A lle cinque del mattino del 26 gennaio, le primi luci dell’alba si affacciano sulla città di Melbourne, illuminando i grattacieli e le bandiere Australiane che sventolano lungo il fiume Yarra, nel cuore di downtown. La città è agghindata, colorata a festa per l’Australian day, il giorno in cui in Australia si celebra lo sbarco della prima flotta inglese, nel 1788. In tarda mattinata, una parata attraverserà le vie principali del centro città. Nel pomeriggio sono in programma concerti gratuiti e in serata un grande spettacolo pirotecnico.
A qualche centinaio di metri di distanza, nel punto più elevato del giardino botanico che si affaccia su downtown, l’atmosfera è molto diversa e un migliaio di persone si dispongono silenziosamente in cerchio. Al centro, un fuoco cerimoniale rischiara l’ultima oscurità, prima che il sole sorga del tutto.
Lidia Thorpe, discendente dei popoli Gunai e Gunditjmara, prima donna aborigena eletta nel parlamento dello stato di Victoria, prende il microfono e rompe il silenzio. “Oggi, all’alba, ci troviamo a condividere quel peso che noi aborigeni ci portiamo addosso tutti i giorni. Un peso fatto di trauma e ansia. E le settimane che precedono il 26 gennaio sono le peggiori. Quando guardo il mio popolo, vedo persone distrutte e che sopravvivono a fatica. Mentre continuiamo a perdere la nostra gente [i tassi di suicidi nelle comunità aborigene sono noti per essere i più alti al mondo, nda] dobbiamo mantenere la nostra capacità di resistere e la nostra forza per continuare a fare quello che facciamo”.
“Questa mattina”, prosegue, “ci troviamo qui per commemorare e vegliare le centinaia di migliaia di persone aborigene che sono morte per proteggere questa terra”. Il suono grave e solenne di un dijeridoo accompagna poi le danzatrici Djari Djari che si esibiscono in un rituale funebre intorno al fuoco, adornate di rami di eucalipto, una pianta tradizionalmente usata durante le cerimonie di purificazione.
Poi, uno alla volta, ragazzi e ragazze, donne e uomini aborigeni, si alternano al microfono leggendo la data e il numero di vittime delle centinaia di stragi e massacri subiti dai popoli indigeni dal cosiddetto Australian Day a oggi. L’elenco sembra infinito e il tempo si dilata fino quasi a fermarsi mentre il fumo denso dell’eucalipto avvolge i partecipanti.
Lydia Thorpe riprende la parola al microfono: “La nostra terra, la nostra acqua e le nostre foreste sono distrutte. Non si tratta solamente di genocidio fisico e culturale. È un tentativo di totale annientamento del nostro popolo e della nostra cultura, che si manifesta nell’ ecocidio dei nostri animali totem e nella distruzione delle nostre songlines.”
Queste ultime, anche note come vie dei canti – rese note da Bruce Chatwin che le descrisse nell’omonimo libro –, rappresentano sistemi tradizionali per navigare il territorio che gli anziani tramandano oralmente e in forma di canti alle nuove generazioni durante riti cerimoniali. Come spiega Lynne Kelly, divulgatrice scientifica, “le songlines svolgono la funzione di spazializzare un’enorme quantità di informazioni di fondamentale rilevanza culturale all’interno del territorio, contribuendo quindi a sovrapporre in modo unico l’identità e la cultura aborigena con il paesaggio stesso.”
I popoli aborigeni abitano il continente australiano da moltissimo tempo. Le stime più conservative suggeriscono l’insediamento sul continente intorno ai 45-50.000 anni fa, date che li rendono, di fatto, uno dei popoli più antichi della terra. Negli ultimi 200 anni di storia, però, con l’arrivo dei primi coloni, gli abitanti delle prime nazioni (termine che i popoli aborigeni d’Australia spesso utilizzano per riferirsi a loro stessi) hanno subito terribili violenze, massacri e sono stati vittime di politiche che miravano a cancellarne l’identità culturale, attraverso un processo di assimilazione che ha preso forma nella tragedia della stolen generation, la generazione rubata.
Nel periodo compreso tra il 1910 e il 1970, infatti, migliaia di bambini aborigeni furono sottoposti, da parte di agenzie federale e statali, a trattamenti che ambivano a migliorarne l’integrazione nella società occidentale. Rimossi violentemente dalle proprie famiglie, venivano ricollocati in missioni cristiane dove gli era proibito parlare la propria lingua, praticare la propria cultura e rivendicare la propria identità.Questa frattura ha lasciato uno squarcio nella società Australiana. Una delle tante ferite ancora aperte di cui i popoli aborigeni cercano una cura e che è stata descritta in molti film, tra cui La generazione rubata di Phillip Noyce.
Gli incendi che hanno messo in ginocchio l’Australia negli ultimi mesi, e che sono ancora in corso, hanno avuto sui popoli indigeni un effetto altrettanto devastante, che da molti è stato paragonato a un secondo genocidio culturale. Da settembre 2019 a oggi sono bruciati più di dieci milioni di ettari, tra foreste temperate e bush. Almeno 30 specie hanno perso più dell’80% dell’habitat, imboccando il cammino che porta inesorabilmente all’estinzione. In East Gippsland, per esempio, una delle aree più terribilmente colpite, un piccolo marsupiale, il long-footed potoroo, ha perso praticamente tutto il suo areale, inteso come la superficie complessiva dove la specie naturalmente risiedeva. Nella stessa regione, è andata in fumo l’area deputata alla conservazione del greater glider, un mammifero marsupiale planatore simile a uno scoiattolo volante. Chris Dickman, professore di ecologia terrestre presso l’università di Sidney, stima siano circa 480 milioni gli animali morti o condizionati direttamente e indirettamente dagli incendi. Questa catastrofe ecologica si inserisce in un quadro ambientale già complesso, in cui negli ultimi due secoli, a seguito della colonizzazione e della deforestazione massiva, l’Australia ha perso il 25% delle foreste pluviali, il 45% della savana e il 30% del Mallee.
Negli ultimi dieci anni il continente Australiano è stato colpito da centinaia di incendi, divampati nelle foreste temperate e nelle savane meridionali. Tuttavia l’emergenza degli ultimi mesi, a cavallo tra 2019 e 2020, è dovuta al moltiplicarsi di roghi di un’estensione senza precedenti e causati da una serie di precise circostanze. Il 2019 in Australia ha segnato vari record dal punto di vista climatico: è stato sia l’anno più caldo che quello più secco dell’ultimo secolo, con una media delle precipitazioni più bassa del 40% rispetto agli anni passati e con temperature medie di 1,5 gradi al di sopra della media attesa.
Gli incendi che hanno messo in ginocchio l’Australia negli ultimi mesi hanno avuto sui popoli indigeni un effetto devastante, che da molti è stato paragonato a un secondo genocidio culturale.
L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, da anni ha previsto e messo in guardia sull’aumento del rischio di incendi a sempre maggiore intensità e frequenza nel continente. I fenomeni di questi mesi sono stati almeno parzialmente causati dalla congiunzione di due sistemi meteorologici. Il primo è un particolare sistema di circolazione atmosferica, il “dipolo dell’Oceano Indiano”, gradiente di temperatura fra la parte est e ovest dell’oceano: si tratta, in altre parole, dell’alternarsi periodico di masse d’aria calda e fredda sopra l’oceano. Un fenomeno ciclico che quando si trova nella cosiddetta “fase positiva” porta aria secca e temperature più alte sul continente australiano, e quindi una maggiore probabilità di incendi. La crisi climatica sta alterando la variabilità atmosferica e determinando, secondo i ricercatori, una maggiore frequenza di eventi estremi dovuti al dipolo. Il secondo sistema, “il southern annular mode”, è quello che descrive la circolazione dell’aria intorno al Polo sud: a cavallo tra 2019 e 2020 si trovava nella sua fase negativa, contribuendo quindi, a sua volta, a soffiare aria calda in Australia.
Il primo ministro Scott Morrison negli ultimi mesi è stato contestato pubblicamente e più volte, sia per la sua riluttanza a collegare la crisi degli incendi a quella climatica sia per la sua inadeguatezza nel gestire l’emergenza. I primi di gennaio, recatosi in visita a Cobargo, uno dei centri abitati colpiti più drammaticamente dai roghi nella costa meridionale, è stato accolto con fischi e urla da parte degli abitanti. Morrison è un acceso sostenitore di un modello di economia fortemente estrattivista rispetto alle risorse minerarie, tra cui il carbone, uno dei combustibili maggiormente inquinanti al mondo e del quale l’Australia è il quarto produttore mondiale. Recentemente un report internazionale ha valutato l’operato dell’Australia rispetto alle politiche di mitigazione della crisi climatica come uno dei peggiori tra i paesi del G20, proprio a causa del grande ruolo giocato dai combustibili fossili nell’economia del paese.
In un parco nei quartieri nord di Melbourne incontro Neil Morris, artista e rapper indigeno della nazione aborigena Yorta Yorta, in arte DRMNGNOW. Neil negli ultimi mesi è stato particolarmente attivo nel sostenere le comunità aborigene vittime dell’emergenza incendi in East Gippsland e nello stato del New South Wales, organizzando una campagna fundraising di grande successo con l’obiettivo di offrire risarcimenti a chi ha perso tutto e ha dovuto spostarsi e abbandonare la propria casa e terra.
“La profonda connessione della persone first nation [termine che si riferisce, appunto, ai popoli indigeni d’Australia e che riconosce la ricca diversità culturale e linguistica presente sul continente prima della colonizzazione, nda] alla terra è il fulcro della nostra identità”, mi spiega Neil, seduto a terra, gambe incrociate e sguardo serio. “Noi siamo e ci sentiamo i custodi di questa terra, senza la quale cesseremmo di esistere. La terra, il nostro paesaggio, sono per noi un’entità fondamentale che condiziona profondamente il modo in cui ci situiamo nel mondo”.
“Gli ecosistemi e i territori non toccati dalla colonizzazione sarebbero i luoghi più adatti, per noi, dove abitare. Quando pensiamo ai gravi problemi di salute mentale e depressione che affliggono le comunità aborigene, credo siano soprattutto una conseguenza diretta della degradazione del territorio. Forse per voi non è facile capirlo fino in fondo, ma noi abbiamo rapporti di parentela con il paesaggio, con le piante, con gli animali e con le stelle. In un territorio devastato, la triste realtà è che gran parte della nostra famiglia è andata persa”. Prova a immaginare, mi dice poi. “È come vivere una vita in cui fatichi ogni giorno per provare a convincerti che tutto vada bene, quando parte della tua famiglia è scomparsa.”
Il primo ministro Scott Morrison negli ultimi mesi è stato contestato pubblicamente e più volte, sia per la sua riluttanza a collegare la crisi degli incendi a quella climatica sia per la sua inadeguatezza nel gestire l’emergenza.
Neil mi fa notare che il triste record mondiale per il tasso di suicidi che affligge le comunità aborigene vada necessariamente compreso e interpretato nel contesto di una perdita di identità, anche e soprattutto legato alla devastazione della terra. Oggi, mi dice, le comunità indigene, le ultime persone rimaste a custodia della terra, sono costrette ad abbandonare la terra stessa, e gli aborigeni sono diventati rifugiati ambientali. “È questo capovolgimento dell’assetto del nostro mondo che mi ferisce più profondamente”, mi confessa. “Si tratta di una tragedia che non può essere comparabile all’esperienza di altre persone che si sono trasferite negli stessi luoghi per altre ragioni, magari economiche. Credo che la mia gente non potrà mai dimenticare questo terribile momento.”
Intanto, in Australia, dall’inizio dell’emergenza incendi, un tema che risuona sempre più spesso, alla radio, in televisione e nei dibattiti accademici è quello del cultural burning, ovvero la pratica tradizionale aborigena che prevede l’uso di roghi controllati per limitare il rischio di incendi più grandi e non controllabili. Si tratta di un processo di gestione del territorio che mira a ridurre la biomassa della vegetazione più infiammabile e contemporaneamente crea un mosaico di habitat che aumenta la biodiversità complessiva del territorio.
Secondo Bill Gammage, storico e accademico presso la Australian National University, il territorio australiano ricco di biodiversità che i britannici incontrarono ai tempi della colonizzazione, era frutto anche dell’uso tradizionale e sapiente del fuoco da parte dei popoli aborigeni. Tuttavia, gli effetti più duri e drammatici della colonizzazione hanno interrotto molte delle pratiche tradizionali di gestione del territorio – in parte anche perché la diversità e la complessità linguistica e culturale all’interno dell’identità aborigena è altissima: al tempo della conquista inglese, sul continente erano parlate più di 200 diverse lingue. Gli studiosi, oggi, si rifanno a fonti storiche come i testi e le immagini del periodo della conquista e allo studio dei pollini e dei sedimenti per comprendere su quale scala e con quali effetti i popoli aborigeni utilizzassero il fuoco per amministrare il territorio.
È sicuramente vero che l’uso tradizionale e controllato del fuoco per creare un mosaico di habitat diversi avesse degli effetti positivi sulla biodiversità del territorio e sulla riduzione del rischio di incendi in alcuni specifici habitat e in condizioni metereologiche benevole. D’altrocanto, però, è anche evidente che quella del cultural burning non possa essere l’unica soluzione per contrastare gli incendi nelle attuali condizioni di estrema siccità e in un momento storico in cui le temperature aumentano su scala globale.
Mi dirigo in auto verso la regione di East Gippsland, una delle regioni più severamente colpite dagli incendi e che dista circa tre ore di viaggio da Melbourne. L’area, durante il periodo estivo, è un’ambita meta turistica per la ricchezza e la diversità di paesaggio che offre, comprendendo il massiccio delle alpi australiane, le foreste e laghi costieri, fino alle spiagge che si estendono ininterrotte per centinaia di chilometri. È la terra della nazione aborigena Gunaikurnai che da sempre abita queste foreste.
A qualche chilometro dalla costa si trova l’Associazione aborigena Gunaikurnai per la terra e l’acqua (GLAWAC) che rappresenta legalmente la nazione aborigena Gunaikurnai nello stato di Victoria e che lavora per implementare le politiche di amministrazione del territorio. L’organizzazione amministra 10 parchi e riserve per un totale di 1.3 milioni di ettari, contribuisce alla battaglia contro gli incendi grazie a un piccolo contingente di vigili del fuoco volontari e rappresenta un esempio virtuoso, nonché uno dei primi casi di associazioni aborigene che lavorano a stretto contatto con il governo.
Mi accoglie Daniel Miller, uomo Gunaikurnai e general manager della GLAWAC. La sua scrivania è sommersa di mappe dell’area circostante dove è segnato il fronte degli incendi più recenti e la loro evoluzione negli ultimi giorni e settimane.
“La protezione del nostro patrimonio culturale è la nostra priorità”, mi dice. “Uno dei nostri maggiori contributi è quello di aiutare lo stato a rispettare i suoi doveri sia legislativi che morali nell’amministrazione del patrimonio culturale aborigeno che potrebbe essere o sarà impattato dagli incendi. Ma la triste verità è che ci sono centinaia di siti cerimoniali e luoghi sacri che stanno bruciando”.
Daniel cerca anche di fare chiarezza sulla pratica del cultural burning. “Ogni nazione aborigena ha un’idea diversa di come si dovrebbe utilizzare il fuoco per amministrare il territorio. Nel nostro caso, cultural burning è più che altro una pratica che avviene su scala ridotta e il modo in cui lo facciamo è parte di un processo di cura, per noi persone aborigene, per riappropriarci della nostra cultura e identità, anche a fini terapeutici”. Perché nelle comunità aborigene esiste una forte aspettativa nei confronti delle persone provenienti da alcune specifiche famiglie e con un certo cognome, da cui ci si aspetta che siano detentrici della cultura tradizionale. Quando, spesso inevitabilmente, questo non succede, il distacco può generare un forte senso di vergogna. “Noi quindi lavoriamo per riappropriarci della nostra stessa identità, per educare le nuove generazioni. È un percorso lungo ma è un processo, appunto, terapeutico e curativo”.
Dall’inizio dell’emergenza incendi, un tema che risuona sempre più spesso è quello del cultural burning, la pratica tradizionale aborigena che prevede l’uso di roghi controllati per limitare il rischio di incendi non controllabili.
Daniel mi spiega poi come la sua gente sia stata costretta a vivere in alcune aree specifiche, perdendo connessione con la propria famiglia e cultura. E come la perdita del territorio a causa degli incendi stia avendo un ulteriore e drammatico impatto sulla salute mentale delle persone di discendenza aborigena. Inoltre, l’inagibilità di alcune strade a causa dei recenti incendi contribuisce a frammentare ulteriormente le comunità, i cui membri sono costretti ad affrontare estenuanti viaggi in auto di decine di ore per potersi incontrare e praticare cerimonie tradizionali.
Risalgo in auto e mi lascio alle spalle la costa e le sue foreste temperate per dirigermi verso l’interno. Molte delle strade sono chiuse e la polizia ne controlla l’accesso, permettendo l’ingresso solo a residenti e forze dell’ordine. Quando, infine, riesco ad accedere alla zona delimitata, dove l’ultimo incendio è stato spento da circa una settimana, lo scenario che si apre è desolante: foreste carbonizzate, dalle radici alla chioma, abitazioni crollate, il silenzio più completo. Non c’è vita, non si sentono uccelli cantare e il vento crea piccoli mulinelli di polvere tra i tronchi inceneriti degli alberi. Qualcuno ha deciso di non abbandonare il luogo ed è accampato in una roulette accanto ai resti di quella che era la sua abitazione.
Poi, distante, come in una visione, dalla foresta bruciata fa capolino una coppia di emu. Come due fantasmi silenziosi attraversano una radura per scomparire nuovamente nella foresta bruciata. Gli emu, parenti degli struzzi, sono animali sacri e totemici in molte culture aborigene, e occupano un ruolo centrale nello cosmogonie tradizionali e un posto nel cielo notturno, grazie a una costellazione australe che porta il loro nome.
Osservare questi grandi animali in un territorio sfregiato dagli incendi fa riflettere sulla capacità di reagire che lega queste terre e le popolazioni che da sempre le abitano. Mi tornano alla mente le parole di Lidia Thorpe durante la cerimonia all’alba: “avere persone aborigene che continuano a praticare la propria cultura, le proprie lingue, canzoni e danze è un monumento alla nostra capacità di sopravvivenza. Ma abbiamo bisogno di voi, di tutti. La nostra madre, la nostra terra piange e chiede aiuto. Noi abbiamo la soluzione per curarla ma possiamo riuscirci solo tutti insieme”.