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iamo a pochi passi da una catastrofe: nel lungo periodo, nell’arco di decenni, andremo incontro a trasformazioni irreversibili. La dimensione reale del problema del riscaldamento globale è difficile da abbracciare con il pensiero. Spesso si è detto che il disinteresse generale che ha aleggiato a lungo attorno a questi temi dipende dalla natura stessa del nostro cervello o della nostra morale, strumenti inadeguati per avvertire l’urgenza di problemi lontani nel tempo e nello spazio. Secondo qualcuno insomma è colpa della natura umana, dei limiti cognitivi che ci confondono, portandoci a sottovalutare problemi complessi e non immediati. Secondo altri è colpa soprattutto del sistema capitalista. Le teorie economiche dominanti non solo presumono che avremo un accesso perpetuo a fonti energetiche redditizie come il carbone fossile, ma sembrano ignorare l’entità dei costi che non possono essere recuperati: il cambiamento del clima appunto, e i conseguenti squassi sociopolitici. Strutture cognitive o avidità? Probabilmente è un concorso di colpe.
Negli ultimi due anni ci siamo ritrovati più di una volta a rileggere La grande cecità di Amitav Ghosh (uscito in Italia per Neri Pozza, traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti). Ghosh è indiano, vive a Calcutta e New York, e con il suo saggio ha raggiunto un successo planetario. Il titolo originale del pamphlet è The Great Derangement, il grande squilibrio: perché non solo siamo ciechi di fronte a trasformazioni che superano le nostre capacità percettive, ma chi dovrebbe raccontarle – scrittori, divulgatori, artisti in generale – le ignora. O inizia a occuparsene con grave ritardo.
Nel corso del tempo, la natura è stata consegnata alla scienza, rimanendo preclusa alla cultura. L’abisso che oggi divide natura e cultura è il risultato di uno degli impulsi originari della modernità, secondo Ghosh – che riprende le idee di Latour. Una divisione e un rimosso che hanno portato al distacco degli scrittori dalle questioni scientifiche, degli intellettuali dalle questioni climatiche e, di riflesso, degli scienziati dal dibattito culturale. Nel giro di poco tempo La grande cecità è stato ripreso e citato da scienziati, ricercatori, artisti, giornalisti e scrittori – che forse hanno sentito, per una volta, di essersi trovati finalmente raccontati dalla stessa storia.
Nella Grande cecità metti in discussione l’egemonia del romanzo borghese, cioè bianco e agiato: è un’idea di letteratura – scrivi – che ha ignorato un problema urgente e complesso come i cambiamenti climatici e ha represso le potenzialità dell’invenzione letteraria.
La cultura occidentale post-illuminista è stata spinta nella direzione di una sorta di trionfalismo, nella convinzione che il mondo esterno fosse stato sconfitto e addomesticato. Atteggiamenti borghesi che sono, ovviamente, intimamente connessi con le questioni di razza, colonialismo e conquista – perché anche la Natura è stata vista come un dominio da conquistare, da dominare e sfruttare.
È cambiato qualcosa dalla pubblicazione del libro? La letteratura e le arti “mainstream” si sono avvicinate ai temi del riscaldamento globale?
Sì, penso che qualcosa sia cambiato in questi due anni; c’è una consapevolezza sempre più grande del fatto che i cambiamenti climatici non sono solo un problema economico o tecnologico, che anche la cultura ha un ruolo centrale, sotto ogni punto di vista. Un cambiamento che può essere, almeno in parte, risultato degli effetti quotidiani del riscaldamento globale, che sono diventati sempre più visibili e gravi negli ultimi anni – incendi, siccità, alluvioni stanno colpendo la vita delle persone in un modo nuovo, immediato, impossibile da ignorare.
A quali scrittori stai pensando, in particolare?
Per quanto riguarda la narrativa, uno degli sviluppi maggiori di quest’anno è stata la pubblicazione di Overstory di Richard Powers, un romanzo magistrale, che è rigidamente ambientato ai giorni nostri (ovvero quelli dell’Antropocene). Il libro affronta, in una maniera creativa e brillante, la sfida fondamentale della nostra epoca: dare voce al non-umano. Al tempo stesso, giustamente, Overstory non è stato marginalizzato come romanzo “di genere”. Al contrario, è stato inserito nel flusso della narrativa mainstream ed è stato trattato come un romanzo che merita la considerazione critica più profonda e seria (è finito anche nella short-list del Booker Prize). Questo è un segnale, credo, del fatto che qualcosa sia effettivamente cambiato nella letteratura “tradizionale”.
Pensi che la letteratura debba per forza contenere una riflessione sociale? Che debba per forza servire a qualcosa?
Per come la vedo io, la scrittura non può essere programmatica – diciamo così. Dalla scrittura che ha come prima intenzione quella di servire come megafono di una causa, raramente nasce buona letteratura. Allo stesso tempo, com’è ovvio, scrittori e artisti non possono ignorare o evitare le questioni più urgenti dei loro tempi. Quello che rende buona un’opera d’arte o di letteratura – come per esempio Overstory – è fondamentalmente un mistero, nel senso almeno che non abbiamo a disposizione nessuna formula precisa.
Insisti molto sul concetto di riconoscimento del non-umano come parte dell’umano, sull’importanza di creare un dialogo tra noi e la vita che ci circonda sul pianeta. Però parli spesso anche di spaesamento, della natura come materia perturbante, uncanny, unheimlich: come possiamo davvero tutelare qualcosa che ci fa paura?
Rigiro la domanda, perché l’antropocentrismo della letteratura contemporanea non è, nella mia mente, una causa: è il sintomo di uno spostamento culturale più ampio. Moby Dick di Melville, per esempio, non era centrato sull’essere umano come invece tanti romanzi contemporanei. Oggi mettiamo l’uomo al centro delle narrazioni in gran parte come effetto di ciò che chiamiamo “sviluppo” o “modernità”. In città non dobbiamo più fare i conti con molti aspetti non-umani di ciò che ci circonda, cosa che invece, ancora oggi, sono costrette a fare le persone che dipendono dall’agricoltura, dalla caccia e dalla pesca. In altre parole, lo stesso processo che pompa gas serra nell’atmosfera sembra anche averci privato della vista delle conseguenze delle nostre azioni, serrando la nostra attenzione solo sull’umano.
Scrivere un libro come La grande cecità significa scrivere un libro di storia, di antropologia, di letteratura, di urbanistica perfino. Al fuori del giro letterario, come è stato accolto negli altri campi, come è stato letto da ricercatori e scienziati?
Devo essere sincero, l’accoglienza che ha avuto il mio libro mi ha meravigliato. È stato recensito in maniera ampia e indulgente. È stato adottato nelle università di molti Paesi. Un’importante rivista accademica, il
Journal of Asian Studies, ha pubblicato un forum speciale che partiva dal libro. Ha vinto dei premi, come il primo Utah Award in Environmental Humanities. Ma soprattutto ha acceso conversazioni lungo tutto lo spettro culturale, nelle arti, in architettura, in urbanistica e anche nelle scienze dure. Il tema del padiglione polacco alla Biennale d’architettura di Venezia di quest’anno era ‘Amplifying Nature; the Planetary Imagination of Architecture in the Anthropocene’ e coinvolgeva in maniera profonda il mio libro.
In maniera simile vari artisti e critici mi hanno chiesto di collaborare, e anche i ricercatori hanno avuto una reazione calorosa. Adam Sobel, per esempio, professore di scienze dell’atmosfera alla Columbia University, mi ha confessato di aver iniziato un progetto per analizzare le minacce dei cambiamenti climatici a Mumbai come risultato diretto di una conversazione che abbiamo avuto sul mio libro. E i suoi studi potranno avere un impatto sulla gestione delle emergenze a Mumbai, che è, come sappiamo, una città molto vulnerabile. Tutto questo, ovviamente, ha superato di gran lunga le mie aspettative sulla Grande cecità.
Nell’ultimo capitolo analizzi il dizionario vuoto, volutamente vago, degli accordi e delle conferenze mondiali sui cambiamenti climatici, come la COP24 in corso in questi giorni in Polonia. Possiamo ancora aspettarci qualcosa di positivo dalla diplomazia del clima?
Quest’anno, dopo tre decadi di conferenze climatiche, c’è stata una notevole impennata di emissioni di gas serra. Direi che è una prova sufficiente del fatto che la diplomazia ha fallito. Questo significa che dobbiamo rassegnarci? No, ovviamente – perché anche se alcune conseguenze dei cambiamenti climatici sono ormai inevitabili, è ancora possibile scongiurare gli scenari peggiori.
Chi soffrirà di più per le conseguenze dei cambiamenti climatici? I paesi ricchi o le nazioni in via di sviluppo?
Non penso ci sia una risposta semplice. Ovviamente le persone povere saranno duramente colpite. Ma è sempre più chiaro che anche le persone agiate andranno incontro a conseguenze serie, inaspettate. Prendi per esempio Houston, una città molto ricca, che ha dovuto affrontare l’uragano Harvey, oppure Malibu, circondata dalla devastazione degli incendi. O anche la stessa Italia, un paese del “primo mondo”, che negli ultimi mesi ha registrato diversi eventi climatici estremi.
Sotto molti punti di vista, comunque, chi è più a rischio è forse in generale la classe media, che ha come risorsa finanziaria principale case e appartamenti. Per due ragioni. La prima è che, sotto la minaccia della catastrofe, si è visto in diversi casi come i proprietari di case siano restii ad abbandonare i propri appartamenti, preferendo mettere a rischio le proprie vite. La seconda è che, ovviamente, una volta persa la casa hanno perso ogni risorsa.
La tecnologia ci potrà venire in soccorso in qualche modo? Pensiamo per esempio alle tecniche, ancora embrionali, di cattura dell’anidride carbonica.
Non credo che la tecnologia ci possa salvare, credo anzi che la fede nelle soluzioni tecnologiche sia essa stessa parte del problema più ampio, parte di ciò che ci ha impedito di riconoscere la vera dimensione della sfida che avevamo davanti. E, peggio ancora, sembra quasi inevitabile, adesso, che alcune “soluzioni tecnologiche”, sotto forma di geo-ingegneria, ci verranno imposte nei prossimi anni, che ci piaccia o no. È ironico, perché queste scelte ci verranno presentate come inevitabili. Come scrive Isabelle Stengers, il dibattito si ridurrà alla forma sterile “O così, o sei parte della catastrofe climatica”. Uno dei precetti fondativi della modernità è che la tecnologia fornirà sempre una soluzione; un credo che è stato quasi letteralmente inserito anche nell’accordo sul clima firmato alla COP di Parigi nel 2015. Ma è sempre più chiaro il fatto che non c’è ancora una tecnologia affidabile che possa catturare e stoccare l’anidride carbonica, non alla scala richiesta. Forse una tecnologia del genere verrà inventata e perfezionata un giorno, ma è improbabile che possa succedere all’interno della piccola finestra di tempo che ci rimane prima di entrare in un periodo di completa incontrollabilità climatica.