“L la gente vede di Beatrice solo la carriera, il glamour. Non sa che lei ha fatto una vita durissima da quando aveva sette anni. Una vita in gran parte da adulta senza saperlo, motivata soltanto dal desiderio di ottenere dalla tastiera quello che cercava”. Benedetto Lupo, pianista di fama internazionale e docente all’Accademia nazionale di Santa Cecilia, a Roma, mi racconta così la sua allieva Beatrice Rana, talento giovanissimo e indiscusso del pianoforte, considerata ad oggi tra le pianiste italiane più celebri al mondo. È stato Lupo a intravederne le potenzialità e a formarla, quando era ancora una bambina “che giocava alle bambole”. Figlia di musicisti, Rana ha messo le dita sul pianoforte prima di imparare a leggere. A nove anni si è esibita per la prima volta con un’orchestra, a sedici il diploma in pianoforte al Conservatorio di Monopoli, a diciotto il primo premio al concorso internazionale di Montreal in Canada. Di lì ha spiccato il volo e la sua fama la precede dappertutto. Se lei è quello che comunemente potremmo definire un “prodigio del pianoforte”, la sua storia mostra che diventarlo ha un costo: richiede un’enorme quantità di sacrificio e studio.
Il mito della genialità, soprattutto nell’ambito della musica classica, è però spesso legato all’ideale romantico di un talento istintivo, spontaneo e innato, che concepisce il mestiere del musicista quasi come una vocazione. Come mi spiega in intervista Nicola Campogrande, affermato compositore, conduttore radio-televisivo e critico musicale, un simile mito del genio musicale ha avuto origine con Beethoven, all’inizio del XIX secolo. Beethoven fu il primo compositore a lavorare da libero professionista con una schiera di fedelissimi seguaci pronti ad apprezzare qualunque cosa producesse, comprese le sue ultime opere – su tutte la Nona Sinfonia – insolite e difficili da ascoltare per l’epoca. Con lui si iniziò a diffondere l’idea che “la direzione del genio musicale fosse quella da seguire”, sostiene Campogrande: “su queste basi si è costruito nel tempo il mito del musicista interprete e compositore, proprio come è stato Beethoven”. Successivamente, un graduale processo di specializzazione del sapere avrebbe portato come nelle altre discipline artistiche a una divisione netta dei ruoli tra direttori d’orchestra, compositori, esecutori e tanti altri, ma ciononostante si continua tutt’oggi ad attribuire alle maggiori personalità della musica, soprattutto se classica, caratteristiche superiori, speciali, legate al talento naturale più che alla dedizione nello studio.
Davvero alcune persone sarebbero destinate per natura a diventare prodigi della musica classica? Oppure dipende tutto da ambiente ed educazione?
Esiste una diatriba di lungo corso, al confine tra scienze umane e biologiche, sul peso attribuito ai diversi elementi in competizione nel plasmare abilità e destino degli individui: da una parte fattori innati e dall’altra acquisiti, genetica e ambiente, nature e nurture. La questione del genio musicale si inserisce a pieno titolo in questo annoso dibattito: davvero alcune persone sarebbero destinate per natura a diventare prodigi della musica classica? Oppure dipende tutto da ambiente ed educazione? Una branca delle neuroscienze cognitive ha provato a dare una risposta a questa domanda, partendo dall’analisi del corredo genetico. Dopotutto, se il talento musicale deriva da capacità innate, queste dovrebbero essere iscritte nel nostro DNA e presenti sin dalla nascita.
“Per quello che riguarda la capacità uditiva, i gèni GATA2 e PCDH7 regolano lo sviluppo delle cellule che codificano l’altezza dei toni nella coclea, nel collicolo e talamo, aree del cervello coinvolte nella rielaborazione dello stimolo uditivo”, afferma in intervista Alice Mado Proverbio, docente nel campo delle neuroscienze cognitive all’Università di Milano-Bicocca e autrice dei libri Neuroscienze cognitive della musica (2019) e Percezione e creazione musicale (2022) per Zanichelli. “Oltre all’udito”, continua Mado Proverbio, “sono stati identificati almeno altri 30 gèni, cruciali nello sviluppo delle abilità proprie dei musicisti”. Da un punto di vista biologico sono coinvolti nella funzionalità della dopamina, un neurotrasmettitore che attiva il circuito della gratificazione e soddisfazione delle proprie azioni. Questi gèni sono associati anche all’apprendimento, alla memoria e all’attività sinaptica, la comunicazione che avviene tra i neuroni. Tale componente genetica tuttavia non è sufficiente a giustificare un talento musicale innato, e la regolazione dell’attività dei gèni è talmente complessa che è difficile da ricondurre allo sviluppo di specifiche abilità.
“Per quanto si possa essere dotati di un certo profilo genetico, lo stesso comportamento delle persone è in grado di influire sull’espressione dei gèni”, mi avverte Mado Proverbio. Infatti ascoltare un brano di Mozart per chi ha studiato musica e per chi non l’ha fatto potrebbe essere un’esperienza del tutto diversa, che porta all’attivazione di differenti sequenze del DNA e vie di segnalazione. “Secondo uno studio del 2016”, aggiunge Mado Proverbio, “solo nei musicisti l’ascolto della musica aumenta la trascrizione di gèni coinvolti nella motivazione, nell’attenzione, nel rinforzo e nella memoria lungo termine. In particolare implica l’attivazione del gene GATA2 e dell’alfa-sinucleina associati all’abilità del canto e all’attitudine musicale”. La genetica sembra dunque avere un ruolo, ma non basta da sola a determinare in modo deterministico e riduzionista l’abilità nella musica classica.
Il mito della genialità, soprattutto nell’ambito della musica classica, è spesso legato all’ideale romantico di un talento istintivo, spontaneo e innato, che concepisce il mestiere del musicista quasi come una vocazione.
Per quanto riguarda i musicisti esecutori e interpreti è cruciale l’aspetto tecnico, ovvero la capacità di controllare il corpo per produrre i suoni e gli effetti desiderati. “10.000 ore di pratica sembra essere la cifra magica per raggiungere un certo tipo di expertise in vari campi, dalla musica allo sport”, sostiene Mado Proverbio facendo riferimento a un famoso studio che ha osservato come i musicisti professionisti di successo, per esempio prestigiosi solisti, avessero trascorso molto più tempo a esercitarsi allo strumento di chi insegnava musica, a partire dall’infanzia lungo tutta l’adolescenza. “All’età di 20 anni i violinisti migliori avevano accumulato 10.000 ore di pratica, i buoni violinisti 8.000 ore, e quelli che sarebbero diventato educatori solo 5.000 ore”.
A giustificare queste diverse competenze legate alle ore di pratica potrebbero essere gli importanti cambiamenti nella conformazione del cervello che avvengono nei musicisti. Il volume della materia grigia nella corteccia cerebrale, che regola la nostra capacità di svolgere funzioni mentali complesse, è direttamente proporzionale al tempo trascorso allo strumento. Tra le aree potenziate ci sono quelle motorie, premotorie e il cervelletto, fondamentali per pianificare, preparare, svolgere e controllare i veloci movimenti delle dita sullo strumento. Allo stesso modo è tendenzialmente più sviluppato il lobo parietale superiore, che sembra mediare la capacità di leggere la musica a prima vista.
Per raggiungere l’eccellenza nel suonare uno strumento, però, sono importanti anche le tempistiche. “Beatrice ha iniziato a studiare con serietà a 7 anni”, ricorda Benedetto Lupo a proposito dell’esperienza della sua allieva Beatrice Rana. “A volte l’ho sottoposta a una disciplina piuttosto dura, ma solo perché ho intravisto in lei qualità che dovevano essere assolutamente coltivate. So benissimo quanto sia più difficile assorbire certe capacità quando si è più grandi”. Si dice infatti che determinati movimenti fini e precisi propri del musicista si possano imparare soltanto entro o intorno ai 7 anni, età oltre la quale diventa molto più faticoso raggiungere gli stessi risultati.
Il volume della materia grigia nella corteccia cerebrale, che regola la nostra capacità di svolgere funzioni mentali complesse, è direttamente proporzionale al tempo trascorso allo strumento.
Questo perché durante l’infanzia il cervello possiede una grande neuroplasticità, la capacità di adattarsi agli stimoli esterni: neuroni e sinapsi si formano molto più in fretta e con facilità che in età adulta. Un bambino che inizi a esercitarsi con continuità verso i 4-6 anni possiede un corpo calloso molto più sviluppato rispetto a un suo coetaneo che non suona. Quest’area del cervello si occupa infatti del rapido scambio di informazioni tra i due emisferi cerebrali, fondamentale per coordinare e controllare il movimento non sincronizzato delle mani. Con la pratica si potenziano poi le aree del cervello coinvolte nella gestione del moto, nella codifica e percezione del suono e dell’integrazione di tutte queste informazioni di tipo uditivo, visuale e somato-sensoriale.
Ma iniziare a suonare uno strumento da bambini non è scontato: i fattori socio-economici e familiari possono avere un peso considerevole nell’indirizzare verso una carriera musicale e nel sostenere il percorso di formazione – soprattutto nell’ambito della musica classica, dove i corsi di introduzione alla disciplina hanno spesso costi di accesso proibitivi per la maggior parte delle famiglie. Per sviluppare un talento e diventare dei musicisti di professione, può quindi diventare cruciale vivere in un contesto che supporti questo percorso: “mia mamma è architetto e mio papà medico, ma cantavano in un coro”, racconta Campogrande. “Nella nostra famiglia, in casa, in macchina noi cantavamo di continuo. Io alla fine sono diventato un compositore e le mie sorelle hanno sempre suonato e apprezzato la musica, pur lavorando in altri settori. Lo stesso è successo con i miei figli”.
Anche i genitori di Benedetto Lupo non erano musicisti di professione, ma hanno sostenuto con tutti i mezzi necessari la sua carriera pianistica: “a volte una situazione come la mia può essere un vantaggio, perché una famiglia di musicisti può diventare ingombrante e i figli, indipendentemente dal proprio talento, possono non riuscire a imporsi e tenere il confronto”. Nel caso di Beatrice Rana provenire da una famiglia di musicisti è stato invece un grande stimolo, sostiene Lupo: “non si può ignorare il vantaggio di nascere in un ambiente dove la musica si respira ancor prima della nascita. Se il terreno non è preparato o quanto meno accogliente, può essere molto più difficile raggiungere l’eccellenza”. Non è infatti un caso che molti musicisti classici – Mozart, Bach e Beethoven sono solo alcuni – abbiano iniziato da bambini e siano figli di altrettanti professionisti della musica.
Iniziare a suonare uno strumento da bambini non è scontato: i fattori socio-economici e familiari possono avere un peso considerevole nell’indirizzare verso una carriera musicale e nel sostenere il percorso di formazione.
Come ogni altra abilità, la propensione alla musica classica nasce quindi dalla combinazione fortuita e variabile in ogni situazione di tre elementi: genetici, ambientali e comportamentali, su cui possiamo o meno avere un controllo. “Una minore attitudine iniziale nella musica o il crescere in un contesto culturale e socioeconomico sfavorevole rispetto alla possibilità di intraprendere il percorso musicale, possono essere compensati da uno studio intenso e con passione”, mi ricorda Mado Proverbio riportando i risultati di uno studio del 2015, che ha cercato di comprendere da cosa dipenda il successo in ambito musicale, misurato in termini di voti, premi e posizioni di prestigio. Con una buona formazione, l’esercizio, la determinazione e l’impegno possono essere determinanti nel far emergere il talento nella musica classica.
Al di là dei fattori genetici, ambientali e comportamentali che possono contribuire a sviluppare particolari doti musicali, nell’assegnare a un musicista l’etichetta di “genio della musica” intervengono altri elementi legati alla società e al momento storico in cui vive, oltre a una discreta dose di fortuna. “Ogni autore deve essere inserito nel proprio contesto socioculturale”, spiega Campogrande: “la musica classica è più complessa di quella dei Beatles, per fare un esempio. Senza dubbio, però, sono stati anche loro dei genî, perché hanno affrontato e risolto problemi armonici in modo originale e diverso da come avesse fatto chiunque altro fino a quel momento”. Benedetto Lupo si trova invece in difficoltà a parlare di genialità nella musica classica, sebbene durante la sua lunga carriera da docente abbia formato e sentito suonare numerosi pianisti promettenti. “Il talento mi sembra qualcosa di molto più normale del genio, ma non serve a nulla se non è coltivato nel tempo. Non smetterò mai di pensare che nel mondo ci sono molti talenti sconosciuti, perché non hanno avuto la possibilità di formarsi”, ammette.
Se quindi il talento musicale è qualcosa che risulta dalla combinazione di fattori genetici e ambientali indipendenti da noi, ma anche modificabili con i nostri comportamenti, allora possiamo impegnarci per raggiungerlo, se lo vogliamo. Se poi manca uno degli ingredienti per il successo, poco male: che si diventi un prodigio della musica classica come Beatrice Rana o un amatore autodidatta alla fine non è così rilevante, ci sarebbero comunque dei vantaggi. Suonare uno strumento può migliorare le capacità linguistiche, di memoria verbale e lettura, aiutando a mantenere il cervello in forma anche con l’avanzare dell’età. “Immaginiamo cosa significherebbe esporre i giovanissimi alla musica”, fa notare Lupo con convinzione: “potrebbe migliorare la coordinazione e concentrazione delle persone, capacità utili a tutti nel corso della propria vita”. Magari non si diventerà dei genî della musica classica, ma la pratica al pentagramma potrebbe aiutare a far sbocciare il proprio talento altrove.