L o vedo a tentoni”, mi dice Antonio Damasio, in italiano. È la citazione di Shakespeare con cui ha scelto di aprire Lo strano ordine delle cose: Re Lear, quarto atto, scena sei. A parlare è il vecchio Conte di Gloucester, cieco. Rende meglio in inglese, però, aggiunge Damasio: “I see it feelingly”, un’espressione che non evoca solo il tatto, come in tentoni, ma anche altri modi di conoscere il mondo: quelli che passano attraverso le sensazioni e, in senso più ampio, i sentimenti.
Sentimenti ed emozioni sono l’oggetto del lavoro scientifico di Damasio ormai da tempo. Neuroscienziato statunitense, nato a Lisbona, direttore del Brain and Creativity Institute della University of Southern California, Damasio è autore di ricerche considerate fondamentali per le nostre conoscenze sul rapporto tra cervello e coscienza, studi sulla memoria, sull’Alzheimer e sul ruolo delle emozioni nel processo decisionale.
Damasio è anche uno scrittore di successo e, come sottolinea Paolo Pecere nella recensione di Lo strano ordine delle cose, i suoi libri non sono soltanto saggi divulgativi. Partendo solitamente da qualche riflessione sullo stato dell’arte della ricerca neurobiologica, raccontano le radici dell’uomo in un contesto più ampio, che raccoglie nello stesso sguardo la ricerca scientifica, la storia culturale e quella del pensiero.
A proposito di Shakespeare, lei lo ha definito uno dei neuroscienziati che stima di più al mondo.
Nei suoi di libri invece c’è molta filosofia, che lei cerca spesso di ricollegare alle ricerche scientifiche di frontiera.
Quando ha deciso di iniziare a studiare i sentimenti si è ritrovato in un campo di ricerca in quel momento praticamente inesistente.
Sulla sponda opposta, i sentimenti e in generale il comportamento umano sono considerati da umanisti e letterati come ambiti troppo ricchi, unici e complessi per essere spiegati dalla scienza, percepita come troppo fredda e analitica.
Questo ci porta a Lo strano ordine delle cose. Provo a riassumere il libro in una frase: è la storia di come possiamo trovare i semi delle culture e delle civiltà umane anche nel comportamento dei batteri e degli organismi unicellulari, perché c’è qualcosa di preumano che condividiamo con le altre specie, qualcosa che in noi si manifesta poi sotto forma di sentimenti ed emozioni, sentimenti ed emozioni che sono stati la forza motrice che ha portato alla costruzione delle culture e delle società umane.
E non c’è un po’ di riduzionismo anche in questa sua visione?
Il concetto fondamentale per capire meglio il suo libro è quello dell’omeostasi e dell’imperativo omeostatico.
Che differenza c’è tra noi e i batteri sotto questo punto di vista?
E nel libro sottolinea più volte proprio il rapporto stretto tra cervello e corpo.
Anche qui, incontriamo di nuovo un pregiudizio (e di nuovo un riduzionismo): molti biologi guardano ancora al cervello come a un “pacchetto di neuroni”.
E questo è il motivo per cui lei non crede che sarà mai possibile costruire un’intelligenza artificiale senziente, capace di provare emozioni.
C’è un altro concetto chiave nel suo libro: la differenza tra sentimenti ed emozioni.
Quando parla di emozioni e di sentimenti, intende qualcosa di puramente elementare – istintivo – o qualcosa che può essere insegnato e appreso e che può evolvere e cambiare con il passare del tempo?
Il fatto, però, che la vita sia costantemente guidata da un “imperativo interno di continuazione” non significa che noi esseri umani dobbiamo basare i nostri comportamenti solo su quello, che non abbiamo bisogno di morale o etica.
E quindi un altro modo di raccontare l’imperativo omeostatico è dire che gli uomini hanno formato le società e le culture per evitare sofferenza e dolore. Eppure oggi abbiamo ancora guerre e violenza o emozioni come rabbia, diffidenza, risentimento verso altri gruppi di persone.
L’obiettivo ultimo, in questo senso, sarà allargare il nostro cerchio sempre di più, costruire una tribù che contenga l’intera umanità?
Il libro si conclude con una riflessione sui tempi che stiamo vivendo, che lei definisce di crisi culturale.
Traduzione di Alessandra Castellazzi.