O gni camera d’isolamento ha due porte di metallo verniciate di bianco, arrugginite nei punti dove la vernice si è staccata; le separa una stretta anticamera da cui si accede al bagno. Sulla seconda porta c’è un rettangolo di plastica trasparente, tagliato al livello degli occhi per controllare la posizione e le attività dell’occupante. L’odore è un misto di urina, pelle sudata e sporcizia umida. I muri piastrellati in ceramica bianca traspirano una patina untuosa, che si raccoglie nei punti meno esposti. La luce entra da una finestra stretta e orizzontale quasi al livello del soffitto, dotata di una tapparella elettrica che gli infermieri abbassano la sera e rialzano al mattino con un interruttore. Al centro c’è un’esile brandina, su cui è posato un materasso in plastica grigia. Nella stanza non si possono portare effetti personali; gli unici oggetti ammessi sono un pigiama di carta, delle lenzuola di carta e una coperta di carta e gommapiuma.
Le camere d’isolamento sono luoghi compiuti e rendono qualsiasi presenza umana al loro interno ridicola, irrilevante. Sono luoghi apparentemente inerti ma non privi di una loro attività organica, che produce scorie e necessita di cure quotidiane, di una pulizia sommaria, della puntuale chiusura e apertura delle fonti di luce.
In quattro mesi ho visto circa trenta persone avvicendarsi in tre camere d’isolamento. Una compagine variegata, composta da individui diversi per carattere, abitudini di vita, provenienza culturale.
Lavoro come specializzanda in un reparto psichiatrico a porte chiuse a Saint Denis, una cittadina nella periferia nord di Parigi. In quattro mesi ho visto circa trenta persone avvicendarsi nelle sue tre camere d’isolamento. Una compagine variegata, composta da individui diversi per carattere, abitudini di vita, provenienza culturale. Ci sono passati, tra gli altri, un immigrato maliano senza permesso di soggiorno arrivato in Francia da qualche mese, un cinquantenne di origini tunisine cacciato di casa dalla moglie, una donna congolese di mezza età che ogni martedì e venerdì predica il Vangelo al mercato centrale di Saint Denis, un diciottenne di origini curde che ha abbandonato la scuola per lavorare nel ristorante di suo zio, infine un venditore ambulante di frutta arrivato dall’India vent’anni fa, che durante i suoi rientri annuali nel villaggio d’origine ha messo su famiglia con una sua cugina. Ciò che li accomuna è il fatto di vivere, da poveri o semi-poveri, nel dipartimento metropolitano più povero dell’Ile de France, la Seine-Saint-Denis, con un tasso di disoccupazione che si aggira attorno 40% nei comuni di Stein e La Courneuve, il bacino demografico del reparto che ha ispirato le riflessioni che seguono.
Nel suo saggio Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, il sociologo canadese Erving Goffman dedica un capitolo alla carriera morale del malato mentale, intendendo con ciò sia il destino sociale di una persona che “viene immessa nel processo di ospedalizzazione” (quindi la sua posizione sociale e giuridica all’interno dell’istituzione psichiatrica), sia i mutamenti nell’immagine del sé e del senso di identità che questo destino comporta. Goffman suddivide temporalmente questa carriera morale in “fase del predegente” e “fase del degente”, descrivendo la catena di eventi, di carattere sociale e psicologico, che caratterizzano ciascuna fase. Lo stesso metodo può essere applicato a quella sottocategoria di pazienti psichiatrici che trascorrono un periodo del loro ricovero in una stanza di isolamento.
La fase pre-isolamento: il vortice degli inganni
La carriera morale dei pazienti che finiscono in isolamento inizia, come per molti dei pazienti che non finiscono in isolamento, con un momento di rottura: l’evento zero che dà avvio alla loro carriera morale di malati mentali e che Goffman identifica con un caso di “trasgressione alle norme del vivere sociale”. Qualcuno – un membro della famiglia, un vicino di casa, un passante – chiama la polizia o un’ambulanza; il futuro paziente viene portato di forza in Pronto Soccorso, dove lo psichiatra di guardia decide per lui un TSO in regime di ricovero. È quello che Goffman definisce “vortice degli inganni”, cioè quel processo che sancisce il “passaggio dal ruolo di persona a quello di degente” e avviene “attraverso una serie di fasi collegate, ciascuna controllata da un agente diverso” e dove “ogni fase tende a portare una netta diminuzione nello status di persona libera del pre-degente”. L’aspetto più interessante di questa espressione sta proprio nel suo evocare l’accelerazione vorticosa che porta una persona “con almeno una parte di diritti, libertà, soddisfazioni propri di un civile” a ritrovarsi, nel giro di qualche ora, rinchiusa in pochi metri quadri, “spogliato quasi completamente di tutto”.
Non è molto diverso da ciò che accade a un carcerato, con la sola e importante differenza che la maggior parte delle persone sottoposte a TSO non hanno idea del motivo per cui sono stati messi in isolamento.
Non è molto diverso da ciò che accade a un carcerato, con la sola e importante differenza che la maggior parte delle persone sottoposte a TSO non hanno idea del motivo per cui sono stati messi in isolamento, né in generale del motivo del loro ricovero. Hanno, questo sì, una vaga idea dell’evento da cui sono scaturiti tutti i problemi: una lite con un vicino o un membro della famiglia, un gesto pubblico che ha generato l’indignazione dei passanti. Nel loro diario clinico verrà apposta l’annotazione anosognosia totale, per indicare il fatto che il paziente non si considera malato e, come logica conseguenza, non ritiene di avere bisogno di cure.
Nell’articolo 84 della legge del 14 dicembre 2020 sul finanziamento della sicurezza sociale si legge:
L’isolamento e la contenzione […] possono essere praticati solo per prevenire un danno immediato o imminente per il paziente o per altri, su decisione motivata di uno psichiatra e secondo modalità adeguate, necessarie e proporzionate al rischio, dopo la valutazione del paziente.
Gli atti di aggressività sono rari. In quattro mesi, gli unici gesti violenti a cui ho assistito sono stati quelli di un paziente con un grave disturbo dello sviluppo cognitivo e motorio. Al contrario, la prevenzione della violenza è estremamente frequente. Nella pratica, la parola magica che apre le porte dell’isolamento è imprevedibilità, che per tener fede al suo compito di giustificare l’isolamento a livello medico-legale viene intesa come il segno clinico di una malattia psichiatrica, nello stesso modo in cui il pus segnala un’infezione o il livido uno stravaso di sangue.
Nell’introduzione a Morire di classe, poi confluita nella raccolta di scritti L’utopia della realtà, Franco Basaglia scrive:
Se il malato mentale si rivela incomprensibile nel rapporto con lo psichiatra […], dovrebbero essere messi in causa tanto il malato che non si fa comprendere, quanto lo psichiatra che non comprende. Ma se la verità dello psichiatra ed i valori cui essa è legata, vengono precedentemente stabiliti come misura di paragone, lo psichiatra si garantisce la possibilità di definire il suo linguaggio come unico, chiudendo il malato nel ruolo di incomprensibile, attraverso un atto di prevaricazione che non ha alcuna finalità terapeutica.
L’ipotesi che l’imprevedibilità possa avere a che fare più con un difetto di comprensione di chi osserva che con una caratteristica dell’osservato non viene mai evocata nella pratica clinica. A un paziente che si mostra reticente a verbalizzare il suo delirio o le sue allucinazioni non viene concesso il beneficio del dubbio. Né viene concesso a chi è ricoverato per comportamenti etero-aggressivi, anche quando gli antefatti sono pieni di incongruenze e punti ciechi e si riducono a una formula standard su un certificato. La presunzione di colpevolezza è un abnorme non-detto in queste storie e le distorce a tal punto che nessuno si interessa più alla verità, dove con “verità” intendo sia la ricostruzione degli eventi che hanno dato origine al vortice istituzionale, sia il rapporto tra il reale grado di pericolosità di un paziente e il suo delirio più o meno oggettivabile.
Il tentativo di recuperare questa verità viene spesso percepito come un’impropria invasione nel campo della giustizia o un esercizio mentale fine a se stesso. Così facendo, l’imprevedibilità rimane l’unico escamotage retorico per giustificare misure di prevenzione da un rischio che, essendo sistematicamente scongiurato con ogni mezzo, non è mai falsificabile.
In Italia, le camere di isolamento non esistono. Così come, dal 1978, non esistono più gli ospedali psichiatrici. Esistono, negli ospedali pubblici, reparti a porte chiuse, ma i pazienti possono circolare liberamente al loro interno.
In Italia, le camere di isolamento non esistono. Così come, dal 1978, non esistono più gli ospedali psichiatrici. Esistono, negli ospedali pubblici, reparti di psichiatria chiamati Servizi Psichiatrici Diagnosi e Cura (SPDC). Al momento la maggior parte dei SPDC sono reparti a porte chiuse, ma i pazienti possono circolare liberamente al loro interno. Nel 2006 è stato fondato il “Il club SPDC no restraint”, il cui scopo è promuovere la creazione di SPDC a porte aperte e in cui non venga fatto uso di mezzi di contenzione. L’associazione comprende attualmente circa il 10% dei SPDC italiani.
La fase dell’isolamento: io sono la carne, voi siete il coltello
Ai pazienti in isolamento vengono date massicce dosi di sedativi per permettere loro di sopportare meglio la durezza della reclusione. Un po’ come si dà la morfina ai malati terminali per alleviarne la sofferenza e abbassarne il livello di vigilanza, con la sola differenza che in questo caso il cancro è un artificio medico che può essere annullato in qualsiasi momento. Si cerca di farli dormire il più possibile, al punto che spesso durante i colloqui farfugliano frasi incomprensibili e riescono a malapena a tenere gli occhi aperti. Spesso all’inizio lottano contro la sedazione con tutte le loro forze, sbattendo le palpebre e scuotendo la testa per scrollarsi di dosso la sonnolenza, nella confusa intuizione che il momento del colloquio è l’unico in cui verrà data loro la parola.
La consapevolezza che l’intero controllo della situazione è nelle mani dei medici, e che basta un loro cenno di assenso per mettere fine a quell’incubo, si fa strada nella loro mente fino a parassitarla completamente. A quel punto, nelle lunghe ore di silenzio tra un colloquio e l’altro cercheranno di capire cosa sia più utile dire o fare per accelerare la fine dell’isolamento. È meglio scusarsi per un atto di insubordinazione o negare di averlo mai compiuto? Meglio chiedere di nuovo di essere accompagnati a fumare una sigaretta o sopportare l’astinenza per non essere segnalati come elementi di disturbo?
Ai pazienti in isolamento vengono date massicce dosi di sedativi per permettere loro di sopportare meglio la durezza della reclusione, un po’ come si dà la morfina ai malati terminali.
Le risposte dei pazienti vengono definite in vari modi, nei diari clinici. Tra questi i più quotati sono: incoerenti, laconiche, poco informative. Questi appellativi sono fumo negli occhi e distolgono dallo sforzo di capirle come il frutto di una contrattazione, della lotta tra due istinti di sopravvivenza opposti: il primo animato dalla rabbia dell’uomo innocente di fronte a una punizione senza appello, il secondo sostenuto da una ragione pratica, utilitaristica, che invece suggerisce di mantenere la calma, di dire buongiorno e arrivederci, di ringraziare a denti stretti davanti al vassoio col pasto. Nei momenti ad alta tensione possono verificarsi, com’è prevedibile, dei cortocircuiti, che prendono la forma di accessi di collera, insulti al personale, goffi tentativi di fuga.
Il buonsenso medico impone di rispondere a queste esplosioni con neutralità e fermezza, aumentando la sedazione farmacologica e revocando i privilegi che il paziente si era guadagnato durante l’isolamento – per esempio, il diritto a una telefonata al giorno. È scattata la trappola meglio congegnata dell’intera macchina istituzionale, quella che Goffman definisce “sistema del circuito”: “ciò che provoca una reazione difensiva da parte dell’internato prende questa stessa reazione come bersaglio del suo attacco successivo”. Vale a dire, un rifiuto da parte del personale o un gesto repressivo percepito come arbitrario provocano nel paziente una reazione di protesta o di resistenza. La natura oppositiva di questa risposta, subito disinnescata a livello di discorso nella formula-ombrello di “intolleranza alla frustrazione”, verrà poi utilizzata per legittimare un’ulteriore manovra di limitazione delle libertà personali.
Ci sono alcune domande cruciali che nessuno, nel mio reparto, osa fare ad alta voce. Per esempio, la domanda su chi sia il reale beneficiario di questa impregnazione terapeutica a cui vengono sottoposti i pazienti in isolamento.
La vicenda del Signor G. è emblematica della carriera morale della maggior parte dei pazienti che finiscono in isolamento. Il Signor G. è l’uomo tunisino cacciato di casa dalla moglie, che qualche settimana prima aveva scoperto la sua tresca con una connazionale. Il Signor G., di professione imbianchino, ha una lunga storia di ricoveri e una diagnosi di disturbo schizoaffettivo che in questa storia significa poco o nulla. La prima volta che l’ho incontrato era appena stato trasferito dal Pronto Soccorso, dove la polizia l’aveva portato per degradazione di beni pubblici. Il signor G. è piccolo, nodoso, strabico, furente. Pensa di essere stato stregato dall’amante e designato per uccidere gli spiriti maligni che infestano la città. Pensa anche di avere su di sé una maledizione antica e potente, caduta su di lui il giorno in cui ha tagliato l’albero degli ebrei: “Quando l’ho tagliato è uscito un odore di morte”, ci ha spiegato, “perché lì sotto c’era il cadavere di un bambino”.
I primi giorni si infervorava, raccontandoci la sua storia, con le pause giuste e il tono di un prete o un attore di teatro, il tono di chi l’ha ripetuta molte volte perché tutti capissero la gravità dei fatti. Poi l’ho visto dibattersi contro la sedazione, fare di tutto per non perdere terreno e continuare a parlare di spiriti e maledizioni come se ne andasse della sua stessa vita. Ogni mattina, per una settimana, gli sono state poste ossessivamente le stesse domande: “Come occupa il suo tempo in questa stanza?”, “Ha l’impressione che i pensieri vadano meno veloci nella testa?”, “Quante ore ha dormito la scorsa notte?”, “Pensa di riuscire ad approfittare dell’isolamento per riposare meglio?”. E il Signor G. vacillava, di fronte a queste domande. Poi, finalmente, intorno al quarto giorno, il Signor G. ha smesso di parlare. Quando gli si chiede un resoconto di quanto ha dichiarato all’inizio, le sue risposte sono brevi, stanche, stereotipate. Non è una forma di reticenza: il suo delirio ha perso forza, come un muscolo dopo un’iniezione di anestetico.
La sua storia lo interessa ogni giorno di meno; alla fine della settimana la ripete di malavoglia, come un libretto di istruzioni o il sogno di qualcun altro. Grazie alle condizioni estreme dell’isolamento, il Signor G. ha bruciato le tappe di quello che Basaglia, ne L’istituzione negata, descrive come un processo di oggettivazione:
Posto in uno spazio coatto dove mortificazioni, umiliazioni, arbitrarietà sono la regola, l’uomo – qualunque sia il suo stato mentale – si oggettivizza gradualmente nelle leggi dell’internamento, identificandovisi.
In un reparto psichiatrico nessuna reazione è insensata e nessuna azione va sprecata. Per questo, continua Basaglia:
Il suo erigere la crosta di apatia, disinteresse, insensibilità non sarebbe dunque che il suo estremo atto di difesa contro il mondo che prima lo esclude e poi lo annienta: l’ultima risorsa personale che il malato, così come l’internato, oppone, per tutelarsi dalla esperienza insopportabile del vivere coscientemente come escluso.
A una settimana esatta dal suo ingresso nella camera di isolamento, lo stesso giorno in cui viene dato il via libera al suo trasferimento in una stanza aperta, il signor G. risponde esasperato allo psichiatra che gli ha appena chiesto se veda ancora gli spiriti maligni: “Lei non capisce. Sono fatti antichi, complessi. Sono cose di cui si può parlare solo con il calore”. Si guarda le mani, “E io ora non ho più calore”. Poi solleva di nuovo lo sguardo e lo fa passare su ciascuna delle nostre facce, sconfitto, senza un briciolo di rabbia: “Fate di me quello che volete. Io sono la carne, voi siete il coltello”.
Ci sono alcune domande cruciali che nessuno, nel mio reparto, osa fare ad alta voce. Per esempio, la domanda su chi sia il reale beneficiario di questa impregnazione terapeutica a cui vengono sottoposti i pazienti in isolamento. Oppure, quale sia l’idea di malattia e di cura che sottende a queste pratiche. O ancora, in nome di quali principi di benevolenza e giustizia ci si conceda il diritto di non avere dubbi, o di soffocarli in considerazioni pratiche sulla gestione del tempo, la scarsità del personale, l’ottimizzazione delle risorse disponibili.
Ai pazienti in isolamento viene fatta ogni sera una puntura di eparina, per prevenire i trombi e le embolie polmonari che possono formarsi a causa dell’immobilità prolungata. Molte volte mi sono immaginata il momento, poco prima di cena, in cui viene praticata la puntura: l’atto pratico di portare nella stanza la siringa appoggiata su un vassoio di metallo, di chiedere al paziente di sollevare la maglia di carta del pigiama, poi prendere un po’ di pelle della pancia tra il pollice e l’indice, infilzare lago e contemporaneamente premere lo stantuffo. Un minuto in tutto, due al massimo, e il rischio è scongiurato.