S wiss army man è uno dei film più grotteschi degli ultimi anni: si svolge quasi tutto nella mente di un giovane uomo interpretato da Paul Dano, naufrago disperato, bloccato su un’isola deserta in pieno delirio onirico. Dano è devastato dalla solitudine, medita il suicidio, si aggrappa a visioni folli che si inseguono nella sua testa, fa amicizia con un cadavere (Daniel Radcliffe) che il mare gli consegna tra le onde. Nelle rare ore di sollievo e redenzione, Dano si ricorda della ragazza che ama e si convince di essere vicino alla salvezza. In quei momenti nella sua testa parte una canzone: la colonna sonora di Jurassic Park. “Ta da da da da, Ta da da da da”, inizia a cantare. “Se non conosci Jurassic Park, non conosci un cazzo”.
È una scelta azzeccata, perché per molti coetanei di Paul Dano, e forse per chiunque abbia visto Jurassic Park al cinema da bambino o da ragazzo, quelle note di John Williams hanno un valore affettivo forte: sono un cantico nostalgico, un inno alla propria infanzia. Jurassic Park uscì negli Stati Uniti il 9 giugno 1993 e fu subito un grande successo di pubblico. Finì per fare la storia del cinema e della cultura di massa e diventò negli anni uno di quei film capaci di crescere un proprio culto fatto di citazioni a memoria, parodie, imitazioni, sequel meno fortunati e teorie interpretative scritte dai fan.
Il film di Spielberg è insomma una delle narrazioni più note di sempre, un fenomeno pop, pietra miliare per generazioni di nerd. Eppure ciò che lo rende davvero unico come caso di studio è il suo intimo rapporto con la paleontologia, una relazione fatta di reciproche influenze e ispirazioni.
Arte e scienza
Con il tempo abbiamo fatto il callo alla pubblicazione di libri come La fisica di Star Trek, I Simpson e la filosofia, L’economia spiegata con le canzoni dei Beatles. Analizzare la scienza che c’è dentro Jurassic Park, però, è qualcosa di più del solito gioco di divulgazione.
Prima di andare avanti, una breve sinossi del film per chi è riuscito nell’impresa di non vederne neanche una scena in questi 25 anni: un imprenditore ricco, bonario e apparentemente un po’ ingenuo, costruisce un grande parco di divertimenti su un’isola a largo della Costa Rica. Con l’aiuto di un team di scienziati all’avanguardia, lo popola di dinosauri estinti clonati e riportati in vita grazie ai “miracoli della genetica”, seguendo tracce di DNA fossile conservate in alcune ambre. Prima dell’inaugurazione, l’imprenditore invita un gruppo di paleontologi a visitare il parco per raccogliere le loro impressioni: gli animali sono come se li immaginavano? E secondo loro è lecito giocare a fare Dio, o qualcuno potrebbe finire per mettergli il muso? Mentre il gruppo si divide su queste e altre domande esistenziali gli animali sfuggono al controllo, si ribellano, scappano dalle gabbie, distruggono tutto.
Jurassic Park ha tratto la propria linfa vitale dalle ricerche paleontologiche dei decenni precedenti alla sua uscita, ha preso libera ispirazione da quegli studi, plasmandoli e riadattandoli, e, grazie alla forza delle proprie immagini, è riuscito a imporre un canone iconografico che ha colonizzato non solo l’immaginario collettivo ma anche, per almeno due decenni, la stessa paleontologia.
Come scrisse Stephen Jay Gould poco dopo l’uscita del film, la nostra comprensione di com’era la vita sulla Terra in epoche remote è più una conseguenza dell’arte che della scienza: “L’iconografia si avvicina a noi come un ladro nella notte – potente e straordinariamente efficace, ma spesso così silenziosa che non la notiamo”. Lo ha spiegato bene qualche anno fa il paleontologo Andrea Cau sul suo blog: “La realtà è che Jurassic Park non è solo un film, è una piattaforma divulgativa di una concezione paleontologica dei dinosauri che ha raggiunto dimensione mondiale e che, volenti o nolenti, giusta o sbagliata che sia, ha influito significativamente sull’immaginario paleontologico degli ultimi 15 anni. Quasi ogni rappresentazione paleoartistica successiva a Jurassic Park è stata influenzata dal film”.
Jack Horner, paleontologo e consulente
Nel romanzo, il personaggio del paleontologo Alan Grant, cappello da cowboy a falda larga e battuta sempre pronta, è una caricatura di Indiana Jones miscelata con i tratti di alcuni famosi scienziati statunitensi all’epoca in attività: Robert Bakker e John Horner – detto Jack – su tutti. “Una mia amica paleontologa mi chiamò per dirmi che ero uno dei protagonisti di un libro di narrativa sui dinosauri”, racconta oggi Horner al Tascabile. “Le dissi che speravo che il mio personaggio non finisse mangiato da un dinosauro, soprattutto non da un T. rex”.
Di lì a poco Horner divenne consulente del film. “Fu Steven a chiamarmi, nel 1991, per chiedermi se potevo essere interessato a diventare consulente scientifico della versione cinematografica del libro. Steven voleva che i dinosauri fossero quanto più accurati possibile, e io volevo la stessa cosa: ricostruirli nel rispetto delle conoscenze scientifiche dell’epoca”.
Il successo del film non fu una sorpresa: il destino di Jurassic Park era chiaro sin dall’inizio. Era stato affidato a Spielberg – regista che all’epoca non aveva ancora sbagliato un colpo – ed era tratto da un libro di grande successo firmato da un’altra gallina dalle uova d’oro come Micheal Crichton. In più, Jurassic Park arrivava al culmine di un crescente interesse del pubblico nei confronti degli animali preistorici. Come ha raccontato Massimo Sandal in un articolo pubblicato sul Tascabile, la paleontologia, a inizio anni Novanta, aveva appena finito di attraversare una serie di nuove scoperte, rivoluzioni e rinascite, e stava mettendo in quei mesi finalmente in bella vista i suoi abiti nuovi.
Era cambiato prima di tutto il modo in cui raccontavamo i dinosauri: non erano più dei goffi lucertoloni ottenebrati, lenti stupidi Godzilla, scherzi dell’evoluzione sepolti dal passato violento del pianeta. Erano animali intelligenti e complessi. Mostre, musei, inserti dei giornali e libri di divulgazione nutrivano le curiosità del pubblico. La copertina di National Geographic del gennaio ’93 venne dedicata ai “nuovi” dinosauri, stesso argomento e illustrazione simile anche per la copertina di Time di marzo. A giugno, con un tempismo che fece storcere il naso a molti, Nature pubblicò un articolo scientifico sulle possibilità di sequenziamento del DNA da fossili di 120/135 milioni di anni fa: proprio il tipo di ricerca di laboratorio che dà il via alla sciarada di disavventure della trama del film.
Ha fatto anche cose buone
Jurassic Park scatenò definitivamente nella cultura popolare una mania per i dinosauri che era ormai in fermento da anni.
Per la prima volta, nel 1993, al cinema, vennero mostrati a milioni di persone dinosauri più o meno scientificamente credibili. Più o meno. “Steven si accorse subito che ci sarebbero stati degli ostacoli alla fedele ricostruzione dei dinosauri, dovuti alle tecnologie di computer grafica disponibili all’epoca per disegnarli”, spiega Horner, che in altre interviste è stato meno diplomatico: in questa, per esempio, racconta la sua consulenza come un tira e molla dove Spielberg spingeva per avere delle creature mostruose e il paleontologo cercava il rispetto e l’aderenza scientifica tentando di cedere meno terreno possibile di fronte ai desideri del regista (“Ma ha vinto lui tutte le battaglie”).
Almeno un paio di inesattezze sono dovute poi allo stesso Horner, che approfittò dell’occasione per fantasticare un po’ sul possibile aspetto di alcune creature, come nel caso del piccolo dinosauro che nel film ha un collare di pelle retrattile per spaventare i nemici e sputa veleno sulle prede. “È un dinosauro [in realtà molto più grande, con una lunghezza complessiva di 7 metri] chiamato Dilophosaurus, di cui sappiamo davvero poco. Ci sono solo un paio di scheletri disponibili e sono conservati in pessime condizioni, e questo ci ha fornito la possibilità di romanzarlo un po’”.
Le nuove ricerche di quegli anni portarono a considerare gli uccelli moderni come l’unico sottogruppo non estinto del gruppo più ampio dei dinosauri (non a caso il film si chiude con un’inquadratura dall’alto di uno stormo di pellicani), e spinsero anche a nuove ipotesi su comportamento collettivo e relazioni familiari delle specie preistoriche, aspetti che riuscirono a trovare spazio nel film e che avevano costituito l’oggetto di alcuni studi condotti proprio da Horner. “Il personaggio di Alan Grant dice nel film Guarda si muovono in branco, si muovono in branco [guardando per la prima volta un gruppo di Parasaurolophus clonati] perché è esattamente qualcosa che avrei potuto dire io”. Allo stesso modo, suonano come citazioni i riferimenti alle cure parentali dei dinosauri, altra novità emersa dalle ricerche di Horner, “una caratteristica che prima pensavamo fosse evoluta molto più tardi, direttamente negli uccelli”.
L’annoso problema delle piume
Nonostante tutte le innovazioni introdotte, l’aspetto esteriore dei dinosauri di Jurassic Park rimase piuttosto primordiale. Sono per lo più colorati di sfumature verdi o marroni, con squame e tubercoli su tutto il corpo. Oggi sappiamo che molti dinosauri (e gran parte dei teropodi) era probabilmente ricoperto da qualche forma di piumaggio. Ne avevamo già qualche sospetto a inizio anni Novanta, ma ormai non sembrano esserci più grossi dubbi: i “raptor” erano più simili a dei grossi tacchini che alle enormi lucertole assassine del film e anche Tyrannosaurus doveva avere un aspetto tutto sommato meno tetro, coperto da un leggero piumino colorato.
Perché non ci sono dinosauri con le piume in Jurassic Park? La loro assenza – nel primo film e nei sequel – è diventata un’ossessione tra i fan, tormentone a cui lo stesso Horner si trova costretto a rispondere a ogni intervista. “Me lo chiedono spesso. È stato più che altro a causa delle capacità di computer grafica dell’epoca se le piume non sono state inserite nel primo film: era troppo difficile costruirle in maniera accurata. Sarebbe stato molto complicato ed estremamente costoso anche costruire i pupazzi robotici con le piume. Io avrei voluto i velociraptor non solo con le piume ma anche colorati. Steven si oppose”, confessa alla fine. “Ma non ho rimorsi, sarebbe stato peggio inserire a forza le piume e costruire dinosauri più brutti, con una grafica più dozzinale”.
Il primo film ha avuto finora quattro sequel: Il mondo perduto (1997), Jurassic Park III (2001), Jurassic World (2015) e Jurassic World – Il regno distrutto (2018), con accoglienze più tiepide da parte della critica, incassi meno generosi e qualche polemica da parte degli appassionati di paleontologia.
Con il passare del tempo, con l’affinarsi delle ricerche e grazie a nuovi ritrovamenti, gli errori di ricostruzione presenti nel primo film sono diventati sempre più marchiani e le rappresentazioni dei dinosauri si sono fatte sempre più obsolete. Oggi il dinosauro alla Jurassic Park è sempre meno simile alle ipotesi di dinosauro che i paleontologi e i paleoartisti costruiscono a partire dai fossili. I nuovi capitoli non hanno portato nessun aggiornamento dal punto di vista iconografico, non sono apparse le piume e, anzi, alcuni dei dinosauri si stanno trasformando sempre più in generici bestioni giganti.
“I dinosauri non potevano cambiare molto nel corso degli anni, per questione di coerenza narrativa interna alla saga”, secondo Horner. “Sono sempre gli stessi: il T. rex di Jurassic World è lo stesso del film originale, quindi non si poteva intervenire sul suo aspetto esteriore”.
Horner, che continua ad apparire come consulente scientifico anche nei sequel, non esclude che ci possa essere un futuro cambio di rotta: “Penso che piume e colori appariranno in qualche prossimo capitolo”, mi dice, anche se non sembra poi così turbato dalla piega che hanno preso gli ultimi film, e mi parla con entusiasmo di Il regno distrutto, appena uscito anche in Italia: “an exciting, dark movie!”.
Arriva il pollosauro?
Gli intrecci tra scienza e finzione non finisco con i titoli di coda del primo Jurassic Park. A partire dalla prima metà degli anni Novanta una serie di studi di genetica sul DNA fossile si immise nella scia della nuova dinomania e trovò ampio spazio su riviste specializzate e quotidiani. Un’euforia che si spense dopo qualche anno senza aver registrato grossi successi: “In particolare, era ed è incerto quanto a lungo il DNA persista dopo la morte della cellula, e ben pochi sono disposti a scommettere che persista per dozzine di milioni di anni”, scrive Cau. Oggi l’ipotesi di trovare il DNA di un dinosauro estinto intrappolato in qualche ambra è completamente tramontata.
Lo stesso Jack Horner, però, trasse ispirazione dai film per lanciarsi a sua volta in ricerche di genetica. “Nel 2002 avevamo appena finito Jurassic Park III e iniziato a lavorare sul quarto capitolo, e ho iniziato a pensare a dinosauri ibridi e a come potessimo riuscire a crearne uno sul serio”.
Nacque così l’idea del pollosauro. L’intuizione di Horner è quella di prendere un dinosauro vivente, ovvero un pollo, e trasformarlo in qualcosa che assomigli il più possibile a un dinosauro-dinosauro (un dinosauro teropode non-aviario).
“Adesso siamo molto più vicini alla capacità di creare un dinosauro senza bisogno di recuperare dell’antico DNA”, scriveva Horner quasi dieci anni fa nel suo libro Come costruire un dinosauro. “Possiamo farlo grazie alla natura dell’evoluzione, al modo in cui si costruisce su sé stessa, adattando vecchie strutture a nuove circostanze, non inventando nuove forme di vita dal nulla. (…) Non dobbiamo partire da zero per ottenere un dinosauro, non dobbiamo recuperare antico DNA per la clonazione. Gli uccelli sono discendenti dei dinosauri. In effetti, essi sono dinosauri e la maggior parte del programma genetico delle caratteristiche dei dinosauri che vogliamo riportare indietro dovrebbe essere disponibile negli uccelli – per esempio, nel pollo”.
Non è un’operazione di fantascienza, simili ipotesi di ingegneria inversa potrebbero portare in vita alcuni animali estinti, e alcuni di questi progetti sono già effettivamente vicini al traguardo. Se vedremo davvero prima o poi il pollo-sauro o se si rivelerà solo un’operazione di marketing lo scopriremo presto. “In un paio di anni vedremo i primi esemplari”, secondo la scommessa di Horner.
“Dio crea i dinosauri, Dio distrugge i dinosauri, Dio crea l’uomo, l’uomo distrugge Dio, l’uomo crea i dinosauri, i dinosauri mangiano l’uomo” è un’altra delle famose citazioni del primo film. Ma quando chiedo a Horner se ha mai avuto dubbi di sorta, etici o di convenienza, nel dare il via a questo tipo di ricerche di laboratorio, mi risponde con grande spensieratezza: “Per come la vedo io, se le persone non hanno problemi etici con strani incroci canini, non dovrebbero averne neanche con il pollosauro, sarà semplicemente uno strano incrocio di gallina [ride]. L’uso che se ne può fare è lo stesso di qualsiasi animale domestico, e se vi dovesse stufare potete sempre mangiarlo. Saprà di pollo. [ride di nuovo]”.
Grazie ad Anna Giamborino e all’Associazione Paleontologica Paleoartistica Italiana – A.P.P.I.