P er curare ogni anno circa ottanta mila malati italiani di epatite C, il governo ha stanziato un miliardo e mezzo di euro da spendere in tre anni. A conti fatti, significa circa sei mila euro a paziente, da spendere quasi interamente per comprare i farmaci anti-epatite di ultima generazione. Sei mila euro per una cura di tre mesi possono sembrare un prezzo molto alto. In realtà, altri paesi negli ultimi anni hanno speso decisamente di più. Guarire dall’epatite con le stesse pillole negli Usa costa oltre ottantamila dollari. Anche in Italia, fino al 2014, il prezzo della terapia superava i quaranta mila euro.
Quando un farmaco raggiunge prezzi così elevati, di mezzo c’è quasi sempre un brevetto. I principi attivi, infatti, possono essere brevettati dal loro inventore. Poi, per vent’anni solo il titolare del brevetto o chi abbia acquistato la licenza per usarlo possono utilizzarlo a scopo commerciale, ad esempio per produrre il farmaco in questione. Il farmaco dunque sarà venduto in regime di monopolio, ciò che consentirà al venditore di imporre al mercato un prezzo assai elevato. Nel caso del sofosbuvir, il principio del farmaco anti-epatite più diffuso (Sovaldi), il brevetto è della casa farmaceutica statunitense Gilead Sciences.
Ma se il prezzo fissato è troppo alto, un governo deve necessariamente rinunciare a garantire ai cittadini il diritto alla cura? Il problema si pone sempre più spesso anche in paesi ad alto tenore di vita come il nostro. Il direttore dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) Mario Melazzini, ad esempio, pur di calmierare i prezzi si è detto pronto a concedere una licenza obbligatoria: “Se non accetteranno di ridurre i prezzi potremmo arrivare a chiedere al governo come estrema ratio l’applicazione degli accordi internazionali Trips del 2006, che in caso di emergenze di salute pubblica consentono agli Stati il ricorso alla licenza obbligatoria”. Cioè, è disponibile ad autorizzare un’azienda a produrre il farmaco senza il permesso della Gilead e a commercializzarlo a prezzi decisamente inferiori. In realtà, l’Aifa riuscirà a pagare solo sei mila euro a paziente per curare l’epatite C soprattutto perché nuovi farmaci con analoghe proprietà sono stati messi in commercio. Ma, almeno in linea teorica, la minaccia di Melazzini è reale.
La possibilità di concedere una licenza obbligatoria, infatti, esiste in tutti i principali stati industrializzati e non. In Europa, solo l’Islanda non prevede questa possibilità. Serve a garantire la disponibilità di un farmaco (o di un altro prodotto brevettato) allorché il brevetto ne limiti la diffusione. Alla licenza obbligatoria ricorrono soprattutto i Paesi in via di sviluppo, per garantire l’accesso alle cure anche a fasce di popolazione che non possono permetterselo. Ma capita anche nei paesi più sviluppati. Gli stessi Stati Uniti, che ospitano la principale industria farmaceutica al mondo, nel 2001 hanno dovuto minacciare il ricorso alla licenza obbligatoria per garantirsi le scorte di ciprofloxacina, l’antibiotico brevettato dalla Bayer efficace contro eventuali attacchi bioterroristici a base di antrace.
Se il prezzo fissato per un farmaco è troppo alto, un governo deve necessariamente rinunciare a garantire ai cittadini il diritto alla cura? Il problema si pone sempre più spesso anche in paesi ad alto tenore di vita come il nostro.
Il dibattito intorno ai brevetti e alle licenze obbligatorie era scoppiato pochi anni prima in Sud Africa, quando nel 1997 il governo introdusse una riforma del sistema sanitario per fronteggiare l’emergenza di Hiv. All’epoca, il 20% della popolazione sudafricana adulta risultava sieropositiva e e la terapia anti-retrovirale costava circa mille euro al mese, in una nazione il cui reddito pro-capite medio annuo non superava i 2.600 dollari. Nella riforma, il governo non emanava licenze obbligatorie, data l’assenza di industrie locali in grado di produrre i farmaci, con o senza brevetto. Per approvvigionarsi, il Sudafrica autorizzava però l’importazione parallela dei farmaci da paesi in cui erano commercializzati a prezzi più favorevoli.
Ben trentanove case farmaceutiche citarono congiuntamente in giudizio il governo sudafricano presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, poiché la riforma sanitaria violava gli accordi internazionali in materia di brevetti e copyright. Ne nacque una controversia internazionale che coinvolse governi, compagnie multinazionali (Big Pharma, da allora) e associazioni di pazienti: il diritto alla salute poteva giustificare la violazione di accordi economici internazionali?
La questione era meno scontata di quanto possa apparire. Se le ragioni umanitarie del Sudafrica sono evidenti a tutti, da parte loro le case farmaceutiche hanno sempre sostenuto che solo grazie ai brevetti è possibile investire i soldi necessari allo sviluppo di nuovi farmaci – circa 800 milioni di dollari per ogni nuovo principio attivo. Dunque, indebolendo i brevetti si garantisce l’accesso ai farmaci esistenti, ma si mette a rischio lo sviluppo di quelli futuri, a danno dei pazienti.
Nessuna giuria fu però chiamata a dirimere la controversia: nel 2001, le società farmaceutiche ritirarono la causa di fronte a una mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale straordinaria. Nel novembre dello stesso anno, l’Organizzazione Mondiale del Commercio si riunì a Doha per rivedere le norme internazionali sui brevetti.
Gli accordi Trips
Una causa come quella intentata dalle 39 corporation era una relativa novità. Solo da pochi anni, infatti, le normative sui brevetti avevano guadagnato un rango di legge sovranazionale a cui appellarsi. Al contrario, i brevetti avevano sempre legato il loro destino a quello delle singole nazioni. Sin dalle prime leggi della Venezia del Quattrocento, i brevetti servivano soprattutto a proteggere le industrie locali dalla concorrenza straniera: dunque, era normale che ogni Paese tutelasse con i brevetti le specialità nazionali e lasciasse grande libertà di imitazione sui prodotti di importazione. Nella Svizzera del XIX secolo, ad esempio, i prodotti dell’industria chimica tedesca venivano copiati selvaggiamente e addirittura rivenduti in Germania a prezzi competitivi.
Nel 1994 fu firmato uno storico accordo denominato ‘Trips’ per cui i paesi membri si impegnavano a uniformare le proprie leggi sui brevetti, rinunciando a utilizzarli come strumento di competizione mercantile.
La progressiva integrazione dei mercati e lo sviluppo di imprese multinazionali nella seconda metà del Novecento hanno mutato il quadro, a favore di accordi internazionali e a danno della sovranità locale. In seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio, cui oggi aderiscono tutte le principali potenze economiche nazionali, nel 1994 fu firmato uno storico accordo denominato “Trips” (da Agreement on Trade-related Aspects of Intellectual Property Rights, Accordo sui diritti di proprietà intellettuale relativi al commercio). I paesi membri si impegnavano a uniformare le proprie leggi sui brevetti, rinunciando dunque a utilizzarli come strumento di competizione mercantile. Come racconta lo straordinario Information Feudalism (“Il feudalesimo dell’informazione”) scritto da P. Drahos e J. Braithwaite nel 2002 per l’editore Earthscan di Londra, l’accordo fu promosso da un’intensissima attività di lobbying favorevole al rafforzamento della proprietà intellettuale a tutto danno dei paesi in via di sviluppo, i quali rinunciavano a un mezzo strategico per promuovere la crescita locale. Non a caso, tra i paesi che seppero utilizzare la pirateria intellettuale come volano di sviluppo economico vi fu la Cina, che aderì all’Organizzazione Mondiale del Commercio solo nel 2001.
Dopo la controversia sudafricana, le regole stringenti fissate nell’accordo Trips furono messe parzialmente in discussione. A novembre 2001, l’Omc si riunì di nuovo in Qatar per ratificare il principio secondo cui la proprietà intellettuale non debba mai impedire agli Stati di provvedere alla salute dei propri cittadini. Nel 2005, il principio fu tradotto in emendamenti alle norme Trips, in cui fu introdotto il diritto a emettere licenze obbligatorie anche allo scopo di esportare e importare farmaci sul mercato parallelo. L’Italia, ad esempio, tra il 2005 e il 2007 ha usato le licenze obbligatorie per produrre farmaci brevettati e esportarli sul mercato europeo. Il nostro paese, infatti, dispone di una ragguardevole industria farmaceutica nel settore dei generici: quei farmaci che, scaduto il brevetto, possono essere prodotti e venduti liberamente. Certo, non si tratta di un’industria particolarmente innovativa, e per dimensioni non è paragonabile alle industrie farmaceutiche di paesi come Usa, Germania, Svizzera o Francia. Sono passati, infatti, i tempi in cui l’industria farmaceutica italiana era la quinta al mondo. Erano gli anni ’70, e i brevetti sui farmaci non esistevano.
Quando il brevetto non c’era
Può sembrare impossibile, oggi che le industrie farmaceutiche spendono milioni di dollari per difendere i loro brevetti. Ma fino a pochi decenni fa, i farmaci non si potevano brevettare nella maggior parte dei paesi industrializzati. I brevetti farmaceutici furono introdotti solo nel 1967 in Germania, nel 1977 in Svizzera, l’anno successivo in Francia e Italia. Ciò non impedì agli stessi paesi di ospitare marchi farmaceutici del calibro di Bayer, Roche o Novartis. Gli economisti Michele Boldrin e David K. Levine, qualche anno fa, hanno dedicato un gustoso pamphlet al tema, dal titolo Abolire la proprietà intellettuale. Copyright e brevetti costituiscono un male inutile perché non generano maggiore innovazione ma solo ostacoli alla diffusione di nuove idee (Laterza, 2012). La loro analisi tiene in pochissimo conto le ragioni umanitarie che, nel caso sudafricano, deponevano a netto sfavore del sistema dei brevetti.
Fino a pochi decenni fa, i farmaci non si potevano brevettare nella maggior parte dei paesi industrializzati: i brevetti farmaceutici furono introdotti nel 1967 in Germania, nel ’77 in Svizzera, l’anno successivo in Francia e Italia.
Al contrario, sono proprio le ragioni del liberismo a suggerire a Boldrin e Levine che i brevetti siano inutili, quando non dannosi, come ogni monopolio che distorce il mercato: “a causa della generalizzazione dei brevetti farmaceutici (…) le grandi imprese farmaceutiche si sono abituate a operare come monopòli; i monopòli innovano il meno possibile e solo quando sono costretti a farlo; in generale preferiscono trascorrere il tempo ricercando rendite garantite dalla protezione politica”. Inoltre, come hanno evidenziato anche gli studi di Mariana Mazzucato di poco successivi (Lo stato innovatore, Laterza, 2014), “quasi tutti i nuovi farmaci realmente innovativi (…) sono nati in laboratori finanziati con fondi pubblici”, al di fuori del sistema brevettuale.
L’India
A spingere Melazzini lungo la strada della contestazione al brevetto sono stati anche alcuni casi di cronaca: diversi malati italiani, a cui il costo dei farmaci aveva impedito il diritto alla cura, si sono organizzati in proprio. Hanno contattato farmacie indiane, e per circa 600 euro (cioè oltre cento volte meno del costo della terapia negli Usa, e dieci volte meno del pur ottimistico piano dell’Aifa) hanno comprato il Sovaldi a prezzo locale. Oltre a essere guariti, dopo qualche traversia giudiziaria il comportamento dei malati è stato giudicato legittimo anche dai tribunali italiani.
In fondo, non hanno fatto altro che seguire un trend mondiale. Negli ultimi dieci anni, infatti, l’industria farmaceutica indiana ha guadagnato un ruolo centrale nella produzione di farmaci generici da esportazione. Nonostante dal 1985 aderisca al Wto, l’ex-colonia britannica ha mantenuto una notevole libertà di manovra proprio sui brevetti farmaceutici. Per promuovere l’industria locale, la tutela della proprietà intellettuale è assai blanda e fortemente influenzata dalla politica estera dell’ex-colonia. Fin qui, l’India sta ripercorrendo la strada che, durante la Rivoluzione Industriale, imboccarono Germania, Inghilterra o Stati Uniti. Ma la situazione indiana, da un altro punto di vista, è del tutto inedita. Insieme alla Cina, l’India rappresenta anche un enorme mercato da conquistare: nel 2050, secondo le principali proiezioni demografiche, l’India avrà scavalcato la Cina con la sua popolazione di un miliardo e settecento milioni di abitanti.
Perciò è proprio dal subcontinente che le principali aziende farmaceutiche sperano di trarre i maggiori profitti nei prossimi decenni e, pur di avere una presenza sul mercato indiano, ne accettano le regole, almeno nelle posizioni ufficiali. Nonostante i profitti perduti, le rappresaglie contro il governo indiano da parte dell’industria farmaceutica appaiono assai più timide. Nella globalizzazione economica, dunque, l’India riesce sia a cogliere i vantaggi degli stati emergenti, conquistando nuovi mercati con prezzi low cost, sia a comportarsi come potenza imperiale imponendo le proprie regole anche a Big Pharma.