassone” – in condizioni socioeconomiche ben diverse dell’Italia dell’epoca – e che si distacca dalla dura realtà storica vissuta dalle popolazioni più povere. Nel Sud Italia, infatti, vigeva ancora una dieta della povertà, monotona e dominata dalla penuria di risorse, i cui principali componenti erano pane di cereali poco nobili, legumi e verdure selvatiche. Fatto curioso è che anche il gruppo di ricerca di Keys, nelle sue annotazioni durante il periodo trascorso a Nicotera, rilevò questi elementi di povertà alimentare: tra le note etnografiche raccolte all’epoca spiccavano un “Stasira non pensu ca mangiamu”, “Avimu fami”, e altre testimonianze di sottonutrizione forzata.
Sarà solamente dagli anni Sessanta che si concretizzerà un vero e proprio “miglioramento” delle condizioni alimentari del Mezzogiorno d’Italia, periodo in cui però si verificò anche un progressivo allontanamento dai dettami della (idealizzata) dieta mediterranea nei confronti di cibi industrializzati e di facile accesso. “Il pasto del ricco e quello del povero divennero molto più simili di quanto non fossero mai stati”, scrivono Grandi e Soffiati. “Gli studiosi”, osserva invece Teti, “hanno sottolineato i risvolti positivi (dietetici, psicologici, sociali e culturali) di tali trasformazioni. La statura media dei meridionali ha raggiunto gli standard americani, grazie anche a un migliore regime alimentare, coagente in maniera efficace con importanti mutamenti igienico-sanitari. […] L’uscita da condizioni di sofferenza e di fame ha comportato anche alcuni risvolti negativi e preoccupanti”. Con l’aumento delle calorie ingerite e la diminuzione dell’attività fisica, obesità e malattie a essa collegabili hanno creato i presupposti per un ribaltamento della situazione in pochi anni: da dieta della povertà a una malnutrizione per eccesso.
La versione idealizzata della dieta mediterranea, sostiene Teti, è una costruzione post-bellica che riflette uno sguardo mediterraneista del mondo anglosassone.
I primi anni Sessanta, insomma, coi loro cambiamenti di abitudini avrebbero segnato l’inizio dell’ossessione degli italiani per il cibo, una narrazione che nel corso dei decenni si è evoluta su fondamenta poco stabili che hanno messo in luce una nostra caratteristica: le capacità di fare marketing e creare storytelling efficaci. “La cucina italiana”, scrivono Grandi e Soffiati, “come tutte le cucine del mondo, è frutto di incroci e contaminazioni. L’identità a tavola cambia di continuo, contestualmente ai cambiamenti sociali, economici e culturali”. Pensare e raccontare la dieta mediterranea come se fosse una base comune immutabile a tutta la nostra cucina è sbagliato oltre che ingiusto. “La dieta mediterranea”, conferma Teti, “diventa l’immagine di un’unità (fittizia) dei popoli mediterranei che la praticano. In realtà il concetto di dieta mediterranea non è ‘inclusivo’, non lo è mai stato, né a partire dalla sua creazione […] né in seguito alla sua costruzione come patrimonio”.
E in un altro passaggio prosegue:
soltanto l’espressione ‘culture alimentari’ del Mediterraneo, viste nella loro storicità, continuità e rotture, può fare cogliere le peculiarità di un mangiare mediterraneo che racconta di salute e di benessere mentale, di fame e di abbondanza, di erbivori e carnivori, di feste rituali alimentari, di far da mangiare e dare da mangiare, di società e convivialità, di sacralità del cibo e della sua faticosa ricerca, di mangiare assieme e mangiare da soli, di frugalità e sobrietà per necessità e di digiuno per scelta salutare o religiosa, del folclore alimentare e dei suoni legati al cibo, dei cibi giocattoli e dei cibi simboli erotici.
L’unità fittizia di cui parla Teti altro non è che un elemento della dieta mediterranea intesa come tradizione inventata. Lo storico Eric J. Hobsbawn, nel suo celebre L’invenzione della tradizione (1983), scrive che “l’invenzione di una tradizione è essenzialmente un processo di ritualizzazione e formalizzazione caratterizzato dal riferimento al passato”. Per Teti, però, il problema della dieta mediterranea non sta tanto nell’essere un’invenzione, quanto che sia “un’invenzione vaga, mobile, che abbraccia aspettative e memorie a volte contraddittorie, che torna a un passato mitico e che diventa discorso ideologico chiuso e autoreferenziale”.
Secondo Hobsbawn le tradizioni inventate sono particolarmente comuni nei periodi di rapidi cambiamenti sociali, politici o tecnologici, quando cioè si avverte una maggiore necessità di creare un senso di stabilità e continuità. È qui che entrano in campo la comunicazione lo storytelling, con le loro logiche di interessi economici da salvaguardare e da contrassegnare col segno più. Il processo di modernizzazione cominciato negli anni Cinquanta e Sessanta ha contribuito a riscrivere gran parte della storia gastronomica italiana, dando vita a miti che, come quello della dieta mediterranea, rappresentano più un ideale costruito che una realtà storica. E a prescindere dalla valutazione che si conferisce all’invenzione – innegabile l’importanza del concetto di dieta mediterranea come slancio per un modo di mangiare più sano ed equilibrato –, comprendere come queste “tradizioni” siano state reinterpretate e adattate in un contesto di crescente benessere ci offre una prospettiva più chiara sul nostro presente alimentare, in cui l’esasperata ricerca del concetto di autenticità è spesso più sfumato di quanto sembri. In questo processo, la figura del grande cuoco si è spesso intrecciata con quella del grande comunicatore: se, da un lato, chef e gastronomi hanno innovato e perfezionato le ricette, dall’altro, abili operatori di marketing hanno saputo trasformare questi piatti in simboli di un’Italia antica, autentica e nostalgica che però spesso, in realtà, non ha più di settanta anni di storia.
Questa miopia culturale ci porta a vedere la cucina italiana come un monolite immutabile a cui non sappiamo rinunciare. Ma la domanda è: perché sentiamo la necessità di questa fissità? Perché non siamo disposti a mettere in discussione le nostre convinzioni per comprendere appieno le dinamiche che hanno portato alla nascita della cucina italiana così come la conosciamo oggi? La ricerca spasmodica di un’identità si è impossessata delle radici e della storia e, di conseguenza, si è trasformata in un eterno presente senza passato e senza futuro. Questo immobilismo però rischia di paralizzarci di fronte a una società che inevitabilmente è destinata – e lo è sempre stata – a cambiare. Schierarsi apertamente contro certe novità – si veda la questione sulla carne coltivata – per partito preso, rischia di essere controproducente. Grandi e Soffiati lo spiegano non solo nel loro testo, ma in ogni singola uscita pubblica: trincerarsi dietro queste presunte tradizioni e al “si è sempre fatto così” non ci porterà da nessuna parte. E non sarà di certo vendendo una caciotta di Pienza in più che l’Italia manterrà il suo posto alla tavola dei grandi Paesi.