C hi comanda?”: era questa la domanda che Roberto Viola, direttore generale delle Reti di comunicazione, dei contenuti e delle tecnologie della Commissione europea (in gergo DG Connect), voleva tenessi ben presente durante il nostro incontro nel suo ufficio appena fuori Bruxelles, nell’estate del 2018. Viola mi ha elencato le questioni di cui si occupa – una lista dei mali (reali e percepiti) che affliggono Internet –, ma ha iniziato la nostra conversazione osservando che, per poter regolamentare Internet nel modo corretto, occorre prima rispondere a un semplice interrogativo: chi comanda?
Chi vigila su quanto viene detto in rete? Chi garantisce la tutela dei diritti individuali su Internet? Chi stabilisce le regole che governano l’espressione delle opinioni in rete? Chi si occupa di farle rispettare? Chi fa da giudice nelle controversie sulla loro applicazione? Le aziende? I governi dei singoli Stati? La Commissione europea? Una combinazione di questi?
Attualmente i social media sono controllati da un pugno di compagnie private, che mirano ad accrescere il proprio valore azionario. Eppure, in teoria, le regole che governano l’espressione per lo spazio pubblico dovrebbero essere create dalle relative comunità politiche, anziché da compagnie private, sottratte al controllo e alla responsabilità democratici. Lasciate libere, le compagnie acquisiranno un potere ancora maggiore sull’espressione nella sfera pubblica.
Attualmente i social media sono controllati da un pugno di compagnie private. Eppure, le regole che governano l’espressione per lo spazio pubblico dovrebbero essere create dalle comunità politiche.
I governi, consapevoli di questo strapotere, ne sono gelosi, e fanno bene. Nel 2018, a Parigi, partecipando al Forum delle Nazioni unite sulla governance di Internet, Emmanuel Macron ha dichiarato: “Credo fermamente che sia necessaria una regolamentazione”. Non è l’unico a pensarla così. Anche altri governi democratici stanno chiedendo in maniera esplicita che le compagnie di social media regolamentino le proprie piattaforme in ottemperanza alle leggi nazionali o alle esigenze di pubblica sicurezza.
I governi autoritari stanno prendendo spunto dai discorsi disinvolti delle democrazie in materia di regolamentazione. Stanno facendo quel che desideravano da tempo: prendere il controllo, dalle multinazionali, degli spazi di espressione in rete e punire i singoli che criticano e indagano. Quasi tutti i regimi autoritari fanno quel che gli pare per limitare l’espressione in rete, ma c’è il serio pericolo che gli Stati “parzialmente liberi”, per usare la categoria di Freedom House (Stati in bilico fra l’apertura e il controllo, in cui potrebbe fiorire la democrazia o serpeggiare l’autoritarismo) prendano a prestito la terminologia normativa di Macron e la impieghino per soffocare il dibattito e il dissenso.
Rebecca MacKinnon, pensatrice e attivista di punta dell’era digitale, ci ha avvertiti che la libertà di Internet non è minacciata soltanto dai governi autoritari, “ma anche dalle compagnie e dai politici democraticamente eletti in Occidente, che non comprendono la portata globale delle proprie azioni”. Attivisti e singoli utenti faticano a far sentire la propria voce in quella che è stata perlopiù un’operazione a porte chiuse per definire le regole dell’espressione in rete.
Quelli più spesso dimenticati sono infatti gli utenti, i singoli ormai abituati a far affidamento sui social media per le comunicazioni, gli acquisti e l’accesso a ogni genere di informazioni. Un episodio recente è stato illuminante in questo senso. Dopo un viaggio di lavoro a Bangkok, dove ho incontrato alcuni attivisti del sud e sudest asiatico, io e la mia famiglia ci siamo presi qualche giorno per visitare Angkor Wat, lo straordinario complesso di antichi templi Khmer in Cambogia. Abbiamo preso come autista un cambogiano sulla quarantina, che chiamerò S., per farci portare a Beng Mealea, un tempio abbandonato del periodo Angkor, soffocato dalla giungla, a un’ora di distanza dai siti più centrali e turistici.
Per nostra fortuna S. parlava un po’ l’inglese. Non era un chiacchierone, ma nel tragitto verso il Museo cambogiano delle mine antiuomo ci ha raccontato di come è sopravvissuto ai Khmer rossi. È partito dal genocidio e dalle esperienze della sua famiglia, per concludere con la Cambogia odierna, dove il governo è diventato sempre più autoritario e repressivo nei confronti della libertà di parola, dei media, delle proteste e delle politiche di opposizione. Non gli avevamo chiesto di parlarci di politica, ma S. lo ha fatto di propria iniziativa, mentre passavamo davanti a innumerevoli manifesti del primo ministro Hun Sen; ci ha spiegato che tutti i suoi conoscenti avrebbero voluto un governo diverso. A quel punto gli abbiamo chiesto: in un paese come la Cambogia, dove i media sono soggetti a forti restrizioni e le proteste in rete possono portare all’arresto, ad azioni penali e a maltrattamenti, come faceva lui a sapere tutto questo? Da dove prendeva le informazioni?
“Da Facebook”, ha risposto subito S. Ci ha spiegato che è lì che la gente viene a sapere le cose e condivide le informazioni. Alcune sono dicerie, altre vengono da amici e vicini di casa, e alcune sono resoconti provenienti dal mondo fuori dal paese. Facebook è diventato l’alternativa ai media di Stato, a detta di S. Senza quello, non saprebbe a quali fonti rivolgersi.
La libertà di Internet non è minacciata soltanto dai governi autoritari, ma anche dalle compagnie e dai politici democraticamente eletti che non comprendono la portata globale delle proprie azioni.
Le piattaforme hanno facilitato la pulizia etnica e le aggressioni razziste contro i rohingya in Myanmar. Hanno permesso la disinformazione, persino in Cambogia, dove Hun Sen è stato accusato di aver fabbricato la propria popolarità sulla piattaforma. Eppure, sempre in Cambogia, Facebook offre anche un canale a chi vuole disperatamente conoscere la verità sulle autorità pubbliche. È una realtà che dovrebbe, almeno in parte, plasmare le idee su come promuovere i diritti umani e i valori democratici in rete.
Dunque, ritornando alla domanda centrale del dibattito: chi comanda? Quali sono gli strumenti disponibili per garantire che l’espressione in rete tragga vantaggio dal controllo democratico, promuovendo e tutelando la libertà, la riservatezza delle comunicazioni, i diritti all’associazione e all’assemblea e altri valori delle società libere? Non sono requisiti facili da soddisfare.
La situazione richiede un ripensamento serio, che non sia rivolto solo alle regole che governano l’espressione in rete, ma anche alla partecipazione del pubblico nella loro creazione, interpretazione e applicazione. Richiede un’azione da parte delle compagnie, dei governi e della società civile, per proteggere l’espressione nell’era digitale, non cambiamenti esigui e sporadici nella gestione della piazza pubblica da parte dei social media. Ci occorrono subito nuovi modelli per la moderazione dei contenuti e la supervisione pubblica, sostenuti e promossi dai governi tramite norme a tutela dei diritti e con una visione lungimirante degli investimenti pubblici che sostenga l’infrastruttura della libertà di espressione in un’epoca di social media.
Le idee seguenti delineano il tipo di cambiamenti che aiuterebbero le compagnie e i governi ad affrontare le sfide della vigilanza sui contenuti.
Processi decisionali decentralizzati
Le compagnie non sono progettate per moderare i contenuti su scala mondiale. Spesso alienano e appiattiscono le culture tra i mercati dove agiscono. Le compagnie non hanno fatto i conti con il proprio deficit di democrazia. Semmai hanno affrontato problemi di vasta portata assumendo (o promettendo di assumere) più moderatori con abilità linguistiche e competenze di politica locale o regionale. Si tratta di semplici ritocchi, e tutt’altro che sufficienti, seppure importanti. Gli utenti e gli attivisti della società civile a livello locale dovrebbero avere un ruolo esplicito nella creazione delle politiche aziendali.
Norme di moderazione dei contenuti basate sui diritti umani
Sia Facebook sia Twitter hanno dichiarato nel 2018 che i loro standard sono (o dovrebbero essere) radicati nei diritti umani dei loro utenti. Richard Allan, vicepresidente della policy europea, ha scritto che Facebook “si ispira” a leggi quali l’articolo 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, uno dei due trattati centrali per i diritti umani. Facebook e Google sono entrambi membri della Global Network Initiative, organizzazione volta a garantire che le compagnie si attengano ai principi fondamentali di tutela della libertà di espressione e della privacy. Jack Dorsey ha affermato che Twitter (che non ha voluto entrare nella Gni) dovrebbe integrare le sue norme con i valori dei diritti umani. Si tratta di passi positivi, ma rappresentano a malapena un inizio.
Le compagnie dovrebbero esplicitamente adottare le leggi sui diritti umani come standard per la moderazione dei contenuti, e inserirle nelle loro norme. Si tratta di aziende globali che dominano gli spazi di discussione pubblica in tutto il mondo. Le leggi internazionali sui diritti umani garantiscono a tutti il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni tipo, indipendentemente dalle frontiere. Tutelano il diritto di tutti a non essere molestati per la propria opinione. Cosa altrettanto importante, le leggi sui diritti umani forniscono alle compagnie la terminologia per articolare la propria posizione in tutto il mondo, in maniera rispettosa delle norme democratiche e contraria a ogni pretesa autoritaria. È molto meno convincente dire ai governi autoritari: “Non possiamo rimuovere quel contenuto perché sarebbe incompatibile con le nostre norme”, anziché “Rimuovere quel contenuto sarebbe incompatibile con i diritti umani internazionali di cui godono i nostri utenti e che il vostro governo è tenuto a rispettare”.
Non si tratta di una risposta priva di rischi; i governi potrebbero finire per bloccare l’accesso alle piattaforme. Ma questo comporterebbe rischi per gli stessi governi, data la popolarità delle piattaforme tra i loro cittadini, e il segnale autoritario che un tale gesto invierebbe al resto del mondo.
Alcuni sostengono che le leggi sui diritti umani valgono solo per i governi e non per le compagnie. Questo però sta diventando un modo sempre più arcaico di concepire la struttura della governance internazionale. Si va riconoscendo sempre più che le grandi aziende hanno la responsabilità di non intralciare i diritti di cui godono gli individui, che si tratti di una multinazionale del ramo estrattivo che contribuisce a fomentare i conflitti o a colpire i diritti dei lavoratori, o di una compagnia di Internet che metta i dati dei suoi utenti a disposizione di un regime autoritario.
Le compagnie dovrebbero esplicitamente adottare le leggi sui diritti umani come standard per la moderazione dei contenuti, e inserirle nelle loro norme.
Ho sentito anche sostenere che le leggi sui diritti umani permetterebbero ogni sorta di cattivi comportamenti che comprometterebbero l’esperienza degli utenti, quali le molestie e il bullismo di stampo misogino, o che i principi dei diritti umani renderebbero più difficile alle compagnie affrontare la disinformazione e, per esempio, il razzismo, l’antisemitismo, l’islamofobia e l’omofobia. Ma se da una parte le leggi sui diritti umani promuovono la libera espressione, dall’altra prevedono anche restrizioni in base a certe linee guida dello stato di diritto. Le restrizioni devono essere “previste per legge”, oppure, nel contesto dei social media, devono essere soggette a regole fisse, accessibili e comprensibili al pubblico, e non alla discrezione delle compagnie. Le restrizioni devono essere necessarie e congrue per tutelare i diritti o la reputazione altrui, l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, o la salute o la morale pubblica.
Le compagnie dovrebbero spiegare perché richiedono l’adozione o l’applicazione di certe norme. Ciò significa che le restrizioni all’espressione dovrebbero essere l’ultima spiaggia, e non la prima scelta, specialmente laddove siano disponibili altri strumenti per affrontare un problema sentito. In base a tali norme, le compagnie possono agire per la tutela dei diritti di tutti i loro utenti, proteggendoli così, per esempio, da quelle attività volte a sopprimere le voci altrui, divulgare informazioni private o utilizzare gli strumenti della piattaforma per incitare alla violenza.
Infine, alcuni potrebbero affermare che le leggi sui diritti umani sono troppo generiche per poter essere applicate dalle compagnie. Queste però hanno un’ampia giurisprudenza a cui rifarsi, basata sulle sentenze dei tribunali che hanno interpretato e applicato quelle leggi. Si possono trovare presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte interamericana dei diritti umani, la giurisprudenza emergente delle corti regionali e sub-regionali in Africa, i tribunali nazionali delle società democratiche, gli organismi che monitorano l’osservanza dei trattati, le Nazioni unite e i sistemi regionali per i diritti umani. Non è una risposta valida dire che la legislazione non c’è soltanto perché alcuni la ritengono inferiore, o perché alcuni ignorano addirittura l’esistenza di tale corpus.
Ciò detto, le leggi sui diritti umani non bastano da sole a risolvere i problemi dello strapotere aziendale. Sono necessari altri due strumenti.
Miglioramenti radicali per la trasparenza
Le compagnie dovrebbero divulgare le scelte che hanno compiuto sulle politiche e gli standard in perenne adattamento. Le compagnie devono rivelare agli utenti perché prendono certi provvedimenti nei confronti dei contenuti; su cosa è stata basata una decisione e come l’utente può fare ricorso. La chiarezza nei processi decisionali algoritmici (gli input forniti all’intelligenza artificiale che funge da controllore dell’espressione, non qualche operazione matematica nebulosa e generica) fornirebbe ai privati e agli accademici le basi per individuare le sfide più serie all’applicazione delle regole aziendali.
Supervisione e responsabilizzazione del settore
Il secondo strumento per aumentare al massimo il valore delle norme ispirate ai diritti umani e il coinvolgimento locale è sottoporre le norme e le decisioni delle compagnie a una supervisione e responsabilizzazione dell’intero settore. Le compagnie dovrebbero collaborare con leader della società civile, attivisti e accademici per sviluppare quelli che Article 19 ha chiamato “consigli sociali”. Facebook si è già mosso timidamente per migliorare le procedure di ricorso, da quando Mark Zuckerberg ha iniziato a parlare di una Corte suprema per Facebook e di un meccanismo di ricorso esterno. Agli inizi del 2019 la compagnia ha pubblicato una bozza di statuto per un Comitato di supervisione che permetterebbe il ricorso a un organismo indipendente, alle cui decisioni Facebook si impegnerebbe ad attenersi. Sembra un avvio promettente, e Facebook si è impegnata a consultarsi con vari soggetti durante lo sviluppo di questo strumento.
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Un ripensamento su larga scala da parte delle compagnie è solo uno dei tanti passi da compiere. L’altro rimedio necessario è la regolamentazione da parte dei governi. Questa dovrebbe monitorare la condotta delle compagnie, proteggere lo spazio dell’espressione individuale, ribadire l’esigenza di trasparenza da parte delle compagnie come dei governi stessi e investire nelle infrastrutture necessarie alla libertà di espressione nei loro paesi.
Nel mio lavoro di relatore per le Nazioni unite mi sono spesso soffermato su cosa dovrebbero evitare i governi: provvedimenti pesanti; il monitoraggio delle compagnie sulle loro stesse piattaforme; il filtraggio dei contenuti al momento del caricamento, una pratica che quasi certamente porterebbe a un eccesso normativo o alla censura di contenuti leciti; sanzioni alle piattaforme tali da incentivarle a rimuovere contenuti, senza incentivarle invece a conservare i contenuti “difficili” benché leciti; e la delega di decisioni sui contenuti alle compagnie senza alcuna supervisione statale. Alcuni governi, purtroppo, si stanno muovendo in queste direzioni, che non promuoveranno la libertà di espressione né faciliteranno la concorrenza, e neppure proteggeranno gli utenti e le categorie vulnerabili.
Il potere dominante delle piattaforme fornisce loro un impatto smisurato sul dibattito pubblico e sull’accesso alle informazioni. Il ruolo svolto da Facebook nel massacro del giornalismo è ben documentato. Alla luce di queste minacce al controllo democratico dello spazio pubblico, Tim Wu ha sostenuto in maniera convincente la necessità di affrontare il potere monopolistico delle piattaforme con gli strumenti dell’antitrust, concentrandosi in particolare su Facebook, che essendo proprietario di WhatsApp e Instagram ostacola la competizione fra i social media. L’antitrust fa parte di uno sforzo più ampio per creare le condizioni che permettano a quanti sfideranno Google e Facebook di restituire vigore alla libertà di espressione, ai media indipendenti e altri beni pubblici.
Tuttavia, i governi dispongono anche di altri strumenti, e dovrebbero adoperarli. Alcune politiche, da tempo prese in considerazione, andrebbero rafforzate. La neutralità delle reti, per esempio, aiuta gli innovatori ad avere una base per arrivare al pubblico, il che è essenziale per continuare a garantire la possibilità di competere con le piattaforme di social media dominanti. Benché oggi sia sotto attacco, l’immunità degli intermediari è ancora uno strumento importante per facilitare la libertà di espressione sulle piattaforme.
All’interrogativo Chi comanda? dobbiamo dare una risposta che sia valida per tutti noi, come pubblico e come individui, che ci permetta di riappropriarci almeno in parte dello spazio democratico di Internet.
Proprio come una tariffa ingente finisce per gravare come costo sui consumatori, quando i governi prendono provvedimenti contro l’immunità, gli utenti ne pagano il prezzo, sotto forma di maggiori limitazioni all’espressione. È quel che si è verificato negli Stati Uniti nel 2018, quando le leggi volte a limitare lo sfruttamento sessuale hanno spinto alcune compagnie, come Tumblr, a vietare i contenuti per adulti leciti (cioè consentiti dalla legge). I governi dovrebbero rafforzare l’immunità degli intermediari, non eroderla con normative sui contenuti, e adottare invece gli strumenti della segnalazione e della trasparenza per dare agli utenti la possibilità di decidere se usare o meno le piattaforme.
Infine, i governi devono saper guardare avanti, superando il modello normativo per il controllo dei social media. Devono pensare a investire in forme di servizio pubblico, sul modello delle emittenti pubbliche, che offrano spazi per la comunicazione, il dibattito, l’informazione e la promozione dei media indipendenti. I governi possono usare quegli strumenti che adottano spesso per aiutare i media indipendenti all’estero, come i programmi di assistenza internazionali, per sostenerli anche in patria.
In ultima analisi, all’interrogativo “Chi comanda?” dobbiamo dare una risposta che sia valida per tutti noi, come pubblico e come individui, che ci permetta di riappropriarci almeno in parte della promessa originaria di Internet: quella di uno spazio democratico.
Estratto adattato dal libro Libertà vigilata. La lotta per il controllo di internet (2021, Treccani, l’editore di questa rivista). Traduzione di Francesco Graziosi.