A proposito di Shakespeare, lei lo ha definito uno dei neuroscienziati che stima di più al mondo.
È così, Shakespeare aveva una capacità sbalorditiva di comprendere la mente e il comportamento umano, era in grado di descriverli con molta precisione. Per esempio, la frase “I see it feelingly”, l’idea che si possa vedere tramite le proprie sensazioni – un modo che non coinvolge solo il tatto perché il personaggio, in questo caso, è cieco – è proprio l’idea di scoprire l’umanità tramite i sentimenti, la stessa alla base della mia ricerca. Shakespeare è molto preciso. Nelle tragedie, in particolare, si trovano bellissime descrizioni di condizioni molto reali della mente umana.
Nei suoi di libri invece c’è molta filosofia, che lei cerca spesso di ricollegare alle ricerche scientifiche di frontiera.
Perché le neuroscienze sono al tempo stesso una cosa nuova e una cosa non poi così nuova. Abbiamo il dovere di collegarci al passato: è ovvio che il modo in cui studiamo il cervello oggi sia più avanzato, perché abbiamo strumenti scientifici migliori, ma le ricerche di oggi non costituiscono la storia completa. Allargare lo sguardo è quello che mi piace fare in relazione a Shakespeare e alla sua incredibile profondità di comprensione, lo stesso vale per Spinoza. Il modo in cui Spinoza mette sullo stesso piano mente e corpo, li fonde, è incredibilmente lungimirante. È come se avesse anticipato quello che la scienza, oggi, con i fatti, ha dimostrato essere vero. Dobbiamo riconoscere il debito che abbiamo nei suoi confronti. Anche se il mio lavoro non è ispirato da Spinoza, mi sono rivolto a lui perché ero curioso di quello che aveva fatto e perché era parte della storia di ciò che studiavo. Allo stesso modo, sarebbe bello se tra 50 anni qualcuno si guardasse indietro e dicesse: “Quel tipo, Damasio, ci aveva preso su qualcosa”. [ride]
Quando ha deciso di iniziare a studiare i sentimenti si è ritrovato in un campo di ricerca in quel momento praticamente inesistente.
È vero, e anche questo è interessante proprio da un punto di vista storico. Nel Diciannovesimo secolo esisteva un campo di ricerca vero e proprio. Pensi per esempio a William James, uno dei giganti della filosofia. Aveva una mente incredibilmente ricca, studiava qualsiasi cosa, dalla coscienza al linguaggio, le emozioni, i sentimenti, parlava di creatività e religione. Era un pensatore a tutto tondo. Quando parlava di emozioni, le persone lo rispettavano. All’incirca nello stesso periodo, c’era anche Freud, che era chiaramente molto interessato alle emozioni, ai sentimenti e a cercare di capire la mente umana. Nel corso del secolo, però, c’è stato uno sviluppo nelle tecniche in grado di scavare in profondità non sono nella mente, ma nel cervello. Così si è iniziato a prestare un’enorme attenzione a cose che non potevano essere studiate prima. Per esempio: la vista, l’udito, la memoria, le operazioni dell’intelligenza cognitiva, il linguaggio. Già nel 1950 ci si confrontava con l’eredità di Alan Turing nelle scienze computazionali, Chomsky per la linguistica, e un altro gruppo di persone che studiava la vista – ammiro molto David Hubel, che raggiunse un’enorme comprensione della materia – ricercatori che non volevano però lasciarsi distrarre dallo studio dei sentimenti, delle emozioni, che a quel punto erano considerati roba vecchia. All’inizio della mia carriera come neurobiologo ero determinato a studiare la mente umana. Un collega neurologo mi disse: “È stupido, non farlo, il futuro della neurologia è nelle malattie muscolari”. E poi, più avanti, tra il 1990 e il 1995, ho deciso di dedicare il mio intero laboratorio al lavoro sulle emozioni e i sentimenti. Mi ricordo una conferenza che ho tenuto alla Società di neuroscienze, c’era questo mio collega in prima fila – un esperto della memoria, come me all’epoca – che scuoteva la testa come a dire: “Questo poveretto si sta davvero rovinando la carriera”. Più avanti abbiamo creato il primo simposio sulle emozioni umane, e adesso tutti studiano le emozioni e i sentimenti.
Sulla sponda opposta, i sentimenti e in generale il comportamento umano sono considerati da umanisti e letterati come ambiti troppo ricchi, unici e complessi per essere spiegati dalla scienza, percepita come troppo fredda e analitica.
Sì, e infatti ho incontrato molto spesso anche quest’altro tipo di problemi. È la paura dello spettro del riduzionismo, che spinge le persone a dire: “C’è troppa dignità, troppa complessità nell’uomo, perché possa essere a portata della scienza”. È interessante, perché le stesse persone di solito non si preoccupano degli scienziati che studiano particelle sub-atomiche. Non vedono nulla di sbagliato nel sondare i bosoni, ma allo stesso tempo sono molto preoccupati se si vanno a esplorare le particelle del pensiero. Come se una cosa fosse più naturale o dignitosa dell’altra.