I l 13 maggio ricorrono i 40 anni dall’approvazione della cosiddetta Legge Basaglia (legge 180): da giorni si susseguono sulla stampa commemorazioni e ricordi, spesso commoventi, che tendono a isolare come irripetibile la grande rivoluzione compiuta nel 1978, ma il rischio è che, come in ogni anniversario, malgrado i numerosi approfondimenti, la “legge che ha chiuso i manicomi” rimanga inchiodata alla sua icona, la sequenza di un film epico o tragico a seconda di chi lo racconta perdendo così la sua funzione più importante e radicale: quella di essere, ieri come oggi, il metro su cui misurare la mutabilità del concetto di follia e la nostra possibilità di prenderci cura della malattia mentale, come corpo sociale, nella sua interezza. La 180 infatti ha resistito perché ha incontrato i bisogni di una società in trasformazione, ma anche perché è stato possibile interpretarla in maniera restrittiva, come un provvedimento dedicato ai soli “matti”.
Vorrei provare, dunque, a superare l’ingorgo celebrativo per riportare alla luce alcune questioni nevralgiche che mi stanno a cuore, come storica, ma soprattutto come essere umano, come avrebbe detto Franco Basaglia, perché il fantasma del manicomio continua ad aleggiare nella società, la contenzione è praticata, l’elettroshock pure. E gli psicofarmaci sono diventati il nuovo manicomio chimico.
Per farlo torniamo, allora, alla primavera del 1978: sta per essere discussa in Senato la riforma del sistema sanitario nazionale, non più mutue e province a gestire la salute dei cittadini ma un sistema integrato nazionale che delega alle regioni la sua attuazione.
Dentro il decreto legge anche le misure che abrogano la legge 36 del 1904, quella che disegna in Italia la “carriera del malato di mente”, dell’alienato, del matto.
Matto è in primo luogo chi dà pubblico scandalo, per questo il deviante è schedato, rinchiuso, e molto spesso rimane tutta la vita fra le mura di un OP, un ospedale psichiatrico.
La riforma della sanità prevede, fra le altre cose, anche l’abrogazione della legge del 1904 e alcune nuove misure per il superamento del sistema manicomiale attraverso la creazione di strutture territoriali che, riportando il malato nella società che l’ha etichettato come tale, consentano una guarigione che non sia solo la sua ma di tutta la polis.
“Tutti devono essere promotori di salute, non di malattia, dentro la scuola, dentro la famiglia, dentro i luoghi di lavoro”.
Così, almeno, la pensa Franco Basaglia che dal 1961, ovvero dal suo arrivo come direttore al manicomio di Gorizia, ha capito che l’OP non cura ma distrugge gli esseri umani. Il manicomio è la malattia. Seguono anni di sperimentazioni oggi dimenticate (i favolosi anni ’60 sono stati anche questo): la comunità terapeutica, le assemblee, una consapevolezza che si allarga a macchia d’olio in tutta Italia, la Rai Tv che abbraccia in pieno la causa fino alla messa in onda nel 1969 del documentario su Gorizia I giardini di Abele di Sergio Zavoli (20 milioni di spettatori in due serate), amministrazioni provinciali a Parma, Arezzo, Perugia che avviano, praticamente, il passaggio dall’ospedale al territorio, la prima riforma nel 1968 voluta dal ministro socialista Mariotti e infine la chiusura del primo manicomio, a Trieste, nel 1977.
Se ne è stato chiuso uno significa che si può fare e che presto saranno chiusi anche tutti gli altri.
Torniamo allora a quella primavera del 1978, al clima concitato di quei giorni. Il partito radicale ha proposto alcuni referendum, sull’abrogazione della legge Reale sull’ordine pubblico e sulla cancellazione della legge 36 del 1904, quella sui manicomi. Se dovesse passare gli OP scomparirebbero subito, senza alcuna gradualità. Ma se non dovesse passare?
Il clima che si respira nel paese non sembra favorire provvedimenti di questo tipo: a marzo è stato rapito Aldo Moro e il paese è lacerato da paure e un desiderio neanche troppo nascosto di ritorno all’ordine.
C’è chi teme che se il referendum radicale dovesse essere sconfitto, di fronte a un no alla chiusura dei manicomi, tutto sarebbe bloccato per sempre (il timore non è infondato: di lì a poco, infatti, gli elettori respingeranno a larga maggioranza l’abrogazione dell’ergastolo).
Il parlamento dunque deve affrettarsi, per evitare il quesito referendario. La legge va votata entro l’11 maggio mentre il 9 maggio il cadavere di Aldo Moro viene ritrovato in un portabagagli a via Caetani, Giulio Andreotti è il presidente del Consiglio e tutto annuncia un brusco dietrofront sulla questione diritti.
Viene stralciata dal DDL sulla riforma sanitaria, dunque, una legge quadro, la numero 180, relatore il democristiano Bruno Orsini: si intitola Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori. Undici articoli, come quelli della 36 del 1904, che dicono però esattamente il contrario: nessuno può essere rinchiuso in manicomio per uno stigma sociale, anzi da quel momento in Italia nessuno potrà essere più ricoverato in un OP, perché nessun OP potrà più essere costruito, aperto, mai più in nessun luogo.
Mentre i pazienti già ricoverati dovranno essere dimessi, gradualmente, e ricollocati in strutture territoriali come le case famiglia aperte dalle regioni. In relazione con la famiglia, qualora questa vi sia, ma non a spese sue.
“Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza”. Franca Ongaro Basaglia, 19 settembre 1978.
Ma così avviene solo là dove già si era iniziato a farlo, nel resto d’Italia no perché una legge quadro significa questo: lo stato dà delle linee guida, poi ogni regione le attua come meglio crede, come meglio può, come meglio vuole.
Da Trieste Franco Basaglia viene chiamato a Roma a coordinare i servizi psichiatrici del Lazio. Sa bene che la legge 180 ha dei limiti seri (il suo dispositivo è ancora troppo psichiatrizzante, dice) ma crede di avere tempo per lavorarci su; intanto la scossa al manicomio è stata data, una volta per tutte. Crede. Ma quello che trova nel Lazio ha bisogno di ben altro che una scossa. Negli stessi OP convivono reparti aperti dove si portano i pazienti all’esterno, in gita in montagna (succede al Santa Maria della Pietà) ma anche reparti dove si praticano ogni forma di contenzione e “cura” tradizionale. Medici entusiasti e medici preoccupati perché ora i malati di mente dovranno condividere i reparti con gli altri malati “normali”, medici radicalmente contrari, convinti che quella basagliana sia una moda passeggera e pericolosa (fra questi Mario Tobino, scrittore e psichiatra, che dall’OP di Lucca osserva e interviene). E poi c’è il sud, che non è quello di Sergio Piro che da dieci anni ha avviato la comunità terapeutica a Napoli ma quello di Bisceglie, Girifalco, e degli OPG di Messina e Aversa. Veri e propri gironi infernali.
Serve tempo. Ma nel 1980, Basaglia muore a soli 56 anni. Non ha avuto il tempo di cui aveva bisogno. Mentre la verifica della legge è già iniziata, i risultati sono contraddittori: molto positivi là dove le persone sono motivate ma soprattutto sorrette dalle istituzioni, molto negativi dove mancano queste condizioni. Solo che nel discorso pubblico inizia a farsi largo il canone che ancora oggi prevale: la 180 è una legge “troppo avanzata” per un paese ancora in gran parte arretrato. Come se nel 1946 qualcuno avesse detto che la Repubblica andava bene ma solo per pochi italiani. O che la Costituzione valeva solo per chi sapeva leggere e scrivere. Troppo avanzata?
La 180, come la Costituzione, è un dispositivo progressivo, segna la strada, ai politici agli amministratori ai cittadini la responsabilità di attuarla.
Così l’attuazione varia incredibilmente da regione a regione: se in Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Emilia Romagna, Umbria si continua su esperienze già intraprese da anni, a Roma la procura avvia addirittura dei procedimenti penali contro i servizi sanitari per la mancata attuazione della legge. È il 1983. E le famiglie degli ex degenti iniziano a prendere la parola in modo spesso drammatico: nell’archivio Rai decine sono le interviste fatte anno dopo anno a madri, sorelle, esasperate dalle presunte responsabilità di una legge monca, scaricata sulle loro spalle, priva di una reale efficacia. Ma è davvero la legge il problema?
Si contrappongono così nell’immaginario collettivo i “basagliani” alle “famiglie” in una dialettica assurda che esclude gli unici responsabili veri della mancata attuazione della 180 in molte regioni italiane: i politici che non l’hanno finanziata, gli amministratori locali che hanno preferito erogare fondi alle cliniche private che subito vanno ad allargare l’offerta di nuovi manicomi “in convenzione”, i medici, gli infermieri che non ci hanno creduto mai, nemmeno un attimo e hanno continuato a praticare gli stessi metodi del manicomio, con l’aggiunta sempre più consistente degli psicofarmaci che oggi costituiscono le alte mura del nuovo OP universale (400 milioni di depressi nel mondo).
Dunque la domanda non è: la 180 ha funzionato? Ma: cosa abbiamo fatto tutti noi, ma soprattutto chi ne aveva la responsabilità, per farla funzionare, per rendere pratica condivisa una legge quadro votata in fretta, sì, ma frutto di due decenni di trasformazioni lente e verificate e possibili e dunque ripetibili? Cosa abbiamo fatto se ancora oggi, a 40 anni dalla legge, in molti pensano che la deospedalizzazione sia (stata) un’utopia? Troppo costosa per il sistema sanitario, troppo onerosa per le famiglie, troppo rischiosa per i pazienti.
Scrive lo psichiatra Piero Cipriano in Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (Eleuthera 2018): “si assiste (dico anche qui, nel nostro paese) a un continuo potenziamento dei luoghi hard dove si gestisce la crisi psichica (i reparti ospedalieri detti spdc, strabordanti di operatori: medici psicologi infermieri) e a uno svuotamento progressivo dei Centri di Salute Mentale, ridotti per lo più ad ambulatorietti gusci vuoti, poveri di operatori, demotivati, e invasi da un numero crescente di pazienti. Dunque, se questo è il principale ostacolo, la soluzione è insistere con la creazione di buoni servizi territoriali e comunitari, perché diventino ‘l’asse portante del sistema di salute mentale’, sostituendo progressivamente la centralità del manicomio o dell’ospedale generale, e dunque del modello biomedico. In ciò la legge 180 rappresenta il modello, sul piano legislativo, cui tendere, non solo nel resto del mondo, ma in Italia stessa”.
Un modello legislativo a cui tendere, ancora oggi, a 40 anni dalla sua approvazione.
E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: “è naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile.
Bertolt Brecht, L’eccezione e la regola, 1930.
Immagini: Fondazione Franco e Franca Basaglia.