“I believe this is yours”. Una mano sottile spunta dallo scialle color pastello a porgermi un mucchietto di fili. Mentre esco dall’albergo, Jane Goodall, la donna simbolo dell’etologia moderna, ottantatré anni, grazia gracekellyana, mi viene dietro per restituirmi con gesto regale gli auricolari dimenticati nel salottino dove l’ho intervistata.
Un anno fa, Goodall, leggendaria pioniera della primatologia, era a Roma per inaugurare il National Geographic Festival delle Scienze. Nonostante la sua autorevolezza, sono in molti, quando parlano di lei, a chiamarla semplicemente “Jane”. Forse perché divenne famosa da giovane – una popolarità che, circostanza rara, non ha conosciuto flessioni per sessant’anni.
Jane è anche il titolo di un documentario biografico uscito nel frattempo, diretto dall’americano Brett Morgen. Negli anni, di documentari su Jane Goodall ne sono apparsi a decine, ma questo qui – sostiene lei – è il più onesto e il più accurato di tutti.
Quel nome breve, semplice, pulito, calza a pennello alla ragazza in pantaloncini e camicia beige che in certe immagini celebri sorride da dietro il binocolo con fascino e riservatezza. E poi “Jane” suona bene perché tutti noi la percepiamo un po’ come la protagonista di un romanzo o di un film di culto, come Rossella, o Biancaneve. In effetti la sua storia è pressoché incredibile, e somiglia in molti modi alla vita di un personaggio letterario.
Becoming Jane
Il primo ingrediente del mito arriva quando Jane Goodall ha solo un anno e mezzo: riceve in regalo Jubilee, uno scimpanzé di peluche. Jane cresce a Londra in una famiglia modesta, e fin da piccola sogna di andare in Africa e di vivere in mezzo agli animali. Quando arriva il momento, non ci sono i soldi per iscriversi all’università, così si accontenta di un corso per segretarie. Trova lavoro in una casa di produzione di documentari, ma per un colpo di fortuna un’amica che ha una casa in Kenya la invita ad andare a stare da lei per un po’.
Una volta lì, Jane va a trovare Louis Leakey, paleoantropologo affermato a Nairobi. La sua segretaria si è appena licenziata, e Jane prende il suo posto. In breve salta fuori che Leakey è anche in cerca di qualcuno che studi gli scimpanzé selvatici nella riserva del fiume Gombe, in Tanzania. È convinto che le scimmie antropomorfe possano insegnarci moltissimo sul comportamento dei nostri antenati.
Leakey vorrebbe affidare quest’impresa senza precedenti a qualcuno che non abbia una formazione accademica, e durante una spedizione alla Gola di Olduvai, dove, con sua moglie Mary, scavano a caccia di fossili, Jane ha già dimostrato qualità impressionanti: fascinazione per la natura, metodo, sangue freddo. Alla proposta, Jane è fuori di sé per l’entusiasmo. L’accompagnerà sua madre, che a cinquant’anni non ha nulla in contrario all’idea di trascorrere dei mesi accampata nel mezzo della foresta africana.
Nel giro di pochi giorni fa una scoperta esaltante: gli scimpanzé sono in grado di costruire utensili, considerata all’epoca una prerogativa degli esseri umani.
Le due donne partono, arrivano a destinazione, si sistemano, ma la ricerca non è semplice per niente. Il progetto è finanziato per soli sei mesi, e avvicinare gli scimpanzé risulta praticamente impossibile. Per giorni Jane se ne va in giro dall’alba al tramonto con granitica determinazione, arrampicandosi tra le liane, con qualsiasi clima. Il tempo a sua disposizione sta per finire quando finalmente, dalla cima di un’altura, riesce ad avvistare qualche esemplare.
Nel giro di pochi giorni fa una scoperta esaltante: gli scimpanzé sono in grado di costruire utensili, considerata all’epoca una prerogativa degli esseri umani. Cogliendo l’importanza scientifica e mediatica di una notizia del genere, National Geographic decide di finanziare la missione e di mandare in Tanzania anche un fotografo, Hugo van Lawick, per scattare qualche immagine delle ricerche. Siccome la vita di Jane Goodall sembra uno di quei libri gialli in cui ogni particolare alla fine va al suo posto, Hugo van Lawick diventerà di lì a poco suo marito e padre di suo figlio.
Fotogrammi da favola
Jane, il film, è accompagnato da una prodigiosa colonna sonora, firmata da Philip Glass. Il suono è affidato a uno specialista come Bernie Krauss. Si basa su 140 ore di materiale originale girato negli anni Sessanta dallo stesso Hugo van Lawick.
Mettere ordine in una mole simile di filmati è stato un lavoraccio, racconta il regista: le splendide inquadrature di van Lawick si susseguivano senza una logica apparente, passando improvvisamente da Jane che passeggia sulla spiaggia con il loro figlio appena nato a un primo piano di grooming tra scimpanzé, a scene di pesca degli abitanti indigeni. Il risultato del montaggio però è incantevole e non ha nulla da invidiare ai migliori documentari naturalistici che si vedono oggi sulla BBC, il che è notevole anche perché la pellicola è stata restaurata solo per ripristinare il decadimento del colore. Più di tutto, le immagini trasmettono in modo impressionante la familiarità di Jane con gli scimpanzé, bestioni grandi e grossi facilmente in grado di uccidere un essere umano. Una confidenza che la giovane studiosa si era guadagnata con grandissima pazienza e dedizione.
“In questo documentario tutto è mostrato esattamente com’era”, garantisce la protagonista, soddisfatta. Non è sempre andata così bene: ai tempi del primo film che raccontò la sua avventura nella foresta, Miss Goodall and the wild chimpanzees, la ricercatrice decise di stravolgere la voce fuori campo perché non lo trovava fedele alla realtà. Non fu minimamente intimidita dal fatto che quella voce, già registrata e pronta al lancio del film, appartenesse a Orson Welles.
Più di tutto, le immagini trasmettono in modo impressionante la familiarità di Jane con gli scimpanzé, bestioni grandi e grossi facilmente in grado di uccidere un essere umano.
In Jane le scene d’epoca sul campo si alternano a inquadrature di Goodall oggi, serena, distante, incrollabile, che racconta di quegli anni e del suo impegno ecologico attuale.
La vocazione divulgativa di Jane Goodall emerse già negli anni della ricerca sul campo: il suo L’ombra dell’uomo divenne presto un classico, e molti altri libri seguirono nella sua carriera di scrittrice. Nel 1977 nacque il Jane Goodall Institute, un ente di ricerca con l’obiettivo di difendere gli habitat degli scimpanzé. Oggi il JGI è attivo su scala globale, ha sede in 25 stati sparsi in tutto il mondo (Italia compresa) e integra la missione animalista con una visione ecologica di più ampio respiro. Da quando non fa più ricerca in prima persona, Goodall si dedica completamente alla sensibilizzazione del pubblico ai temi della sostenibilità, con un’attenzione speciale all’istruzione, all’infanzia e in particolare alle bambine. Il più strutturato dei suoi progetti si chiama Roots&Shoots ed è pensato per educare i giovanissimi nella conoscenza e nella tutela dell’ambiente.
Sessant’anni di rivoluzioni
Non esiste al mondo un progetto di ricerca naturalistica sul campo che sia durato più dell’osservazione degli scimpanzé del Gombe, iniziato nel 1960 da Jane e tuttora attivo grazie ai suoi collaboratori e successori. L’esperienza della stessa Goodall è stata così lunga da incontrare diversi capovolgimenti di prospettiva. Le sue scoperte e le sue conquiste hanno messo in discussione il rapporto tra esseri umani e (altri) animali più di una volta.
Quando si mise a studiare gli scimpanzé del Gombe, Jane non era un’etologa. Non era nemmeno laureata. Alla sua mancanza di formazione accademica (e degli schemi mentali preconfezionati che a volte comporta) deve molti dei suoi successi iniziali, ma quella stessa ingenuità le costò anche durissime contestazioni da parte della comunità scientifica di allora. I suoi metodi erano inconcepibili. Tanto per cominciare, aveva dato dei nomi agli scimpanzé che osservava: David Greybeard, Flo, Fifi, McGregor, Goliath. Questo era considerato gravemente antiscientifico, perché significava umanizzare gli esemplari oggetto di studio. La scelta di battezzare gli animali era in realtà la spia di una concezione completamente nuova: quegli scimpanzé non solo fabbricavano utensili, ma era anche evidente che provassero emozioni. Vivendo tra loro Jane ne aveva continua percezione. Oggi non ci stupisce, ma negli anni Sessanta tra esseri umani e animali esisteva ancora una linea di demarcazione netta, in gran parte rappresentata dall’emotività: era dato assodato che i sentimenti li provassimo solo noi.
Quando si mise a studiare gli scimpanzé del Gombe, Jane non era un’etologa. Alla sua mancanza di formazione accademica deve molti dei suoi successi iniziali.
Se questa rimane la conquista più importante e più raccontata tra le tante che Jane Goodall può vantare, le successive sono forse più intriganti, perché comportarono uno stravolgimento anche personale nella vita di Goodall. Gli scimpanzé avevano rappresentato per lei un luogo dell’anima, un’esistenza a contatto con una natura pacifica e benevola. Ma l’ambivalenza che è propria di qualsiasi animale non tardò a manifestarsi, e negli anni Settanta Goodall fu testimone di quella che chiamano la guerra degli scimpanzé del Gombe, una vera e propria guerra civile tra scimmie all’interno della comunità. Uno scontro lungo e sanguinosissimo per il controllo del territorio nella riserva. Per Goodall lo scenario idilliaco crollò in modo traumatico, dato che lei conosceva tutti i membri di quella comunità – a dire il vero, ne faceva parte: ad oggi, è l’unico essere umano a essere mai stato accettato come appartenente a un gruppo di scimpanzé.
Il paradigma della convivenza cambiò poi ancora una volta, e con conseguenze macroscopiche per i ricercatori, quando emerse che gli scimpanzé sono così simili agli esseri umani che rischiano di essere contagiati dalle nostre malattie. Già nel 1966 la comunità del Gombe era stata decimata da una terribile epidemia di poliomielite, ma solo col passare degli anni divenne chiaro che il rischio della vicinanza con la nostra specie è troppo grande, e i primatologi non possono permettersi di stare a stretto contatto con gli animali che studiano. Certo non come si racconta in Jane, dove vediamo la protagonista spulciare i suoi amici pelosi e fare il solletico ai cuccioli – e ovviamente sorridiamo tutti contenti.
Dr Goodall e Mrs Jane
Chiunque abbia mai assistito a un’apparizione pubblica di Jane Goodall sa che suscita reazioni intense. Così è stato anche un anno fa a Roma: il lungo intervento, la platea commossa, la sorpresa davanti alla poderosa energia che la sua figura esile riesce ancora a sprigionare. Anche se non porta più con sé Jubilee, il peluche di quand’era piccola. “Trascorro all’estero trecento giorni l’anno”, dichiara orgogliosamente. Sul sito del JGI c’è un link apposta per restare aggiornati sui suoi movimenti: Where in the world is Jane?
Non c’è dubbio che ci troviamo davanti a un personaggio che si è fatto mito. È Goodall stessa a riconoscerlo: “ci sono due Jane, e una delle due è un’icona”. Non a caso l’istituto che ha fondato porta il suo nome e cognome. L’inconfondibile profilo con la coda di cavallo è il logo verde foglia che simboleggia il suo impegno nel mondo, e potrebbe stare altrettanto bene su una moneta. “Devo vivere all’altezza di quell’icona”, dice in un’intervista del New York Times, “perché è lei che mi aiuta a cambiare le persone”.
Sono in tanti a parlare di “effetto Jane”. Provate a guardare questo video. Ascoltarla porta molti sull’orlo delle lacrime, eppure non è esattamente una figura dolce: per la maggior parte del tempo, alle domande di giornalisti e ammiratori, appare vagamente annoiata (il che è anche verosimile, considerando quanto spesso sarà costretta a vivere lo stesso copione). “Le piace rispondere alle domande?”, le ha chiesto Morgen quando si sono incontrati la prima volta per parlare del film. “Dipende da chi me le fa”, si è sentito rispondere.
L’infinita pazienza che Goodall sembra dover esercitare per parlare ai suoi interlocutori, però, non la allontana dal pubblico: piuttosto il contrario. Pacatezza e compostezza rendono i suoi messaggi compatti ed efficacissimi. Le sue risposte sono convincenti, divertenti, coerenti, impeccabili – e per questo, inevitabilmente, sempre le stesse. Mai una sbavatura, mai una versione dei fatti che contrasti con un’altra proposta in un’altra occasione, perché lei non fa che raccontare la sua – incredibile ma vera – storia. Le sue battute sono ormai collaudate e perfette, i tempi comici esercitati al millesimo, infallibili. L’impressione tuttavia non è che si tratti di un personaggio aggiustato a tavolino per ottenere un buon impatto mediatico. Piuttosto si direbbe che l’icona abbia, in una certa misura, plasmato l’originale. Che il racconto non abbia alcun pezzo fuori posto perché una narrazione durata decenni ha dato un senso a ogni particolare, limando i dettagli superflui. Dando vita a un percorso che, visto da vicino, è tanto potente quanto innaturalmente lineare.