“L a mia unica colpa è stata rifiutare di tradire la fiducia dei miei colleghi e delle università europee, rifiutare di spiare per conto dei servizi segreti iraniani”. È questa la spiegazione del ricercatore Ahmadreza Djalali alla condanna a morte che gli è stata imposta a ottobre a Tehran. O almeno, è questo quello che afferma una lettera aperta attribuita allo scienziato iraniano che ha lavorato per tre anni in Italia ed è in carcere in Iran da un anno e mezzo.
La sorte di Djalali dipende ora dall’accettazione o meno dell’appello alla sentenza. La sua storia ha destato l’indignazione della comunità scientifica internazionale, ma non è un caso isolato. Uno stillicidio di storie simili si sono susseguite negli ultimi anni.
Queste vicende, i cui dettagli sono difficili da verificare per l’impermeabilità delle istituzioni iraniane, suggeriscono una strategia sistematica da parte del regime nei confronti di alcuni degli scienziati del paese, specialmente di quelli che lavorano all’estero. Una strategia che avrebbe a che vedere con lo spionaggio e lo sfruttamento delle loro conoscenze, e che userebbe il carcere come uno strumento per indurre i ricercatori a collaborare.
Djalali: condannato a morte per un rifiuto?
Ahmadreza Djalali, medico di 46 anni, si è formato presso un’università militare iraniana in medicina delle catastrofi. Una disciplina che studia, per esempio, come reagiscono gli ospedali a disastri naturali e umani come attacchi terroristici di tipo CBRN (armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari). Era proprio questo il tema di ricerca di Djalali fra il 2012 e il 2015, quando lavorava come ricercatore al CRIMEDIM (Center for Research and Education in Emergency and Disaster Medicine), dell’Università del Piemonte Orientale.
“Durante un viaggio in Iran nel 2014, due persone dell’esercito e dei servizi segreti mi chiesero di identificare e raccogliere dati e informazioni: di fare spionaggio nei paesi europei, riguardo alle loro infrastrutture critiche, capacità anti-terroristiche, piani operativi sensibili[…] La mia risposta fu NO”, afferma la lettera attribuita al ricercatore.
Secondo il documento, questo rifiuto sarebbe stato il motivo reale del suo successivo arresto. Nel 2015, ricercatori dell’ambito militare avrebbero invitato il medico a diversi simposi in Iran. “Sono solo uno scienziato, non una spia: il mio aiuto scientifico a centri di ricerca iraniani è dovuto solo dal mio amore per la mia patria”.
La storia di Djalali non è un caso isolato: queste vicende suggeriscono una strategia sistematica da parte del regime nei confronti di alcuni degli scienziati del paese.
Da novembre 2015, Djalali si era trasferito in Svezia, dove aveva ottenuto un posto al prestigioso Karolinska Institutet (il centro che assegna i premi Nobel per la medicina), presso il quale il medico aveva ottenuto il suo dottorato anni prima. I colleghi italiani lo aspettavano per una visita accademica a primavera dell’anno scorso, ma Djalali non si è presentato. Il 25 aprile 2016, durante un viaggio in Iran, i servizi segreti hanno arrestato il ricercatore, accusandolo di “collaborazione con un governo ostile”, un’accusa equivalente allo spionaggio. “Mi hanno tenuto in una cella di 3,5 metri quadrati; mi hanno torturato psicologicamente e fisicamente; mi hanno minacciato, umiliato, e ingannato; non mi hanno permesso di parlare con un avvocato per sette mesi dopo l’arresto; mi hanno obbligato a fare confessioni false…”, racconta la lettera.
Nei primi mesi del 2017, Djalali ha protestato con una serie di scioperi della fame e della sete, che lo hanno portato a un ricovero urgente a marzo. Allo stesso tempo, la comunità scientifica internazionale ha espresso la propria indignazione con lettere e comunicati di organizzazioni come Scholars at Risk ed il Committee of Concerned Scientists. Amnesty International lo ha dichiarato prigioniero di coscienza, riconoscendo la tesi della lettera aperta. In Italia, un folto gruppo di senatori guidati da Elena Cattaneo, Luigi Manconi ed Elena Ferrara si sono attivati sul caso, mentre il governo ha realizzato una serie di azioni diplomatiche in difesa di Djalali.
Ma a ottobre, dopo un anno e mezzo di carcere, il medico è stato processato e condannato a morte da un tribunale rivoluzionario guidato da Abolqasem Salavati, un giudice noto per la sua durezza. La sentenza (comunicata oralmente) lo considera una spia del governo israeliano, corresponsabile di una serie di omicidi di fisici nucleari iraniani. Grazie a questo lavoro, Djalali avrebbe ottenuto centinaia di migliaia di euro e il permesso di residenza in Svezia.
Omid Kokabee
La storia di Djalali ha delle impressionanti somiglianze con quella di Omid Kokabee, un fisico iraniano che aveva lavorato in Spagna e negli Stati Uniti, prima di finire in prigione per cinque anni, fra gennaio 2011 e agosto 2016. La condanna di Kokabee ha la stessa motivazione di quella di Djalali (collaborazione con un governo ostile) e il fisico afferma che il motivo reale è, anche nel suo caso, il rifiuto di collaborare con il regime.
“È peccato che io non voglia collaborare in nessun modo con attività militari o di sicurezza?”, si domanda il ricercatore in una lettera aperta spedita a un collega dal carcere. Nel suo caso, infatti, la collaborazione richiesta sarebbe stata la partecipazione in un progetto di ricerca nucleare dell’ambito della difesa.
Il giovane fisico (classe 1982) è specializzato in laser, uno strumento con cui aveva lavorato presso l’Istituto di Scienze Fotoniche (ICFO) di Barcellona e l’Università del Texas a Austin, fra il 2007 e il 2011.
“Fin dal 2005, sono stato invitato varie volte a gestire o lavorare in progetti realizzati in centri di ricerca dell’ambito della difesa e della sicurezza”, afferma Kokabee nella lettera. “L’ultima volta è stata la mattina del giorno in cui venni arrestato: dopo avermi cacciato senza posa, fui invitato presso la sede dell’Organizzazione Iraniana per l’Energia Nucleare”, continua il documento.
Secondo alcuni esperti e a quanto riportato in una lettera privata, Kokabee avrebbe dovuto lavorare a un progetto di arricchimento di combustibile nucleare per mezzo di laser di alta potenza. Si tratta di un sistema sperimentale, conosciuto anche come SILEX e considerato una forma di proliferazione nucleare, dato che permetterebbe di produrre in modo rapido ed economico materiale potenzialmente utile per fabbricare armi atomiche. Nel 2003, la International Atomic Energy Association (IAEA) scoprì che l’Iran stava sviluppando questa tecnologia nella centrale di Lashkar Ab’ad. L’Iran si impegnò a interrompere la ricerca, ma nel 2010, l’ex presidente Mahmood Ahmadinejad dichiarò in un discorso che il paese aveva le “capacità” per portare avanti l’arricchimento con laser.
La storia di Djalali ha impressionanti somiglianze con quella di Omid Kokabee, un fisico iraniano che aveva lavorato in Spagna e negli Stati Uniti, prima di finire in prigione per cinque anni.
La notte del 30 gennaio 2011, Kokabee stava per prendere un aereo per tornare dall’Iran agli Stati Uniti, ma invece di imbarcarsi finì nella prigione di Evin, a Tehran, anche nota come “università di Evin” per l’alto numero di intellettuali e ricercatori incarcerati. “Durante gli interrogatori, condotti mentre ero in isolamento, senza comunicazione con la mia famiglia e il resto del mondo, e sotto minacce alla mia famiglia, mi è stato richiesto di scrivere diverse versioni della mia storia personale a partire dal 2005”, afferma la lettera.
Successivamente, Kokabee avrebbe ricevuto ben tre ulteriori richieste di collaborazione. “Al posto di stare in prigione, mi si offriva di lavorare in questi laboratori, e avrei addirittura ricevuto uno stipendio. Non era nient’altro che prendermi in ostaggio”, afferma il ricercatore nel testo.
Dopo queste richieste fallite, a maggio 2012 Kokabee è stato condannato a 10 anni di carcere. Nel suo caso, la sentenza gli attribuisce la colpa di aver fatto la spia per gli Stati Uniti a cambio di soldi. La vicenda ha generato veementi proteste da parte delle principali organizzazioni scientifiche internazionali, come la American Association for the Advancemente of Science (AAAS), e di entità come Amnesty International e Human Rights Watch. Una lettera firmata da una trentina di premi Nobel ha richiesto la sua liberazione.
Ad agosto 2016 Kokabee è uscito di prigione in libertà condizionale per motivi di salute. Ad aprile 2016, al fisico era stato asportato un rene invaso da un cancro. Il ricercatore aveva dato segnali di malessere fin dal 2012 e diversi gruppi di difesa dei diritti umani ritengono che sarebbe bastato un permesso per realizzare delle analisi standard per prevenire il tumore. Anche se libero, Kokabee non può uscire dall’Iran fino alla fine della condanna. Il fisico ha abbandonato la ricerca, in attesa di poterla riprendere in centri esterni al paese.
Scienziati nell’occhio del ciclone
Le storie di Djalali e Kokabee non sono aneddoti isolati. Ad agosto 2013 lo studente iraniano di matematica Hamid Babaei, che stava lavorando al suo dottorato in Belgio, venne arrestato e successivamente condannato per la stessa accusa di spionaggio. Babaei sostiene che la sentenza è un castigo per essersi rifiutato di spiare per i servizi segreti iraniani.
Altri ricercatori sono stati arrestati per motivi esplicitamente politici. Il chimico Mohammad Hossein Rafiee-Fanood avrebbe fatto infuriare i rappresentanti della linea dura nel governo iraniano con i suoi scritti a favore dell’accordo sul nucleare del 2015: questo spiegherebbe, secondo la sua versione, la sua condanna a sei anni. L’antropologa canadese-iraniana Homa Hoodfar ha passato 112 giorni in prigione nel 2016 per essersi occupata “di femminismo e questioni di sicurezza [nazionale]”.
La prigione di Evin, a Tehran, è anche nota come “università di Evin” per l’alto numero di intellettuali e ricercatori incarcerati.
In generale, i ricercatori si sono trovati spesso intrappolati nel fuoco incrociato fra l’Iran e i suoi avversari. Seyed Motjaba Atarodi, un professore di ingegneria elettronica del Politecnico di Sharif, è stato mantenuto sotto custodia negli Stati Uniti fra il 2011 e il 2013 per aver comprato dei dispositivi che considerava strumenti di laboratorio, ma che presumibilmente avrebbero potuto avere un uso militare.
La libertà accademica che non arriva
L’accordo sul nucleare del 2015 aveva destato grandi speranze nella comunità scientifica iraniana. Le sanzioni precedenti all’accordo rendevano estremamente arduo per i ricercatori iraniani il cammino per ottenere una posizione negli Stati Uniti e in Europa. La motivazione era impedire che le conoscenze acquisite in occidente potessero essere poi portate in Iran per realizzare programmi militari.
Le sanzioni impedivano anche l’importazione da parte dell’Iran di una vasta gamma di dispositivi di uso “duale”, ovvero con applicazioni sia civili che militari. Computer, strumenti di laboratorio e persino programmi informatici scientifici erano difficili da importare, e questo ha indebolito gravemente la ricerca del paese. Altri problemi venivano dall’esclusione dell’Iran dal sistema bancario internazionale, che impediva ai ricercatori del paese di pagare il proprio contributo a infrastrutture internazionali come il sincrotrone Sesame, o persino le quote d’accesso a riviste scientifiche.
I vantaggi per la scienza iraniana della rimozione di queste barriere sono stati notevolmente limitati dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Il presidente ha cercato di imporre un nuovo blocco all’entrata negli Stati Uniti di ricercatori iraniani (e di altri paesi mediorientali). Trump ha anche minacciato di ritirarsi dall’accordo sul nucleare. Tutti i benefici del patto, quindi, sono in sospeso. Ma c’è un ambito in cui le cose non sembrano comunque essere migliorate: la libertà di ricerca degli scienziati iraniani. Casi come quelli di Hoodfar e Djalali sono avvenuti dopo l’approvazione dell’accordo, e suggeriscono che le cose non sono cambiate di molto nella relazione fra i ricercatori e il regime.