U
no dei miei oggetti più cari, quando ero bambina, era una pietra levigata grande quanto il palmo della mia mano. Era un geode di agata che mi era stato regalato un giorno da mia madre e che, molto tempo prima, mio nonno aveva portato con sé di ritorno da un viaggio in Brasile all’inizio degli anni Settanta. Visto dall’esterno, non aveva nulla di eccezionale: era una pietra ovale e marroncina attraversata da sottili striature bianche e leggermente traslucida in alcuni punti. Scuotendola vicino all’orecchio, però, si poteva sentire distintamente il rumore di una goccia d’acqua che si muoveva racchiusa tra gli strati lisci e cerosi del calcedonio. Almeno nella mia immaginazione, ascoltare quel suono era un po’ come viaggiare nel tempo. La mia pietra non era affatto più antica di molti altri sassi da giardino ben più ordinari, ma il movimento del misterioso liquido al suo interno mi dava la sensazione di essere entrata in contatto con una forma primitiva di coscienza. Era come se la roccia inanimata fosse in realtà un organismo vivente, il cui sangue preistorico, non poi così diverso dal mio, continuava a scorrere silenzioso e nascosto al mio sguardo.
Il minerale della mia infanzia, ho scoperto anni dopo, era un enidro: una parola che in geologia designa i noduli di agata che racchiudono al loro interno residui antichissimi di acqua fossile. Queste formazioni geologiche si producono quando l’acqua satura di silice si infiltra in una cavità rocciosa nel sottosuolo, depositando al suo interno strati concentrici di materiale cristallino un po’ come fanno i bachi nei bozzoli di seta. Nel corso di questo processo, alcuni residui di quell’acqua possono restare intrappolati all’interno del bozzolo di roccia per decine di milioni di anni. La maggior parte degli enidri in circolazione si è formata nell’Eocene, tra i quaranta e i sessanta milioni di anni fa.
Uno degli aspetti più interessanti della teoria dell’evoluzione minerale è il rapporto di questa diversificazione geologica con lo sviluppo della vita biologica; rispetto al resto dei pianeti del sistema solare, infatti, la Terra possiede una “geo-diversità” assolutamente singolare.
“Cosa succede se la bevo?” è, prevedibilmente, la domanda sugli enidri che ricorre più spesso nei forum di mineralogia, come se l’ingestione dell’acqua che contengono fosse l’unica strada possibile per diventare in qualche modo partecipi dell’antichità incommensurabile del tempo geologico. Mentre consultavo uno di questi thread ho scoperto che, nel 2015, un’équipe composta da una geofisica e da un microbiologo ha estratto l’acqua di un enidro perforandone attentamente l’involucro roccioso con un trapano. Al microscopio, il campione ha rivelato minuscoli organismi cilindrici che ruzzolavano sbatacchiati qua e là dal moto incessante delle molecole d’acqua. “I microrganismi presenti nelle acque sotterranee al momento della formazione della roccia sono rimasti intrappolati nella cavità interna dell’agata, producendo una capsula del tempo microbica”, scrivono gli autori. A quanto pare, alcuni di quei batteri erano ancora vivi.
Forse perché siamo abituati a pensare ai corpi umidi come impermanenti e mutevoli, così come consideriamo i corpi rocciosi immuni allo scorrere del tempo, gli enidri sono oggetti strani, che perturbano la nostra visione ordinaria dei materiali inorganici. La loro struttura ci ricorda il nostro corpo organico perché instaura un confine tra l’interiorità e l’esteriorità; come negli organismi viventi, questa superficie non costituisce semplicemente una discontinuità nello spazio, ma anche, e forse soprattutto, una singolarità nel tempo. Con il trascorrere degli eoni, gli enidri conservano una traccia del loro passato nascosta nella materialità soffice delle loro strutture: non si limitano a disgregarsi ma crescono, si trasformano e ricordano.
I commercianti che vendono gli enidri sono soliti conservarli sommersi in grossi secchi d’acqua, un po’ come se fossero animali marini. Sanno che, una volta estratti e levigati, il loro prezioso nucleo liquido è sempre a rischio di prosciugarsi. Un giorno, dopo decenni di permanenza nel nostro mondo umano, l’acqua racchiusa nella mia amata agata ha smesso di scorrere. Gradualmente ma irreversibilmente, era evaporata attraverso le microscopiche fratture e le impercettibili porosità della roccia, esposta all’aria secca della superficie terrestre. Quando l’ho scossa vicino all’orecchio, non ho più sentito niente; era come se il suo cuore avesse improvvisamente smesso di battere.
Evoluzione minerale
In geologia, i minerali sono stati tradizionalmente classificati in base alla loro composizione chimica e alla loro struttura cristallografica. Un po’ come nella biologia pre-darwiniana, queste classificazioni tassonomiche veicolano una visione del mondo minerale come eterno e immutabile; una visione che non tiene conto delle circostanze in cui le diverse strutture minerali hanno potuto prendere forma. Il mineralogista Robert Hazen è da decenni un sostenitore appassionato dell’idea che l’approccio tradizionale allo studio delle rocce debba essere radicalmente rivisto. È stato il primo scienziato a introdurre la teoria dell’evoluzione minerale, cioè l’idea che i minerali, come gli organismi viventi, si siano evoluti nel corso della storia dell’Universo formando strutture sempre più complesse e diversificate via via che l’ambiente attorno a loro è cambiato.
Nel suo libro Breve storia della Terra (Il Saggiatore, 2018), Hazen racconta come un ristretto gruppo di “ur-minerali” primordiali, formatisi nello spazio a seguito dell’esplosione delle prime supernove, si sia gradualmente diversificato nel corso di miliardi di anni per generare tutte le altre forme minerali esistenti. Uno degli aspetti più interessanti della teoria dell’evoluzione minerale è il rapporto di questa diversificazione geologica con lo sviluppo della vita biologica; rispetto al resto dei pianeti del sistema solare, infatti, la Terra possiede una “geo-diversità” assolutamente singolare. Secondo uno studio condotto nel 2022 dallo stesso Hazen e dai suoi collaboratori, le specie minerali presenti sul nostro pianeta sono oltre undicimila, quasi il doppio delle circa seimila che erano state identificate in passato attraverso la classificazione mineralogica convenzionale. Più della metà di queste specie sono il prodotto, diretto o indiretto, della comparsa della vita sulla Terra.
Dall’aragonite contenuta nei coralli alla silice prodotta dalle alghe unicellulari fino all’idrossiapatite nei nostri scheletri, l’evoluzione biologica ha generato direttamente una varietà sorprendente di nuove strutture minerali. Ma, ancora prima della comparsa di queste forme relativamente recenti di “bio-mineralizzazione”, l’avvento della fotosintesi, con l’improvviso e catastrofico accumulo dell’ossigeno nell’atmosfera, ha reso indirettamente possibile la formazione di una grandissima varietà di strutture geochimiche che non sarebbero mai potute emergere nell’atmosfera della Terra primitiva.
I minerali terrestri devono alla vita biologica buona parte della loro diversità e complessità; allo stesso modo, fin dalle sue origini più remote, la vita è dipesa dal regno minerale per emergere e sopravvivere. Prima della comparsa della fotosintesi, i composti inorganici contenuti nelle rocce erano l’unica fonte di energia chimica disponibile; per questo, i primi organismi viventi erano batteri “litotrofi”, che si nutrivano delle sostanze minerali del pianeta. Non possiamo saperlo con certezza, ma è molto probabile che anche LUCA – Last Universal Common Ancestor, l’antenata universale di tutte le altre cellule viventi – fosse un organismo litotrofo: la sua vita biologica ha potuto nascere soltanto in sinergia con la roccia.
Da quando la scienza moderna ha cominciato a interrogarsi sulle origini della vita, l’idea del “brodo primordiale” – un presunto mare ancestrale contenente tutte le sostanze chimiche e le condizioni ambientali necessarie per la nascita spontanea della prima cellula vivente – si è radicata profondamente nel nostro immaginario. A corroborare questo mito delle origini ha contribuito più di ogni altra cosa il famosissimo esperimento di Miller-Urey, che, nel 1950, ha dimostrato che le molecole essenziali della vita possono formarsi spontaneamente in un ipotetico oceano primitivo. Per passare da una soluzione di molecole a un organismo, tuttavia, servono numerosi passaggi intermedi: se questa storia del “brodo” funziona bene per spiegare alcuni aspetti dell’origine della vita, non è altrettanto capace di giustificarne altri. La maggior parte dei fenomeni di auto-organizzazione alla base della vita biologica, infatti, non possono realizzarsi affatto in una “zuppa diluita”; e, anche ammettendo che sia potuta emergere, una fragile protocellula si sarebbe velocemente degradata se direttamente esposta alle intemperie di un oceano primordiale.
I minerali terrestri devono alla vita biologica buona parte della loro diversità e complessità; allo stesso modo, fin dalle sue origini più remote, la vita è dipesa dal regno minerale per emergere e sopravvivere.
Piuttosto che immaginare LUCA come una vescicola che vaga solitaria in un oceano vuoto, è molto più ragionevole immaginare che la vita sia nata in prossimità di una superficie solida. Negli ultimi decenni, diversi studi hanno suggerito che alcune specie minerali, in particolare le argille, possano aver svolto un ruolo cruciale nella nascita dei primi organismi viventi. Le argille sono materiali cristallini stratificati composti da sottili fogli di silicato che ospitano, un po’ come in una lasagna, atomi carichi di diversi elementi. Questi atomi possono essere facilmente scambiati con altri elementi presenti nell’ambiente, rendendo ogni particella di argilla potenzialmente unica sia nella composizione che nella struttura.
Uno dei motivi principali per cui è possibile che la vita sia emersa in prossimità delle rocce piuttosto che in un semplice “brodo” di componenti molecolari è il fatto che le superfici minerali sono in grado di assorbire, concentrare e proteggere le molecole presenti nell’ambiente. Inoltre, la maggior parte delle reazioni chimiche complesse che conosciamo, in particolare quelle biochimiche, non avvengono da sole, ma devono essere assistite da materiali specifici che in chimica sono chiamati “catalizzatori”. In assenza di enzimi – le proteine che permettono lo svolgimento delle reazioni biochimiche negli organismi viventi – è possibile che le argille abbiano ricoperto un ruolo analogo nella nascita delle prime cellule.
Molte molecole biologiche fondamentali per la vita, tra cui gli aminoacidi che compongono le proteine e gli acidi nucleici che costituiscono il nostro DNA, sono molecole “chirali”. Questo significa che, come le nostre mani, le loro immagini speculari non sono mai sovrapponibili. Queste molecole sono vincolate ad assumere una o l’altra delle due forme possibili, forme che, in chimica, si chiamano “enantiomeri”: scambiando un enantiomero con l’altro, gli stessi composti chimici possono diventare completamente inattivi o addirittura dannosi per la vita. Questo specifico tipo di asimmetria è uno dei grandi misteri dell’origine della vita: non può emergere spontaneamente quando le reazioni chimiche avvengono in un “brodo” indistinto di molecole. Molte superfici minerali, però, sono intrinsecamente chirali, e potrebbero essere state in grado di favorire l’affermazione di alcuni enantiomeri rispetto ad altri.
Simbionti
Nel suo romanzo Cristalli sognanti, lo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon immagina una forma di vita sconosciuta che si nasconde sotto la superficie della terra. Sebbene abbiano l’aspetto di comuni pietre preziose, gli organismi del romanzo sembrano possedere una sorta di super intelligenza aliena; mentre sognano addormentate nel sottosuolo, hanno il potere apparentemente magico di materializzare altre forme di vita. Nella storia, i cristalli e gli organismi viventi sono irreversibilmente legati da una connessione simbiotica: se la pietra viene danneggiata o uccisa, la forma di vita che ha generato subisce lo stesso destino.
Negli anni Sessanta, lo scienziato Graham Cairns-Smith propose una teoria dell’origine della vita fondata sulla relazione simbiotica degli organismi biologici con le strutture minerali. Secondo la sua teoria, i primi organismi viventi non erano simili ai batteri moderni; al contrario, erano parenti stretti dei cristalli inorganici, i quali, sfruttando la complessità delle loro strutture, sarebbero stati in grado di replicare le funzioni fondamentali della vita biologica. Uno dei processi che caratterizzano maggiormente la vita rispetto alla materia inorganica è, naturalmente, la riproduzione; la replicazione degli organismi implica una qualche forma di trasmissione di informazione tra sistemi materiali diversi, una funzione che abbiamo imparato ad associare esclusivamente al codice genetico. I cristalli, in particolare le argille, possiedono strutture molecolari regolari che possono essere occasionalmente interrotte da difetti locali, come la sostituzione o la dislocazione di un atomo con un altro. Invece di considerarli semplici “errori” all’interno di una struttura altrimenti ideale e del tutto deterministica, secondo Cairns-Smith questi difetti sarebbero stati la strategia più antica utilizzata dalla vita per immagazzinare e replicare l’informazione, ben prima che l’RNA o il DNA avessero visto la luce.
La proposta di Cairns-Smith si fonda sull’idea che la biologia non sia di per sé eccezionale rispetto agli altri fenomeni di auto-organizzazione in natura. “Piuttosto che sforzarci di elaborare modelli teorici di processi di replicazione che rispecchino da vicino quelli degli organismi moderni”, scriveva, per comprendere l’origine della vita “dovremmo forse guardare con attenzione ai semplici processi di replicazione che già esistono in abbondanza nel mondo fisico-chimico, e considerarli non semplicemente come modelli, ma come potenziali antenati”.
Nel suo saggio del 1944 Che cos’è la vita?, il fisico Erwin Schrödinger aveva già proposto un’analogia simile a quella di Cairns-Smith tra gli organismi viventi e le strutture cristalline inorganiche. Schrödinger aveva osservato che la complessità della vita sembrava contrapporsi alla seconda legge della termodinamica, secondo cui tutte le strutture materiali mostrano una tendenza generale verso il “disordine”. Come gli organismi viventi, anche i cristalli inorganici, che si formano spontaneamente in natura, manifestano un’analoga spinta, che lui definiva “negentropica”, ad auto-organizzarsi in strutture ordinate. Concluse che i cromosomi – e, per estensione, la vita stessa – dovevano essere intesi come sistemi cristallini particolarmente raffinati, in cui la ripetizione deterministica tipica dei minerali aveva lasciato il posto a un’organizzazione di ordine superiore. Egli definì queste configurazioni materiali “cristalli aperiodici”.
Una delle idee proposte in biologia negli ultimi anni è che la prima cellula vivente si sia sviluppata all’interno delle pareti inorganiche di una microscopica cavità minerale.
La relazione sinergica tra il mondo vivente e il regno minerale sembra suggerire che il confine che separa queste strutture materiali all’apparenza così distanti possa essere più poroso di quanto non siamo soliti immaginare. L’idea di “pianeta simbiotico” proposta dalla biologa Lynn Margulis ci invita a concettualizzare la storia della vita sulla Terra come il risultato di processi sinergici di cooperazione, ibridazione e contaminazione tra organismi biologici provenienti da percorsi evolutivi radicalmente differenti. In effetti, scrive Margulis, “la superficie del pianeta non è solo fisica, geologica e chimica, e nemmeno solo geochimica. È, piuttosto, geo-fisiologica: mostra gli attributi di un corpo vivente composto dall’aggregato delle interazioni incessanti della vita sulla Terra”. Possiamo immaginare di estendere questa rete di sinergia planetaria al regno dei corpi minerali non viventi?
Nel 2002, un articolo firmato dai due biologi William Martin e Michael Russel ha proposto che la prima cellula vivente si sia sviluppata all’interno delle pareti inorganiche di una microscopica cavità minerale. La roccia avrebbe garantito alla nostra antenata protezione da un ambiente ostile, offrendole anche numerose superfici cristalline capaci di attivare nuove reazioni biochimiche. In questo scenario, la complessità della vita biologica non emerge a partire da una vescicola galleggiante sperduta nell’oceano primordiale, ma prende forma in un incontro simbiotico con strutture materiali molto diverse e molto più antiche. Non so dire se, tra le innumerevoli storie che ci siamo raccontati sulla nascita della vita, questa sia più fondata di tutte le altre. Quello che mi affascina di questo racconto speculativo delle nostre origini è il suo potere di decostruire l’immagine radicata della vita come un miracolo solitario che lotta contro le forze cieche e disintegranti di un universo ostile. Ci riconduce al calore del grembo inorganico di una roccia, in cui si nasconde la misteriosa vulnerabilità di una goccia d’acqua.