A volte, nella scienza, si assiste a un fenomeno analogo alle bolle speculative in campo economico: per decenni un problema insolubile assorbe risorse e investimenti, in misura crescente e senza nessun reale progresso. I ricercatori continuano a proporre soluzioni infruttuose e si appellano alla politica del “primo passo”: bisogna pur cominciare da qualche parte e questo è il massimo che si può fare. Ma si resta sempre nella casella di partenza. Più che un primo passo, è un passo sul posto.
Questa situazione descrive lo stato della ricerca sulla coscienza nel campo delle neuroscienze dove, come in una guerra di posizione, invece di scontrarsi in campo aperto si passa più tempo a fortificare trincee e chiedere fondi. Non diversamente dalla fortezza Bastiani nel romanzo di Dino Buzzati, i più non sembrano cercare il corpo a corpo con il nemico reale, limitandosi a esercitazioni durante le quali assegnano medaglie e mostrine che hanno la sola funzione di giustificare il conseguimento di titoli e premi. Nella ricerca neuroscientifica della coscienza il nemico che non si può mai ingaggiare in battaglia è l’hard problem della coscienza, e un’armata di neuroscienziati e scienziati cognitivi, pur impegnandosi in manovre continue, non lo affronta mai direttamente.
Dal tempo delle ricerche pioneristiche dei grandi neurofisiologi tedeschi e italiani dell’Ottocento, si continua a cercare qualcosa che sia l’equivalente fisico della nostra coscienza. È stato trovato? No. Non si è mai superato il livello delle correlazioni (deboli) tra l’attività cerebrale e l’esperienza – un’idea ragionevole che circolava già nel Cinquecento ai tempi di Andrea Vesalio. A tutt’oggi non esiste una teoria che spieghi in modo comprensibile come e perché l’attività chimica ed elettrica di un sistema nervoso debba o possa diventare qualcosa di totalmente diverso come sensazioni, percezioni, emozioni e pensieri. La coscienza rimane un miracolo misterioso al pari della trasformazione dell’acqua in vino o la comparsa del genio allo strofinare della lampada di Aladino.
La coscienza rimane un miracolo misterioso al pari della trasformazione dell’acqua in vino.
Una nota personale non del tutto inutile: il sottoscritto è stato presente a tutti i convegni internazionali sulla coscienza sin dal 1994, anno fatidico nel quale un nutrito gruppetto di scienziati celebri (da Gerard Edelmann a Francis Crick, da Roger Penrose a Daniel Dennett) diede risalto alla coscienza in quanto problema scientifico. Da allora siamo andati avanti? No. L’orizzonte della coscienza rimane sempre irraggiungibile e, da un punto di vista empirico, nessun reale passo avanti è stato fatto. Per corroborare questa affermazione ricordo che, venticinque anni fa e a nome delle neuroscienze, Cristoph Koch scommise che si sarebbe scoperto il meccanismo con cui la fitta rete di neuroni del nostro cervello produce la coscienza entro il 2023. A fine giugno dell’anno fatidico, sul palco del 26° Congresso della Association for the Scientific Study of Consciousness tenutasi a New York, Koch ha ammesso di aver perso la scommessa.
Una dimostrazione ancora più convincente è fornita (involontariamente) da due recenti articoli programmatici delle prestigiose riviste Science e Nature Review Neuroscience, che userò come rappresentazione emblematica dello stato attuale delle neuroscienze per quanto riguarda lo studio empirico della coscienza. Il mio obiettivo è rendere palese come le neuroscienze si trovino in uno stallo mascherato da ricerca scientifica per sostenere una politica della ricerca fine a se stessa. Entrambi gli articoli sono scritti per proiettare una luce ottimistica sui progressi fatti dalle neuroscienze in “decenni di fruttuosa ricerca” e per giustificare ulteriori finanziamenti indicando “promettenti nuove linee di ricerca”.
Nel primo dei due articoli, alcuni dei più autorevoli neuroscienziati al mondo – Lucia Melloni, Liad Mudrik, Michael Pitts e Christof Koch – ammettono che, nonostante i presunti progressi empirici, “le ipotesi avanzate dalle diverse teorie fanno affermazioni e previsioni divergenti che non possono essere tutte contemporaneamente vere”. È un’affermazione sorprendente: da un lato queste teorie avrebbero un supposto supporto empirico e dall’altro non sarebbero tutte vere. Che la natura sia schizofrenica?
L’orizzonte della coscienza rimane sempre irraggiungibile e, da un punto di vista empirico, nessun reale passo avanti è stato fatto.
D’altronde, come testare una teoria neuroscientifica sulla coscienza dopo che si è assunto che non sia osservabile? La reazione delle neuroscienze è corporativa: si prendono in considerazione solo “le teorie che sono espresse in termini neurobiologici o che sono in grado di fare affermazioni esprimibili in termini neurobiologici”, si può leggere nel secondo dei due articoli qui in esame. È singolare che gli autori di questi articoli invochino come metodo di analisi una strategia definita adversarial collaboration o “cooperazione competitiva” tra le scuole di pensiero: in pratica, un torneo tra meritevoli.
Gli autori selezionano teorie influenti che secondo loro sarebbero degne di utilizzare il grosso dei finanziamenti. Per esempio, scelgono la teoria dello spazio di lavoro neuronale, o GNWT, e la teoria dell’informazione integrata, o IIT. Sono indubbiamente teorie interessanti che hanno permesso, negli ultimi venti anni, di formulare esperimenti. Ma per quel che riguarda la coscienza, che cosa hanno detto? Sostanzialmente nulla perché, al problema vero della coscienza, hanno sostituito altri fenomeni più trattabili interni alle neuroscienze.
In proposito è istruttivo vedere come il problema stesso della coscienza viene posto. Nel primo degli articoli in esame, gli autori si chiedono “dove sono le impronte anatomiche della coscienza nel cervello? Sono localizzate nella zona calda della corteccia posteriore come sostiene la IIT o sono collocate nella corteccia prefrontale come predice la GNWT?”. Notate che la coscienza non è mai oggetto di osservazione diretta, ma solo le sue “impronte anatomiche” che, ovviamente, sono decise dalle teorie in gioco e quindi non dimostrano, di per sé, nulla. Il fatto che determinati processi neurali avvengano in una zona piuttosto che un’altra del cervello non dice perché tali processi dovrebbero diventare o produrre qualcosa di imprevisto, perfino incongruo, come la coscienza. È il solito gioco retorico, una specie di red herring: si baratta il problema vero con un problema alternativo che riceve tutta l’attenzione anche se non spiega nulla. Si tratta ancora una volta del “primo passo”, sempre sul posto però.
Come testare una teoria neuroscientifica sulla coscienza dopo che si è assunto che non sia osservabile?
È un approccio che soffre di quella che viene chiamata la “fallacia del fantoccio”: invece del problema difficile se ne propone un altro, il fantoccio, che è abbastanza difficile da richiedere anni di lavoro e però abbastanza trattabile da poter essere affrontato all’interno dei metodo disponibili oggi. Un po’ come nella vecchia barzelletta in cui l’ubriaco cercava la chiave sotto il lampione dove sapeva di non averla persa, ma dove almeno ci vedeva benissimo. Tuttavia, in questo modo di ragionare, tra i processi neurali proposti come spiegazione e la manifestazione della coscienza rimane un gap che non viene mai colmato: le spiegazioni avanzate sono un obscurum per obscurius.
Prendiamo, per esempio, la citata IIT che propone un’identità tra informazione integrata e coscienza. La teoria spiega perché l’informazione integrata corrisponda alla coscienza? Assolutamente no, e nemmeno spiega perché il mondo fisico contenga un ingrediente addizionale come l’informazione integrata. Laddove c’era un mistero (la coscienza) adesso ce ne sono due (la coscienza e l’informazione integrata). Tuttavia, proponendo qualcosa di difficile come l’informazione integrata che richiederà anni di ricerche per essere compresa, si sposta il bersaglio sul fantoccio, che ricade dentro la cornice concettuale di riferimento e quindi può essere proposto come tema di ricerca. La coscienza, che sarebbe il vero problema da risolvere, resta fuori, ma intanto si lavora e si fa scienza sull’informazione integrata.
In questo spirito, nel primo dei due studi sotto analisi gli autori spostano l’enfasi sulle politiche della ricerca sostenendo che le teorie proposte “hanno l’obiettivo di […] cambiare la sociologia della pratica scientifica in generale. Risolvere grandi questioni potrebbe richiedere big science perché tali questioni sono più probabilmente risolte collettivamente piuttosto che attraverso tentativi isolati, paralleli e su piccola scala. L’approccio della cooperazione competitiva si basa sul successo di istituti collaborativi su larga scala”. È un modo di intendere la politica della scienza che ricorda da vicino le manovre fittizie dei generali di Buzzati: lo scopo non è arrivare alla coscienza, ma tutelare i gruppi di ricerca riorganizzando la gestione dei finanziamenti. Non è affatto garantito che, operando in condizioni di big science, i neuroscienziati abbiano maggiori chance di avere un’intuizione decisiva.
Invece del problema difficile se ne propone un altro, il fantoccio, che è abbastanza difficile da richiedere anni di lavoro.
E il problema della coscienza? Non importa se non si raggiungerà né oggi, né domani, né mai: “per quanto riguarda le teorie iniziali sottoposte da questi approcci”, continuano gli autori del primo studio, “potrebbe essere che né la GNWT né l’IIT siano del tutto corrette. Indipendentemente dal risultato, il campo di ricerca può utilizzare i risultati per fare progressi nell’inquadrare un nuovo modo di pensare la coscienza e testare altre teorie potenziali allo stesso modo. Il problema della coscienza rimarrà sicuramente difficile, ma la comprensione dell’antico problema mente-corpo diventerà un po’ più facile”. Non si vede perché questo attivismo dovrebbe rendere le cose più facili, a meno che non ci si muova lungo una direzione nuova. Come scriveva Robert Musil nell’Uomo senza qualità (1930), “quando succede continuamente qualcosa, si ha l’impressione di produrre qualche cosa di reale”: si tratta di un’impressione che, per quanto incoraggiante, non ha prodotto risultati concreti nelle neuroscienze.
In modo analogo, nel secondo dei due articoli qui esaminati, Anil Seth e Tim Bayne presentano un quadro positivo della ricerca suggerendo di sostituire il vero problema con tanti problemi più piccoli, ma più maneggevoli (un tesi cara a Seth). Secondo i due autori, “negli ultimi anni c’è stata una fioritura di teorie sulle basi biologiche e fisiche della coscienza” e tuttavia, “nel caso della coscienza, non è chiaro come le teorie attuali siano in relazione o se possano essere valutate empiricamente”. Ancora una volta, di fronte a uno stallo scientifico, la soluzione avanzata è la cooperazione competitiva tra i candidati visti sopra, GWNT e IIT (più altri due, in questo caso).
Seguendo questa strategia, gli autori promettono che “ci sono buoni motivi per pensare che lo sviluppo iterativo, la verifica e il confronto tra teorie della coscienza porterà a una comprensione più profonda del mistero dei misteri”. In breve, a detta dei critici, le neuroscienze non hanno alcuna idea di quello che stanno facendo, ma emettono una cambiale epistemica (per usare la famosa espressione di Daniel Dennett): tanti “spiegherò” garantiti dall’autorità della disciplina nel suo complesso. È come un grande istituto di credito che si è distinto in un certo settore e che per questo convince i suoi investitori a dargli fiducia in un altro campo.
Di fronte a uno stallo scientifico, la soluzione avanzata è la cooperazione competitiva tra le maggiori teorie.
In modo molto simile all’altro articolo, Seth e Bayne descrivono una disciplina nella quale, stranamente, “invece di eliminare ipotesi contrapposte, all’aumentare dei dati empirici [le ipotesi] sembrano moltiplicarsi”. Per i due autori non si tratta di un sintomo che induca a sospettare qualcosa di sbagliato nelle premesse, semmai è il segno che teorie diverse hanno “obiettivi scientifici diversi”, come se questo fosse accettabile. Sebbene “la coscienza resti scientificamente controversa”, scrivono i due autori, “c’è ogni ragione per pensare che lo sviluppo di nuove teorie e il loro confronto porterà a una maggiore comprensione di questo mistero tanto profondo” (this most profound of mysteries). Se non è questa una cambiale epistemica!
Nei due articoli si vede bene che, non sapendo come affrontare direttamente il problema della coscienza, molti neuroscienziati tentano strategie alternative per aggirarlo. La più gettonata, come si è visto, è la cooperazione competitiva per confrontare teorie alternative sulla base di regole ad hoc. Un po’ come nelle esercitazioni militari quando, invece di conquistare un nemico reale, si gareggia in modo rituale per stabilire un vincitore. Eppure, nella scienza, il confronto deve avvenire prima o poi con la realtà empirica: la ricerca non dovrebbe essere soltanto un confronto tra teorie, ma anche tra le ipotesi e il mondo reale. Lo scienziato sottopone le sue teorie alla prova dei suoi pari, ma anche della natura.
La strategia della cooperazione competitiva invocata per superare l’attuale stallo delle neuroscienze ricorda un analogo caso storico: il problema della genesi dei continenti agli inizi del Novecento. Nessuno capiva come fosse possibile che continenti anche lontanissimi e separati da oceani esibissero una sorprendente omogeneità sia nelle specie animali che nelle serie litologiche. Anche allora, per decenni, si continuarono a proporre teorie inconcludenti che difendevano ipotesi ad hoc per salvaguardare gli assunti accettati dalla comunità scientifica (tra tutti, la fissità dei contenti).
Sembra che nelle neuroscienze, all’aumentare dei dati empirici, le ipotesi contraddittorie si moltiplichino anziché diminuire.
Negli anni Trenta, i geologi americani guidati da Thomas Chamberlin dedicarono risorse e finanziamenti al metodo delle “ipotesi multiple di lavoro”: ogni ricercatore valutava le osservazioni geologiche secondo teorie tanto diverse quanto inefficaci. Questa strategia, fa notare lo storico Greene Mott, non era un metodo di indagine, ma “uno strumento retorico per attaccare chiunque osasse proporre idee diverse da quelle ammesse dalla comunità dei geologi all’interno della lista accettata delle ipotesi multiple di lavoro”. La presenza di ipotesi multiple dava l’impressione che i geologi considerassero tutte le possibilità, mentre nella pratica queste ipotesi non mettevano in discussione l’assunto di base della fissità dei continenti. Non a caso la soluzione arrivò da uno studioso che era estraneo a quella comunità e che poteva considerare qualcosa di veramente rivoluzionario: la deriva dei continenti.
È facile leggere la storia passata della scienza conoscendone l’esito finale, è difficile fare lo stesso guardando alle ricerche attuali. Eppure, il caso della coscienza sembra offrire un esempio da manuale. L’approccio delle neuroscienze alla coscienza, ben rappresentato dai due articoli presi in esame, presenta molti dei sintomi che, secondo Thomas Kuhn, preannuncerebbero un imminente cambio di paradigma: accumulazione di anomalie che la comunità scientifica tende a ignorare, perdita di fiducia in una vera soluzione, ripetuti fallimenti, politica del “primo passo”.
Per quel che riguarda la perdita di fiducia, quale migliore dimostrazione della scelta del termine hard problem? Ma è importante anche considerare il primo punto – le anomalie – perché permette di scoprire che, al progredire delle tecniche di indagine, l’elenco dei fatti inspiegabili è aumentato. Si tratta di anomalie che vengono sistematicamente ignorate o messe da parte, in attesa di ulteriori dati. Questo atteggiamento è rivelatore: se un dato sperimentale non conferma i pregiudizi della comunità scientifica viene accantonato nella speranza che ulteriori osservazioni lo neghino.
La strategia della cooperazione competitiva invocata dalle neuroscienze ricorda il problema della genesi dei continenti agli inizi del Novecento.
L’attuale paradigma dominante nella comprensione della coscienza da parte delle neuroscienze ha accumulato, nel corso degli anni, numerosi fatti apparentemente inspiegabili che sono rimasti tali. Ne cito qualcuno: l’indipendenza dell’esperienza dalla configurazione neurale nel noto fenomeno del representational drift dove i neuroni associati all’esperienza di un certo odore cambiano senza che l’esperienza si modifichi; l’assenza di contenuti esperienziali che non siano causati da un fenomeno fisico esterno; la stabilità dell’esperienza percettiva al variare dello stato interno di aree corticali e cervello; la persistenza di immagini consecutive o afterimage in assenza del persistere di una stimolazione; l’epifenomenicità della coscienza che sembra non aver alcun ruolo causale e quindi essere incompatibile con la teoria dell’evoluzione; la stupefacente invarianza della percezione dei colori nonostante l’estrema variabilità dei fotorecettori; l’incredibile tolleranza ad alterazioni anatomiche; infine la ben nota, ma non meno misteriosa separazione anatomica, neurale e funzionale tra gli emicampi visivi sinistro e destro e la totale coesione e omogeneità della nostra esperienza visiva.
Alcune di queste anomalie sono così familiari da essere diventate invisibili, come la punta del naso, ma non sono per questo meno problematiche. È istruttivo considerare meglio l’ultima: l’unità del campo visivo. Fin dai primi del Novecento, si è capito che i segnali provenienti dagli occhi sono divisi in modo da mandare all’emisfero sinistro quelli relativi all’emicampo destro e viceversa. Le parti del cervello che ricevono questi segnali non sono collegate e funzionano, anatomicamente, come se fossero due organi diversi. In teoria, l’emisfero destro vede il mondo alla sinistra e l’emisfero sinistro quello alla destra. Ma noi vediamo l’intero campo visivo senza interruzioni, discontinuità o sovrapposizioni. Come sarebbe possibile se il mondo che vediamo fosse generato, come suppongono le neuroscienze, all’interno del cervello? Chi è che vede il totale? È un’anomalia inspiegabile almeno per le prime parti della visione.
Come sarebbe possibile vedere l’intero campo visivo se è generato all’interno del cervello? Chi è che vede il totale?
Questi casi sono normalmente ignorati come se fossero eccezioni in attesa di una spiegazione, ma non lo sono. Al contrario rappresentano la norma. Niente nei dati neurali in quanto tali implica che, oltre all’attività elettrochimica, ci sia un fenomeno addizionale quale la coscienza. La presunta localizzazione della coscienza all’interno del cervello non consegue da alcun fenomeno misurato nel sistema nervoso: non ci sono fatti neurali misteriosi in attesa di una spiegazione. La ricerca della coscienza all’interno delle pieghe corticali dipende soprattutto dal paradigma che i ricercatori accettano implicitamente, ma raramente esplicitano, perché rientra in quei pregiudizi che, secondo il filosofo Alfred N. Whitehead, “in ogni epoca sono presupposti inconsciamente da tutti gli aderenti a una comunità scientifica e sono così ovvi che le persone non sanno di averli perché non hanno mai formulato i loro problemi in altro modo”. Sono quegli assunti che l’astronomo Johannes Kepler definiva “i ladri del mio tempo” e che Albert Einstein chiamava “le ipotesi non dette che, proprio perché mute, governano segretamente il nostro pensiero impedendoci di progredire”.
Alla base della ricerca delle neuroscienze non vi è un solo dogma, ma ben due, che potremmo considerare il “credo” delle neuroscienze. Il primo postula che soggetto e mondo siano separati, il secondo che la coscienza sia all’interno del corpo. Dovrebbe essere chiaro che questi due dogmi – che potremmo chiamare, con un calembour, il paradogma delle neuroscienze – non sono frutto né di osservazioni empiriche né di ragionamenti teorici, ma sono la glorificazione del senso comune che immagina un soggetto separato dal mondo e interno al corpo. È questa un’idea popolare che in passato aveva generato il discreditato modello dell’omuncolo, e che oggi è riproposta in termini di modelli della coscienza o della mente interni al cervello.
Ma se il dogma è così infruttuoso e pieno di anomalie, come mai continua a dominare l’orizzonte della ricerca? Il motivo principale è che i neuroscienziati non sono abituati a ricevere domande da esperti di altri campi disciplinari che non condividono i loro assunti. Le controversie, quando vengono alla luce, non mettono in discussione il paradigma che rimane la base irrinunciabile dalla quale partire. Ci sarebbero molti altri aspetti che caratterizzano in modo negativo lo stato della ricerca sulla coscienza nelle neuroscienze: la non falsificabilità dei metodi proposti, il rifiuto dogmatico di alternative sulla base di criteri che sarebbero fatali alle ipotesi accettate all’interno delle neuroscienze, il procedere per postulati che non rispondono alle domande empiriche, i progressi nel campo dell’intelligenza artificiale che mettono in discussione ipotesi consolidate. Non possiamo qui trattarli tutti.
Esiste un’alternativa a questa autarchia epistemica delle neuroscienze?
Piuttosto poniamoci una domanda positiva: esiste un’alternativa a questo stato di cose? Esiste un’alternativa a questa autarchia epistemica delle neuroscienze? Sì, c’è, ed è quella strategia che il Galileo teatrale di Brecht aveva dichiarato e che il Galileo storico di Pisa aveva applicato: individuare tutti i pregiudizi che condizionano il nostro modo di affrontare un problema e metterli in discussione. Per riuscire in questa impresa, si deve essere liberi di muoversi al di fuori dei limiti delle scuole di pensiero e saper guardare, come l’uomo dell’incisione di Gustave Flammarion, fuori dal cielo delle stelle fisse del paradigma dominante.
Una domanda che raramente i neuroscienziati si sentono porre e che dovrebbe essere all’inizio di qualsiasi ricerca sulla coscienza è la seguente: dentro il sistema nervoso centrale si è mai trovato niente che, se non si assumesse che la coscienza è generata al suo interno, ne suggerirebbe l’esistenza? La risposta empiricamente onesta è negativa. In altri termini, in tutta la storia delle neuroscienze, la coscienza non è mai stata un oggetto interno di ricerca o qualche cosa che fosse suggerito o implicato dall’attività neurale. Non a caso, per molto tempo, i neurofisiologi non ne hanno parlato.
Il caso della coscienza nell’ambito delle neuroscienze, che vede una disciplina impegnata nella ricerca di un fenomeno che non solo non fa parte dei suoi dati empirici ma non è nemmeno suggerito dalla teoria, è forse un caso unico nella storia della scienza. Nella altre discipline ci si occupa di circostanze che emergono all’interno delle osservazioni: un esempio classico rimanda a quando, nella prima metà dell’Ottocento, Alexis Bouvard pubblicò il primo studio dei parametri orbitali di Urano, accorgendosi di come la traiettoria osservata divergesse dalle previsioni. Il problema venne risolto prima teoricamente da Urbain Le Verrier e poi sperimentalmente da Johan Gottfried Galle che, puntando il telescopio dell’Osservatorio di Berlino, scoprì un pianeta non ancora visto, Nettuno. Il punto rilevante qui è che il problema astronomico era nato all’interno dei dati astronomici: c’era un pianeta, Urano, che non si muoveva come doveva.
Il problema della coscienza non nasce all’interno delle neuroscienza, ma al suo esterno.
Un altro esempio è il bosone di Higgs, che è stato inizialmente proposto come meccanismo per dare la massa alle particelle subatomiche. Il modello standard delle particelle non riusciva a spiegare come certe particelle potessero avere massa e il campo di Higgs (di cui il famoso bosone è la conferma) rispondeva a questa domanda che è nata dentro il modello standard delle particelle. Nel caso delle neuroscienze, invece, non ci sono fenomeni all’interno dei dati neuroscientifici che richiedano una spiegazione. C’è qualche cosa nel cervello che le neuroscienze non sanno spiegare? La risposta è negativa. Il problema della coscienza non nasce all’interno delle neuroscienza, ma al suo esterno. Per capire come mai si dovrebbe chiedere aiuto alla sociologia della scienza di Bruno Latour, quando non alla psicoanalisi.
Diceva Einstein che la pazzia è continuare a ripetere le stesse cose sperando che portino a un risultato diverso: che dire di una disciplina che sta ripetendo gli stessi approcci da circa 150 anni? Certo, per Nietzsche la pazzia è la regola nelle organizzazioni, ma qui l’impressione è che la follia abbia una sua concreta finalità. Ci sono molti interessi in ballo, e sembra veramente ingenuo regalare alle neuroscienze una posizione centrale in un gioco la cui posta è la nostra natura. Le teorie della coscienza toccano la nostra essenza più intima e sono la base dei sistemi politici, giuridici ed economici come d’altronde è sempre avvenuto da Platone a Hobbes, da Hegel fino a oggi. Ovviamente la ricerca scientifica non deve essere condizionata dalle nostre aspettative sociali, ma non è nemmeno accettabile un monopolio dogmatico da parte di una disciplina che, finora, non ha portato alcuna conferma empirica ai suoi “spiegherò”.
I dogmi impliciti delle neuroscienze, riconducendo l’esistenza a processi neurali caratterizzati da una coscienza epifenomenica e non osservabile, riducono l’esistenza umana a fatto privo di valore, al di là delle dichiarazioni di principio regolarmente pronunciate da celebri neuroscienziati per rendere questa riduzione meno deprimente. La riduzione della coscienza a proprietà epifenomenica dei processi neurali toglie valore alla nostra esistenza perché i processi neurofisiologici, in quanto tali, non hanno alcun valore (e non ce l’hanno perché sono mezzi dell’esistenza, né fini né costitutivi di essa).
Le teorie della coscienza toccano la nostra essenza più intima e sono la base dei sistemi politici, giuridici ed economici.
Se la felicità non fosse niente altro che un’elevata concentrazione di serotonina, potremmo prenderla sul serio? Il fine dell’esistenza umana potrebbe essere la proliferazione di sistemi nervosi traboccanti serotonina? Pare discutibile. I processi neurali sono indubbiamente il mezzo per la nostra esistenza, ma non possono esserne il fine.
La coscienza è il problema cruciale per la nostra esistenza e la sua riduzione, se errata, svuoterebbe di senso il nostro vivere. Se la nostra esistenza non fosse altro che una cascata di reazioni elettrochimiche, non avrebbe più alcun valore, anche perché il sistema nervoso è parte del mondo fisico e il mondo fisico, così recita la vulgata scientifica, ne è privo. Il paradigma delle neuroscienze conduce a un vuoto relativismo dove l’egoismo si accartoccia in un punto senza dimensioni.
È questo il grande bluff delle neuroscienze: proporre una pseudo-soluzione al problema della coscienza, giustificando tale scambio sulla base della propria autorità e le proprie cambiali epistemiche sulla base di un credito scientifico accumulato in altri campi. Un credito che serve alla difesa del proprio duplice dogma, il quale a sua volta legittima un eterno primo passo, ma un passo che rimane sul posto. Fingere di muoversi rimanendo fermi: un grande bluff.