T ra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre l’Italia attraversava il miracolo economico, le mondine sparirono dalle risaie. I diserbanti chimici fecero entrare l’agricoltura italiana nella modernità industriale e una nuvola di 2,4-D sostituì la pulizia manuale delle erbacce. Con la meccanizzazione del lavoro agricolo sparì anche il trapianto manuale del riso. Per questo, anche se avesse voluto (e di sicuro non lo voleva), mia nonna non sarebbe mai più tornata a spendere quaranta giorni china sulle piante, a perdere le unghie con gambe e braccia immerse nell’acqua, mentre zanzare e tafani le cavavano il sangue. Per i padroni era diventato molto più conveniente lasciar lavorare un acido che non dormiva, non mangiava e non scioperava.
Mia nonna non avrebbe più passato quaranta notti a dormire su un pagliericcio, costretta dai capibastone a cagare nei fossi lungo i campi, come gli animali che viaggiarono a bordo del carro bestiame che la trasportò dalle campagne venete fino a lì, nel novarese dei primi anni Cinquanta. Fece una sola monda in vita sua e le bastò. A distanza di anni, ricorda ancora le canzoni con cui lei e le sue compagne chiedevano in rima ai padroni di cacciar fuori i soldi per rispedirle a casa. Riascoltarle oggi significa porgere l’orecchio a un mondo estinto.
La storia del composto chimico che ha ammutolito le risaie italiane è iniziata nel 1880, quando Charles Darwin pubblicò The power of movement in plants. Darwin osservò infatti che le piante si orientano sempre verso la luce: un’intuizione oggi tanto ovvia da risultare proverbiale, ma che allora spianò la strada a nuove ricerche di fisiologia vegetale sulla causa di questo fototropismo. La trovarono in un ormone sensibile alla luce, capace di regolare la crescita delle piante: fu estratto e poi sintetizzato in decine di varianti chimiche, che producevano effetti simili quando venivano nebulizzate su meli, peri e pomodori. Le sostanze stimolavano il radicamento delle piantine, acceleravano la maturazione dei frutti e riuscivano perfino a produrre pomodori privi di semi. Tra tutte le miscele testate, la più efficace fu l’acido 2,4-diclorofenossiacetico, noto con il nome comune di 2,4-D.
La storia del composto chimico che ha ammutolito le risaie italiane è iniziata nel 1880, con le prime ricerche di Darwin sulla fisiologia vegetale.
Dai primi test emerse anche che un dosaggio eccessivo di 2,4-D poteva portare alla morte della pianta: era stata inventata un’arma chimica che, spruzzata dall’alto, avrebbe potuto distruggere le coltivazioni nemiche. Per questa ragione, e per gli anni in cui fu fatta, la sua scoperta fu subito inscindibile dallo sforzo scientifico e tecnologico degli Alleati nella seconda guerra mondiale. Tra il 1939 e il 1945, Inghilterra e Stati Uniti fecero sviluppare in segreto il 2,4-D per scopi militari. Nel Regno Unito, le Imperial Chemical Industries accelerarono le ricerche sia per risparmiare sul costo del lavoro agricolo interno sia perché Germania, Giappone e Italia avrebbero potuto batterle sul tempo nello sviluppo dell’erbicida, e attaccare i campi Alleati.
Se l’origine militare del 2,4-D ricorda la corsa alla bomba atomica, non è un caso. In America, lo stimolo decisivo alle ricerche sull’uso militare della chimica venne da un rapporto voluto dal Segretario di Stato Henry L. Stimson, che era stato convinto dei rischi e delle potenzialità della guerra biologica da un gruppo di scienziati statunitensi: fu tanto persuaso che li mise subito al lavoro. Dal 1943, Stimson diresse anche il programma di ricerca sull’atomica e nel 1945 incoraggiò Truman a bombardare Hiroshima e Nagasaki. A differenza della bomba, però, il 2,4-D non fu mai usato sul campo durante la seconda guerra mondiale.
Direttore del War Research Service americano – che coordinò le ricerche statunitensi sulle armi biologiche – l’imprenditore George W. Merck dichiarò che gli Americani non riuscirono a testare il 2,4-D in un teatro di combattimento solo perché la fine della guerra fu troppo rapida. Merck era convinto che quel potente erbicida fosse un’arma umanitaria perfetta: l’aviazione avrebbe potuto creare delle piogge di fenossiderivato per distruggere i raccolti avversari senza nuocere a umani o animali. Era dello stesso parere anche il capo del dipartimento di botanica dell’Università di Chicago E. J. Kraus: per dimostrarlo, aveva ingoiato un grammo e mezzo di 2,4-D al giorno per tre settimane, senza effetti collaterali.
Merck era convinto che il 2,4-D fosse un’arma umanitaria perfetta: avrebbe potuto distruggere i raccolti senza nuocere a umani o animali.
In Terrore nell’aria (2006), il filosofo Peter Sloterdijk fa risalire l’inizio del Ventesimo secolo all’invenzione delle guerre aeree, le nuove battaglie atmosferiche che esplosero per la prima volta nei due conflitti mondiali. Sloterdijk fissa il giorno di nascita del secolo breve il 22 aprile 1915, nella Seconda battaglia di Ypres, quando l’esercito tedesco creò con il favore del vento “una nube composta di circa 150 tonnellate di cloro, larga 6 chilometri e alta tra i 600 e i 900 metri”. La nuvola giallastra investì le truppe francesi e canadesi e rese irrespirabile l’aria intorno a loro. I soldati fuggirono nel panico, gettarono via i fucili e iniziarono a sputare sangue, si rotolarono per terra con i pastrani aperti, in cerca d’aria da respirare. Le prime stime tedesche, poi viste al ribasso, contarono 15.000 intossicati e 5.000 morti. Per Sloterdijk fu la prima espressione di un modello tecnico e militare che caratterizzò tutto il Novecento, e che guidò anche le ricerche sul 2,4-D: “l’introduzione dell’ambiente nella lotta tra combattenti”. Nel Ventesimo secolo non si presero più di mira solo i singoli corpi dei nemici, ma le condizioni ecologiche della loro stessa vita.
Sospeso tra il fertilizzante e l’arma, in Italia il 2,4-D fu usato per dichiarare guerra al lavoro nei campi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le prime testimonianze del suo utilizzo compaiono tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. In quell’arco di tempo, gli scioperi delle mondine e dei braccianti agricoli raggiunsero i massimi livelli di partecipazione e ottennero risultati inediti, come il primo contratto nazionale per il lavoro agricolo dopo il grande sciopero del 1949. Lo scontro fra parti sociali fu violentissimo: il 17 maggio di quell’anno, una raffica di mitra sparata da un carabiniere uccise la mondina Maria Margotti a Molinella, in provincia di Bologna. Il ministro dell’interno responsabile della repressione era il democristiano Mario Scelba, e il canto di monda sulla riduzione dell’orario di lavoro Se otto ore vi sembran poche lo ricorda così: “O Mario Scelba se non la smetti | di arrestare i lavoratori | noi ti faremo come al duce | in Piazza Loreto ti ammazzerem”.
I padroni cominciarono a sperimentare il diserbante per sostituire le mondine proprio durante gli scioperi. Negli anni seguenti, la meccanizzazione del lavoro nei campi coincise con una fuga delle lavoratrici manuali, le aziende agricole abbatterono i costi e la partecipazione sindacale calò. All’abbandono dei campi contribuì anche una mutazione mediatica decisiva, come notò Italo Calvino in un articolo pubblicato da Il Contemporaneo nel 1954, col titolo “La televisione in risaia”. Calvino scrisse che, anche se non potevano soddisfare i bisogni materiali delle lavoratrici, gli schermi televisivi alimentavano il desiderio di una vita nuova, urbana, moderna.
Sospeso tra il fertilizzante e l’arma, in Italia il 2,4-D fu usato per dichiarare guerra al lavoro nei campi dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Pochi anni prima, nel ventennio fascista, le mondine dovevano invece stare ben ferme al proprio posto: il loro lavoro fu al centro della Battaglia del grano, la campagna voluta da Mussolini per rendere la produzione italiana di cereali indipendente dalle importazioni. Il che significava ridurre in modo drastico il consumo di pane e pasta della popolazione, dato che buona parte del grano italiano all’inizio del XX secolo proveniva dalla Turchia. La situazione invece era molto diversa per il riso, che cresceva in abbondanza nell’Italia settentrionale, ma che era quasi del tutto estraneo alla dieta italiana.
Le mondine erano quindi destinate a divenire le nutrici dell’Italia fascista. La propaganda le rappresentava come icone della femminilità italiana perfetta: lavoratrici robuste, floride, materne, ma la realtà era ben diversa. Per esempio, le lettere che Mussolini e il Presidente dell’Ente nazionale risi di Milano Aldo Rossini si scambiarono tra il 1935 e il 1936 raccontano che le mondine si trovavano in uno stato di protesta quasi perenne per le loro condizioni. Proseguivano così, nel pieno del Ventennio, la tradizione di lotta socialista, comunista e anarchica che innervava i loro canti e i loro scioperi.
Uno dei più famosi fu quello che, nel 1909, fece ottenere alle mondine la giornata lavorativa di otto ore e trenta minuti. Si sdraiarono sui binari ferroviari che correvano dal vercellese a Molinella per interrompere l’arrivo dei lavoratori che avrebbero potuto sostituirle nei campi. Marx sosteneva che le rivoluzioni fossero le locomotive della storia, ma è probabile che le mondine si sarebbero sentite più vicine a Walter Benjamin, il quale credeva che le rivoluzioni fossero il freno d’emergenza sul treno del progresso capitalista, l’arresto della corsa in avanti del tempo storico.
Negli anni Sessanta quasi tutto ciò che riguardava le mondine e le loro rivendicazioni apparteneva al passato. Un articolo del Corriere della Sera pubblicato il 16 giugno 1963 riassume bene la fine di più di dieci anni di battaglie contro le lavoratrici con mezzi chimici e meccanici. Il titolo: “Questo è forse l’ultimo sciopero delle mondine che vanno scomparendo”. L’occhiello: “Erano 330mila e sono ora 70mila”. Il sottotitolo: “L’agitazione darà nuovo impulso all’adozione di nuovi sistemi per eliminare la manodopera – Elicotteri che irrorano ‘diserbante’ già disbrigano gran parte del lavoro di queste ragazze”. Quell’ultimo sciopero avrebbe dovuto portare a sette ore la giornata lavorativa delle mondine, ma non ebbe successo, e il giornalista Silvano Villani chiuse l’articolo così: le mondine erano “destinate ormai ad essere assorbite da altre attività e sostituite nelle risaie da meno pittoreschi ma più umani metodi di produzione”.
Le mondine erano destinate a divenire le nutrici dell’Italia fascista.
Per ironia della sorte, il “più umano” 2,4-D fu usato in guerra per la prima volta proprio in quegli anni. Come scrive il sociologo Razmig Keucheyan in La natura è un campo di battaglia (2019), tra il 1962 e il 1971 l’esercito degli Stati Uniti versò decine di migliaia di metri cubi di diserbante sulle giungle del Vietnam nel corso dell’operazione Ranch Hand. L’aviazione americana cosparse 3,3 milioni di ettari di territorio con l’Agent Orange, creato dalla multinazionale Monsanto e composto da una miscela di 2,4-D e 2,4,5-T, un altro diserbante. Le operazioni militari statunitensi defogliarono più di 22.000 chilometri quadrati di foreste per togliere copertura e bombardare con più precisione la resistenza Viet Cong.
Gli Stati Uniti persero la guerra, ma l’eredità dell’operazione Ranch Hand resta pesante anche per via di un sottoprodotto chimico tossico nella produzione industriale del 2,4,5-T: la diossina. Un rapporto del 1995 della Banca Mondiale dichiara che la guerra condotta con l’Agent Orange ha cambiato la biodiversità del Vietnam in modo duraturo, avvelenando le risaie nelle campagne e contaminando la catena alimentare. Uno studio pubblicato sulla rivista Chemosphere nel 2007 ha dimostrato che l’inquinamento del suolo provocato dal diserbante ha colpito anche gli animali: il sangue e il latte della popolazione umana di un villaggio del Vietnam meridionale contenevano tracce di alcuni componenti tossici dell’Agent Orange.
Nel frattempo, in Italia, mia nonna aveva visto compiersi la profezia del Corriere della Sera e a causa del 2,4-D era stata assorbita da un’altra occupazione, nell’indotto delle attività connesse alla FIAT. Lei stessa ricorda ancora oggi, con una certa emozione, l’incontro con Gianni Agnelli: un padrone a suo giudizio molto diverso dai capibastone delle risaie, quel mondo pittoresco e brutale che scomparì anche grazie alle fabbriche dell’Avvocato. Oltre ai diserbanti, i trattori FIAT che in quegli anni si diffusero nei campi contribuirono alla scomparsa progressiva del lavoro agricolo manuale, allo spopolamento delle campagne e alla distruzione del movimento dei braccianti e delle mondine. Le loro battaglie sindacali si sarebbero riaccese di lì a poco nei capannoni delle fabbriche FIAT.
Nella guerra e nell’agricoltura, le nebbie di 2,4-D spruzzate da elicotteri e aerei avevano dei limiti geografici.
Più che i desideri o le fantasie delle singole persone, a decidere la storia delle mondine come mia nonna è stato il recente sviluppo tecnologico del capitalismo, e così è ancora: oggi le grandi industrie agrochimiche minacciano quel che rimane delle condizioni ecologiche di vita sulla terra. L’antropologa Anna Tsing fa risalire le origini di questa storia naturale della distruzione alle piantagioni coloniali che alimentarono la conquista europea: non esistono piantagioni senza monocolture, e non possono esistere monoculture senza diserbanti capaci di tenere a bada la crescita di malerbe estranee. Oltre ad aver inventato l’arma che ha avvelenato il Vietnam, Monsanto è stata una delle principali forze ad aver trasformato l’agricoltura mondiale in una distesa di piantagioni. I destini generali sono affidati a sistemi tecnici ed economici che sembrano frustrare ogni speranza di controllo.
Le mondine scioperavano per lavorare meno ore, ma per azione di una sostanza chimica creata da scienziati e poi voluta da militari, il loro lavoro perse di ogni utilità: furono nebulizzate, come per effetto di un’arma fantascientifica. Keucheyan scrive che gli unici attori collettivi all’altezza della crisi ecologica sono la finanza e gli eserciti, perché sono i soli in grado di proiettarsi in un orizzonte di 30 o 50 anni, l’arco di tempo minimo per soppesare con precisione gli effetti del cambiamento climatico. Sono i nuovi capibastone, i nuovi Gianni Agnelli: lavoro e ambiente sono campi di battaglia anche per loro, ma stavolta la scala è quella dell’estinzione umana.
In guerra e in agricoltura, le nebbie di 2,4-D spruzzate da elicotteri e aerei avevano almeno dei limiti geografici. Il cambiamento climatico è invece un’enorme battaglia planetaria, in cui i sottoprodotti tossici dell’industria umana come l’anidride carbonica invadono l’intera atmosfera, sferrano attacchi di calore insostenibile, affondano isole, alterano in modo irreversibile le condizioni della vita umana sul pianeta. Come sosteneva in un’intervista su Science l’antropologo Bruno Latour, “siamo davvero in guerra. Questa guerra è gestita da un mix di grandi aziende e alcuni scienziati che negano il cambiamento climatico”. I padroni s’industriano per l’estinzione: bisognerebbe capire dove sta – sempre che esista – il freno d’emergenza e tirarlo, prima che l’intera specie venga nebulizzata.