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aron Lanier è una delle personalità più importanti dell’informatica contemporanea. Inventore, scrittore, tecnologo, divulgatore, artista, è stato tra gli inventori della realtà virtuale negli anni Ottanta. I suoi ultimi libri sono Dawn of the New Everything (ancora inedito in Italia) e Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, recentemente pubblicato dal Saggiatore, una guida per “restare autonomi in un mondo in cui siamo costantemente sorvegliati e sollecitati da algoritmi gestiti dalle più ricche corporation della storia, la cui unica fonte di guadagno consiste nel farsi pagare per manipolare il nostro comportamento”.
Oltre alla scrittura, Lanier continua a lavorare su diversi progetti, da collaborazioni piuttosto folli a idee molto pratiche, dalla realtà virtuale alla teoria economica. “Quello che mi sta tenendo più occupato al momento è la progettazione di interfacce che rendono quella che chiamiamo intelligenza artificiale – o machine learning – più chiara e accessibile alle persone”, mi racconta. “Si tratta di un lavoro necessario perché la gente non venga ingannata e controllata da una classe di preti nerd, altrimenti si finisce per trattare i robot come una specie di voodoo. Sto cercando di rendere l’intelligenza artificiale più ordinaria e semplice da capire in modo che le persone possano commentare, dibattere e avere un ruolo nel cambiarla”.
L’ho raggiunto al telefono per fare una chiacchierata sul futuro di internet, le società ideali, l’utopia e il rapporto tra psichedelia e realtà virtuale.
Negli anni Ottanta lei è stato tra i pionieri dell’informatica, tra chi ha reso la Silicon Valley quella che conosciamo. La realtà, però, si è dimostrata molto diversa rispetto alle vostre idee dell’epoca. Cos’è andato storto?
È una domanda a cui è difficile rispondere rapidamente, è una lunga storia. La maniera migliore di spiegare cosa è andato storto è dire che un numero piuttosto piccolo di persone molto influenti, che erano principalmente ingegneri o matematici, avevano alcune idee su come il mondo avrebbe dovuto funzionare. Idee che non erano necessariamente molto popolari o molto dibattute in maniera esplicita, piuttosto erano quello che la gente che lavorava nell’ambiente di internet era portata a pensare. E queste idee hanno finito per avere un’enorme influenza su internet come lo conosciamo oggi. Tutte queste idee erano presentate con sincerità e buona volontà ma alcune di esse si sono semplicemente rivelate tremendamente sbagliate. Non avrebbero dovuto essere la base delle nostre azioni. Non ero l’unico a essere critico, all’epoca, c’erano altri come me, ma eravamo pochi.
Di che idee si trattava?
Uno degli errori è stato confondere anarchia e democrazia. C’era questa visione secondo la quale se tutti avessero potuto dire tutto in qualsiasi momento, tutto sarebbe stato più democratico. Venivano criticate le strutture intermedie, come le riviste accademiche, attraverso le quali c’era un sistema di controlli di qualità che assicurava che si pubblicasse buona ricerca, e non bugie. Queste strutture intermedie sono state molto indebolite da internet, nei media e nella società in generale, perché internet è una piattaforma globale gigante e quello che succede in una piattaforma globale gigante è che puoi sommergere la gente con tutte le urla e la follia che ti pare. Purtroppo quando la strategia usata è sopraffare la gente con urla e malignità e cinismo, i vincitori sono i cinici e i malvagi, che promuovono il genere di politici che la maggioranza della gente preferirebbe non avere.
Oltre al cinismo, non crede che nel modello comportamentista su cui si basa internet ci sia anche una buona dose di pessimismo? Per trattare le persone come topi di laboratorio in una gabbia di Skinner bisogna avere una concezione piuttosto tetra dell’umanità.
Sicuramente c’è questo aspetto molto spiacevole dell’approccio comportamentista per il quale gli umani devono essere trattati come macchine da manovrare. Questa è l’idea dominante dietro il business di internet, ed è diventata anche l’idea alla base della più grande industria del mondo, al momento. Se si guardano le valutazioni delle aziende informatiche ci si rende conto che stanno sorpassando le aziende del petrolio e dei trasporti e tutte quelle industrie che fanno cose reali. E queste aziende non stanno facendo i soldi grazie ai meravigliosi servizi che forniscono ma solo perché pensano a modi di sfruttare le persone che producono servizi, è un’industria basata interamente sul sotterfugio e sulla manipolazione. E questo è abbastanza incredibile. È un approccio pessimista, sì, ma un’altra maniera di definirlo è egoista. Perché noi che lavoriamo nel cuore del settore tecnologico corriamo sempre il rischio di pensare a noi stessi come alle persone più importanti, perché siamo quelli che meritano di più, quelli che hanno le buone idee, quelli intelligenti, quelli che stanno cambiando il mondo. Noi siamo gli attori primari, mentre tutti gli altri sono gregari. Siccome noi siamo fondamentalmente brave persone troveremo dei modi per cui anche loro beneficeranno di tutto questo, ma solo ai nostri termini.
Siamo ancora in tempo per fare marcia indietro o abbiamo semplicemente perso un’opportunità?
Penso che ci sia tempo, che possiamo cambiare rotta, e che prima la cambiamo meglio è per tutti, perché se le cose cose continuano ad andare sempre peggio la società crollerà a pezzi e a quel punto la soluzione al problema potrebbe essere drammatica. Posso fare una metafora?
Non impedirei mai a Jaron Lanier di fare una metafora. Prego.
So che spesso le persone usano l’avvento del nazismo negli anni Venti come metafora di tutto, quindi non voglio esagerare, ma c’è una cosa che riguarda il nazismo che non viene sottolineata abbastanza ed è il fatto che il regime tedesco era un pioniere nell’uso delle tecnologie dei media di quel tempo, utilizzate per la propaganda: TV, cinema, radio e altri mezzi. Dico questo per sottolineare che quando viene introdotto un nuovo medium e le persone ne sono molto influenzate, c’è sempre la possibilità che qualcuno lo usi per mettere la popolazione da parte e centralizzare il potere. E sono un po’ preoccupato, perché oggi vediamo certi attori utilizzare internet in maniera simile. Dico questo perché è ovviamente sempre meglio cercare di prevenire fenomeni del genere piuttosto che aspettare che si manifestino completamente e in maniera distruttiva. Ho paura che potremmo ritrovarci ad affrontare uno scenario del genere.
A me però sembra che negli ultimi tempi l’ottimismo un po’ ingenuo con cui guardavamo a internet 15 o 20 anni fa sia stato sostituito da un senso di minaccia. Forse stiamo sviluppando gli anticorpi?
A quei tempi dicevo cose molto simili a quelle che dico oggi, e posso assicurare che era molto difficile farlo. Ho perso letteralmente degli amici per questo. Era molto molto duro all’epoca. Venivo quasi evitato in certi ambienti, anche se non del tutto, perché alla fine il mondo dell’informatica è una meritocrazia tecnica. Capiamoci, non mi sto lamentando. Sto solo dicendo che non molto tempo fa era considerato tabù anche solo parlare di questi problemi. Ora, è vero che oggi molte persone sono preoccupate che ci stia capitando qualcosa di sbagliato e che ci sia qualcosa di molto pericoloso nel fatto che il mondo intero venga controllato da computer di proprietà di poche aziende, e fanno bene a preoccuparsi perché è molto strano e pericoloso. La risposta utile a questo punto sarebbe quella di trovare maniere nuove di categorizzare internet in modo che non abbia queste caratteristiche, ed è un po’ questa la discussione che cerco di intraprendere nei miei libri. Ma è una soluzione molto difficile da mettere in atto perché sempre più persone che avrebbero le potenzialità di metterla in pratica finiscono per essere inglobate in questo sistema, vengono comprate, fanno patti con il diavolo per cercare di trarre beneficio da questa cosa terribile che è diventata internet.
Ma in un sistema di capitalismo sfrenato possiamo cambiare la tecnologia senza cambiare la società? Ci può essere davvero una tecnologia migliore in una società spietatamente capitalista?
È una domanda interessante.
Ci sono molti tecnologi che pensano che le idee tradizionali di economia e governo siano sorpassate e che dovremmo semplicemente ignorarle e costruire una società nuova basata sull’architettura tecnologica. Oggi trovi questa mentalità nel mondo della blockchain. Io però non sono d’accordo, perché penso che alla fine cose come un sistema blockchain o qualsiasi altro sistema tecnico abbiano un impatto sul mondo solo quando si interfacciano con il mondo, e questo è il punto in cui le cose diventano reali e in cui hai ancora bisogno di un contratto sociale che funzioni, hai bisogno di persone decenti e in pace nella società in cui vivono. Quindi persone che siano volenterose di agire in maniera cooperativa perché hanno buone ragioni per farlo, e non perché vengono controllate. Abbiamo ancora bisogno di avere il senso della dignità umana perché qualsiasi cosa funzioni. Altrimenti non importa quanto buona è la tua architettura digitale, tutto crollerà nel momento in cui tocca la realtà. Per questo non penso che l’architettura digitale possa essere una soluzione definitiva in sé, e penso anzi che ci debbano essere cambiamenti nelle nostre strutture politiche, legali ed economiche.
Detto questo, credo che ci sia una certa flessibilità su come tradurre questo cambiamento nella realtà. Quando provo a immaginare un piano a lungo termine per la società che sia anche fattibile e includa le reti digitali penso che ci possa essere anche posto per forti elementi di economia di mercato e capitalismo. Però dobbiamo essere flessibili, appunto, perché le tradizionali linee di demarcazione tra destra e sinistra non si applicano necessariamente se proviamo a pensare al futuro. Da qui deriva la difficoltà che incontro quando parlo con persone di sinistra e pensano che io sia di destra e viceversa, quando il mio intento è solo essere il più pragmatico possibile. Mi sembra che finché possiamo avere un sistema economico che funziona nei suoi aspetti fondamentali, quello che dobbiamo chiedergli non è di creare un’utopia ma semplicemente di evitare il disastro. Sono abbastanza contento se riusciamo ad arrivare a questo traguardo. Ci potrebbe sicuramente essere un po’ di capitalismo in questo nuovo sistema, non credo sia necessariamente orribile, e non credo che sempre e necessariamente conduca al fallimento come ha predetto Marx, credo ci siano modi in cui può funzionare.
Non dobbiamo chiedere alla nostra società di creare utopie, e spesso lei ci tiene a caratterizzarsi come anti-utopista. Però un certo grado di utopismo è necessario se vogliamo pensare a un mondo radicalmente diverso, nella tecnologia come in altri campi.
Sono d’accordo. Credo sia utile e forse necessario avere una forma di ideale in mente. E chiaramente riesco a descrivere il mio ideale, e spero che sia simile a quello di molti altri. Vorrei una società nella quale le persone hanno la possibilità di investire in sé stesse come individui, una società nella quale ci sia una varietà di individui e culture. Ma vorrei anche una società in cui c’è un contratto sociale nel quale le persone sono portate a essere gentili le une con le altre, o che almeno ci siano incentivi perché le persone non siano ostili o dannose le une per le altre. Vorrei una società che riconosce il valore che le persone portano nel mondo invece di fingere che le persone siano inutili, il che è un grosso problema con tutti i tipi di sistemi esistenti, siano di destra o di sinistra. Vorrei una società creativa e che non finge di capire tutto riguardo al futuro o che almeno tenga aperte alcune possibilità. Vorrei una società che odia la crudeltà e la sofferenza e prova a trovare maniere creative di evitare di imporre crudeltà e sofferenza sugli individui.
È una società possibile? Come potrebbe la tecnologia aiutarci a raggiungerla o almeno ad avvicinarci?
Be’, tornando al discorso sull’utopia, delle tecnologie della comunicazione si è parlato spesso in maniera utopica… Anzi, a essere sincero sono in parte responsabile per questo, perché ho portato la parola “empatia” nelle discussioni sulla tecnologia e nel marketing dei prodotti tecnologici sulla base dell’idea che se ti connetti con le altre persone puoi apprezzarle e comprenderle meglio. Esattamente l’opposto può accadere sotto le strutture di incentivi che abbiamo ora dove il punto è rendere le persone dipendenti e distratte e così via. E questo a quanto pare porta le persone a odiarsi l’un l’altra, quindi quello che sta capitando è che abbiamo più conflitto sociale di quanto ne avevamo prima. E più ansia sociale.
Quello che sta dicendo, se capisco bene, è che la tecnologia da sola non basta.
Quello che sto dicendo è che anche se stiamo portando nel discorso tecnologico una dose sempre maggiore di automazione, il suo funzionamento si basa sempre su dati che vengono dalle persone. Se riuscissimo a creare un modello in cui non solo i nostri dati hanno valore economico ma possiamo vivere fornendo questi dati, avremmo allora trovato una maniera di impiegare praticamente tutti quanti, in modi che loro stessi scelgono e con i quali si sentono a proprio agio. Come modello ideale, questa sembra una potenziale soluzione a lungo termine. È sicuramente meglio che stare seduti sentendosi inutili mentre i robot fanno tutto il lavoro in un modello di controllo centralizzato che dispensa un reddito universale. Qualcosa del genere mi sembra un’alternativa più positiva e creativa per il futuro, almeno c’è spazio per gli individui e le culture.
Mi ha sempre colpito come le sue idee siano al contempo molto pragmatiche e molto ambiziose. Nei suoi libri può capitare di leggere prima di qualche scenario tecnologico facilmente percorribile e poi di trovarsi davanti a cinquanta pagine sulla comunicazione post-simbolica.
La comunicazione post-simbolica era una cosa di cui si discuteva molto negli anni Ottanta, quindi parlarne per me è un po’ un modo di tornare alla gioventù. Recentemente ne ho scritto in Dawn of the New Everything, che in parte è un memoir, dove ho ricordato quegli anni e quell’idea cercando di aggiornarli al presente. Essenzialmente suggerivo che se hai una forma avanzata di realtà virtuale nella quale le persone possono esprimersi attraverso le esperienze che fanno, allora ti ritrovi con un’alternativa all’utilizzo dei simboli, come ad esempio le parole, per parlare di queste esperienze. Quindi si tratterebbe di mettere direttamente in atto esperienze, o almeno più direttamente che descriverle. Nel libro racconto di come ai vecchi tempi quello che facevo era un modo di reagire a un approccio eccessivamente nerd alla realtà per il quale tutto era comunicazione simbolica. Ma di questi tempi stiamo andando verso un’altra forma di supremazia nerd secondo la quale tutto è correlazione statistica, e anche in questo senso la comunicazione post-simbolica potrebbe essere una maniera di reagire all’ortodossia nerd dei giorni nostri. Insomma, si tratta di un’idea che può sembrare vecchia ma che mi sembra apra nuove possibilità. Non pretendo di capirle in pieno, ma per me sono ancora eccitanti.
Negli anni Ottanta la realtà virtuale era paragonata alla psichedelia, al punto che Timothy Leary era diventato uno dei suoi maggiori promotori. È ancora così? La VR è ancora la nuova psichedelia?
In un certo senso la cultura psichedelica è molto diversa da quello che era un tempo. Probabilmente è cambiata di più di quanto sia cambiata la realtà virtuale. Ai tempi in cui la VR era nuova, negli anni Ottanta, anche la cultura psichedelica era relativamente nuova, e sia Timothy Leary che Albert Hoffman erano ancora vivi e io li conoscevo entrambi, insieme a molti altri personaggi di quell’ambiente. Loro avevano questa idea di schiudere nuovi universi e di trovare nuovi sguardi, e quindi vedere il mondo in maniera psichedelica era più importante che vederlo in maniera fisica, perché il mondo a cui eravamo abituati era solo uno di una moltitudine a cui era possibile accedere, eccetera eccetera. Quello che credo sia successo alle culture psichedeliche è che sono diventate più cliniche e più contenute e un po’ da nerd, come molte altre cose. Il mio non è un giudizio. Sto solo dicendo che oggi la psichedelia ha una qualità differente, i ricercatori psichedelici non hanno quell’interesse rivoluzionario di aprire mondi più ampi. Hanno sviluppato invece questa vocazione terapeutica. È qualcosa di più ordinario e più simile a una tecnica, se vuoi. Quindi in un certo senso il mondo della psichedelia è diventato più piccolo. E credo che non sia più grande abbastanza per essere una metafora di quello che la realtà virtuale spero possa essere.
Quindi pensa che la realtà virtuale cambierà la coscienza delle persone più di quanto la psichedelia abbia mai fatto?
Be’ ovviamente non lo sappiamo. Direi che la VR ha stimolato la gente in un modo simile a come l’idea delle droghe psichedeliche aveva fatto un decennio prima. Che poi le esperienze fatte dalle persone in realtà virtuale siano state effettivamente profonde come quelle con gli psichedelici, be’, qui ho i miei dubbi. Onestamente sospetto che finora le esperienze psichedeliche siano state più profonde di quelle fatte in VR. Ma io non so cosa riserva il futuro. Direi che al momento le esperienze psichedeliche stanno diventando meno profonde, perché il setting o il contesto in cui capitano sta diventando più clinico e più farmacologico, e dunque anche più pratico. Mentre l’orizzonte della realtà virtuale si può espandere e migliorare. Ma ovviamente bisogna considerare che nella VR entra in gioco anche l’esistenza di un corpo che non è il tuo corpo fisico e quindi conta molto la tecnica e l’arte di rendere questo corpo credibile. In sostanza penso che molto dipenda dalla qualità e dall’intensità dell’esperienza.
Sempre che la realtà virtuale non diventi l’ennesimo gadget. Come facciamo a fare in modo che non capiti?
Per me dipende dal modello economico e dagli incentivi economici che forniamo. E poi dipende anche da come ne parliamo: i filosofi sono importanti, gli esempi creati dagli artisti sono importanti, tutto questo genere di cose. Questo è il motivo per cui sono così coinvolto. Come scrivo in Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, se vuoi che qualsiasi cosa di digitale, che sia internet o la VR, funzioni come deve, è necessario che le economie del mondo digitale siano subordinate a quelle del mondo reale, non c’è altra strada.