I l 20 luglio del 1969, The Eagle – come era stato denominato il LEM (Lunar Excursion Module, il modulo lunare di Apollo 11) – si era posato nel Mare della Tranquillità e dalla sua scaletta erano scesi Neil Armstrong e Buzz Aldrin per compiere la prima attività extraveicolare su un corpo celeste diverso dalla Terra.
Dopo quello, altri cinque moduli sono scesi dolcemente sul suolo lunare, ciascuno sempre con due uomini a bordo (solo il LEM di Apollo 13 mancò l’appuntamento a causa del famoso incidente che compromise la missione). L’ultimo modulo ad allunare fu quello di Apollo 17, nel dicembre 1972. Perciò sono 12, in totale, gli uomini che fino a oggi hanno avuto il privilegio di camminare sulla Luna. Tutti piloti di formazione – tutti tranne uno: il geologo Harrison Hagan Schmitt, il primo e finora unico scienziato a essere sceso sul nostro satellite. E poco ci mancò che non ci arrivasse mai.
Partire da riserva
Harrison Hagan Schmitt, da molti detto Jack, era nato il 3 luglio 1935 a Santa Rita, nel New Mexico, ma era poi cresciuto a Silver City, un importante centro minerario della regione. Harrison, sin da bambino, amava accompagnare il padre, geologo, nei suoi giri tra miniere e zone di ricerca mineraria. Fu così che nacque la sua passione per le rocce. Dopo le superiori, seguì un corso di studi in geologia al CalTech, il California Institute of Technology, dove si laureò nel 1957. Ancora studente, frequentò per un anno l’università di Oslo, in Norvegia; fu qui che cominciò ad interessarsi alle eclogiti, un particolare tipo di rocce metamorfiche, non molto comuni, perché si formano in zone piuttosto profonde della crosta continentale o del mantello. In collaborazione col Servizio Geologico statunitense studiò depositi di eclogite in Alaska, New Mexico e Montana e conseguì il dottorato all’Università di Harvard con una tesi sulle eclogiti norvegesi.
Nel 1962 ebbe un incontro che avrebbe per sempre segnato il suo destino di geologo e di ricercatore. A Flagstaff, in Arizona, Schmitt rivide Daniel Milton, suo compagno di corso all’università, che in quel periodo collaborava con il geologo Eugene Shoemaker alla realizzazione di una nuova mappa della Luna e alla creazione di un nuovo centro di astrogeologia, il settore di ricerca che Shoemaker stava cominciando a sviluppare proprio in quegli anni. Se si dovevano mandare uomini sulla Luna, come annunciato dal presidente Kennedy al Congresso americano nel maggio del ‘61, allora bisognava approntare buone mappe della superficie del nostro satellite e conoscerne meglio la geologia.
Sulle prime, Schmitt non diede troppa importanza a quell’incontro, ma poi cominciò a intravvedere le opportunità che si sarebbero aperte in un campo di ricerca del tutto nuovo ed originale. Così nel 1964 si mise nuovamente in contatto con Shoemaker, e poiché Schmitt si era fatto una certa esperienza nel lavoro di campo, Shoemaker lo mise a capo di un settore che doveva progettare e sviluppare tecniche di campo per gli uomini che sarebbero andati sulla Luna. L’anno dopo, nel ‘65, la NASA era alla ricerca di scienziati che potessero collaborare con i suoi astronauti, tutti piloti di formazione e quasi tutti militari. Schmitt presentò la sua domanda, che venne subito accettata: era l’unico geologo tra gli scienziati che erano stati presi e le sue competenze scientifiche furono ritenute molto importanti per le necessità del programma Apollo.
Schmitt dovette prima trascorrere un anno di addestramento per imparare a diventare pilota di jet e di elicotteri. Al suo ritorno nel corpo di astronauti a Houston, ebbe il compito di sviluppare, per il programma Apollo, i protocolli degli esperimenti scientifici da condurre sulla superficie lunare. Nel frattempo continuava a collaborare con Shoemaker allo sviluppo di un programma di addestramento sulla geologia lunare a beneficio degli astronauti, di cui lui stesso era uno degli istruttori (in seguito Schmitt sarebbe diventato anche uno dei pochi esperti autorizzati a studiare i campioni di rocce lunari portati a terra dalle missioni Apollo). Nel frattempo iniziò anche il suo addestramento alla guida del LEM e del modulo di comando, e nel marzo 1970 diventò il primo scienziato-astronauta a essere assegnato per un volo spaziale. Entrò a far parte dell’equipaggio di riserva di Apollo 15, insieme al comandante Richard Gordon e al Pilota del Modulo di Comando Vance Brand.
Per ogni missione spaziale c’è sempre un equipaggio principale e uno di riserva: gli uomini dell’equipaggio di riserva hanno il compito di sostituire i corrispettivi titolari in caso di infortuni, malattie o altre difficoltà sopraggiunte all’ultimo momento. Alla NASA, però, era consuetudine che l’equipaggio di riserva sarebbe diventato l’equipaggio principale tre missioni dopo. Così, per fare un esempio, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, i primi due uomini ad allunare con Apollo 11, avevano fatto parte dell’equipaggio di riserva di Apollo 8. E l’equipaggio di riserva di Apollo 15, costituito da Gordon, da Brand e dal nostro Harrison Schmitt avrebbe dovuto volare con Apollo 18. Ma Apollo 18 venne cancellata nel settembre del 1970.
Era trascorso appena più di un anno dallo storico allunaggio di Apollo 11 e nemmeno dieci mesi da Apollo 12, che fu un’altra missione di successo per la NASA. Ma adesso, alla Casa Bianca, non c’era più Kennedy, che all’inizio degli Anni Sessanta aveva creduto nell’importanza dell’esplorazione umana della Luna. Ora a Washington c’era Richard Nixon, la cui politica dell’esplorazione umana dello spazio si fece così poco ambiziosa da imporre pesanti tagli ai bilanci per gli anni a venire.
E così, a settembre del 1970, si decise che il Programma Apollo, che inizialmente prevedeva venti missioni, terminasse con la numero 17. Su questo ridimensionamento ebbe la sua parte anche il fallimento di Apollo 13, nell’aprile del 1970, che mise a rischio la vita del suo equipaggio.
Prima la scienza
Se Harrison Schmitt avesse perso il suo volo per la Luna, il Programma Apollo si sarebbe concluso senza che nessuno scienziato avesse mai messo piede sul nostro satellite. Fu allora che la comunità scientifica fece molte pressioni su Washington, per costringere la NASA a inserire a tutti i costi Schmitt nell’ultima missione ancora in programma, Apollo 17.
Ma la titolarità di questa missione spettava ai tre astronauti che erano stati la riserva dell’equipaggio di Apollo 14: il comandante Eugene Cernan, il pilota del modulo di comando Ron Evans e il pilota del modulo lunare Joe Engle. Chi togliere dei tre? Non certo Cernan, che era il comandante. Ma nemmeno si poteva togliere Evans, perché lui, in qualità di pilota del modulo di comando, sarebbe rimasto ad orbitare intorno alla Luna in attesa del ritorno dei due compagni scesi sulla Luna. Bisognava sacrificare Joe Engle.
La scelta venne imposta dall’alto a Donald Kent Slayton, direttore dell’ufficio della NASA preposto alla selezione degli equipaggi di volo. E Slayton dovette comunicarla a Eugene Cernan, che rimase sconvolto: aveva lavorato così tanti mesi con Joe Engle al simulatore del LEM, da aver stabilito con lui un ottimo rapporto d’amicizia, oltreché professionale.
Cernan provò con vari argomenti a convincere Slayton a non estromettere Engle: sostenne che sin dai tempi delle capsule Gemini i piloti erano sempre stati due, e non a caso, e a fargli capire poi che Schmitt era uno scienziato, non un pilota di professione; sì, certo, aveva fatto un buon lavoro pilotando piccoli aerei da addestramento, ma non aveva certo l’esperienza di volo di Engle. Slayton gli rispose che c’era ben poco da discutere: Schmitt avrebbe volato in ogni caso con Apollo 17: o lo si accettava come pilota del LEM, oppure lo stesso Cernan si sarebbe dovuto fare da parte, rinunciando ad Apollo 17; in tal caso la missione sarebbe stata affidata all’intero equipaggio di riserva di Apollo 15, dove Schmitt era titolare insieme al comandante Gordon e al pilota del modulo di comando Brand.
“Devi decidere tu – disse Slayton a Cernan – se vuoi camminare sulla Luna oppure no”. Cernan non rinunciò alla Luna, ovviamente, e dovette far buon viso a cattivo gioco, accogliendo Schmitt nella sua squadra. I due cominciarono a lavorare insieme dall’estate del 1971, dapprima con una certa diffidenza reciproca; presto però Cernan cominciò ad apprezzare le doti personali e i rigorosi metodi di lavoro di Schmitt, che i piloti chiamavano “dottor Roccia”.
Team building
Eugene Cernan, nella sua autobiografia intitolata L’ultimo uomo sulla Luna (tradotta in italiano dalle edizioni Cartabianca), ci restituisce molti ricordi personali di Harrison Schmitt e del suo carattere.
Concentrato e sostenitore di una vita spartana, tranquillo e difficile da conoscere veramente, era appassionato di ragionamenti. In quei casi, potevi quasi sentire gli ingranaggi ruotargli nel cranio. Appena presentato, risultava in genere antipatico, e la sua natura taciturna e insolente rendeva difficile alle persone avvicinarsi a lui. Sembrava che non gli importasse affatto
.
In un’altra pagina, Cernan ci racconta un’idea sorprendente di Schmitt, qui chiamato col suo soprannome, Jack:
Jack, che ogni tanto proponeva qualche idea folle, avrebbe voluto atterrare sull’altro lato della Luna. Negli ultimi due anni, sosteneva, le missioni precedenti ne avevano esplorato adeguatamente il lato visibile e il volo conclusivo avrebbe dovuto approfittare di un’opportunità che non si sarebbe più ripresentata per molti anni.
Un piano così spettacolare sarebbe stata una meraviglia per uno scienziato, ma dal punto di vista operativo era qualcosa senza il minimo buon senso, poiché un simile atterraggio ci avrebbe impedito qualunque tipo di comunicazione con Houston. Jack allora suggerì di mettere un satellite in orbita stazionaria attorno alla Luna, tenendolo costantemente sospeso per gestire le trasmissioni radio da e verso Houston. Era arrivato a selezionare l’attrezzatura necessaria e persino a fare una stima dei costi, solamente per provare che una cosa del genere poteva essere realizzata.
Era il momento sbagliato e a me l’idea non piaceva. Jack mi ignorò e sottopose la sua proposta direttamente ai massimi dirigenti della NASA, a cui fece talmente tante pressioni che il mio telefono cominciò a squillare con qualche manager agitato che sbraitava: “Dannazione, Cernan, rimetta in riga Schmitt e ce lo tenga!”.
Per l’equipaggio di Apollo 17 la seconda metà del 1971 fu un periodo di intensi preparativi alla missione. Poi, a febbraio del ’72, si scelse il sito di atterraggio: una vallata profonda e accidentata sul bordo sudorientale del Mare della Serenità, denominata Taurus-Littrow. Gli scienziati speravano che vi si potessero trovare rocce eiettate da vulcani, che potessero quindi contenere materiali provenienti direttamente dalle profondità della crosta lunare.
La missione
Il 7 dicembre 1972 arrivò finalmente il momento dalla partenza. Fu programmato l’unico lancio notturno di tutto il Programma Apollo, per permettere al LEM, quattro giorni dopo, di scendere nel sito prescelto con i raggi del Sole molto inclinati. Il LEM sostò sulla Luna per ben 75 ore, permettendo agli astronauti di effettuare ben 3 attività extraveicolari, ognuna delle quali durò più di 7 ore. Come già per Apollo 15 e 16, anche per questa missione era stato previsto che gli astronauti potessero spostarsi sulla superficie lunare con un apposito rover, che consentì loro di percorrere complessivamente più di 33 km nel corso delle tre uscite dal LEM e raccogliere oltre 110 chili di rocce prelevandole da molteplici siti. Tutte cifre da record rispetto a quelle delle altre missioni Apollo. Ciò fece della 17 una delle spedizioni più importanti e più ricche di risultati dell’intero programma americano di esplorazione lunare.
Il sito di allunaggio prescelto si rivelò un vero paradiso per un geologo come Schmitt. I macigni franati dalle alture circostanti gli consentirono di effettuare campionamenti di suoli altrimenti inaccessibili, mentre i tanti crateri incontrati lungo il percorso gli permisero di prelevare rocce che giacevano a varie profondità.
L’entusiasmo era tale che, sul finire delle prima giornata di lavoro, i due astronauti, benché stanchi, cominciarono a saltellare e a canticchiare “While Strolling Through the Park One Day”.
Al termine della prima attività extraveicolare, anche a causa dell’accidentale rottura di un parafango del rover, le tute di Schmitt e Cernan erano letteralmente ricoperte dalla polvere che ricopre la superficie lunare. Cernan e Schmitt provvidero alle riparazioni del caso, ma era proprio il sito in cui erano atterrati ad essere molto più “polveroso” di altri siti di allunaggio raggiunti dalle precedenti missioni Apollo.
La polvere lunare, detta regolite, è uno strato di materiale sciolto e di granulometria eterogenea che ricopre gli strati rocciosi più superficiali del nostro satellite. Si forma prevalentemente a seguito dell’impatto di meteoriti, micrometeoriti e particelle del vento solare con le rocce lunari. Il materiale è spesso costituito da granuli acuminati e taglienti, molto abrasivi, che aderiscono ai tessuti e possono essere inalati facilmente, creando danni ai polmoni e al sistema respiratorio.
Quando Cernan e Schmitt rientrarono nel LEM e si tolsero i caschi, avvertirono un odore simile a quello di polvere da sparo. Poco dopo Schmitt cominciò a starnutire; gli si chiusero le narici, gli vennero gli occhi rossi e un fastidio alla gola. I sintomi durarono per un paio d’ore, poi svanirono. Schmitt, geologo lunare, era di fatto allergico alla Luna.
Scoperte lunari
Una delle scoperte che più entusiasmarono Schmitt e tutti i geologi che seguivano la missione dalla Terra avvenne nel corso della seconda attività extraveicolare: fu rinvenuto un suolo arancione, un colore decisamente inconsueto per la Luna, dove a dominare sono le scale di grigi. Le analisi poi svolte sui campioni riportati a Terra rivelarono che il colore era dato da minuscole sferule vetrose prodotte da fontane di lava che si era rapidamente solidificata, formando un letto di particelle. Ma quella fuoriuscita di materiale dalle profondità della Luna non era avvenuta in tempi geologicamente recenti, come si era sperato in un primo momento. Anche in questo caso, i materiali avevano un’età superiore ai 3 miliardi di anni.
Un altro campione che Schmitt ha avuto il merito di prelevare, da alcuni definito come il più interessante che sia stato mai raccolto sulla Luna, è una roccia nota come troctolite 76535. È risultata essere una delle più antiche rocce lunari mai rinvenute e ha permesso di stabilire che in un lontanissimo passato il nostro satellite ebbe un campo magnetico di discreta intensità. Non si sa, invece, se sia davvero merito di Schmitt – come lui sostiene – quello di aver scattato la fotografia della Terra interamente illuminata e conosciuta come The Blue Marble, una delle immagini più celebri del nostro pianeta visto dallo spazio.
Harrison Schmitt lasciò la NASA nel 1975 per candidarsi al Senato per lo Stato del New Mexico nel Partito Repubblicano: rimase in carica per una sola legislatura, non riuscendo a farsi rieleggere nel 1982. Da allora ha svolto lavori come consulente. Hanno sempre molto sorpreso la comunità scientifica le sue tesi, espresse anche di recente, sulle cause dei cambiamenti climatici. Harrison è del parere che i fattori umani siano eccessivamente sopravvalutati rispetto a quelli naturali e che i livelli crescenti di anidride carbonica nell’atmosfera non siano significativamente correlati al riscaldamento globale.
Da tempo è un forte sostenitore dell’utilizzo delle risorse lunari, in particolare dell’elio-3, un isotopo raro sulla Terra ma abbondante nel suolo lunare, sfruttabile come combustibile nelle future centrali nucleari a fusione, come ha sostenuto in un libro del 2006 intitolato Return to the Moon.
Estratto da Vite che non sono la tua, in onda su Rai Radio3. Potete ascoltare la puntata completa in streaming sul sito della trasmissione.