L a teoria (o ipotesi) di Gaia è tanto famosa quanto controversa: propone che il pianeta Terra sia governato da una rete di relazioni che comprendono sia gli organismi viventi che i materiali inorganici, e che queste relazioni siano tali da mantenere condizioni idonee (o ottimali) alla vita e perpetuarla. L’intero pianeta sarebbe quindi una sorta di enorme organismo composto da elementi (esseri umani, altri animali, vegetali, batteri, rocce, alghe, metalli) che interagiscono tra loro in maniera per lo più invisibile per il mantenimento delle condizioni di stabilità. È stata proposta da James Lovelock negli anni Settanta e si è guadagnata subito le luci della ribalta, scientifica e no.
Se da un lato la comunità scientifica riconosce a Gaia di aver di aver fornito a ecologi e climatologi una nuova chiave di lettura per lo studio del pianeta (che mette in relazione cose prima considerate distanti come le attività umane e gli ecosistemi), dall’altro era e rimane problematica sia come teoria che come ipotesi. Impossibile da mettere alla prova, per i critici Gaia è sempre stata un’idea in contrasto con teorie e paradigmi collaudati come, per esempio, l’evoluzione darwiniana, che mal si adatta al pensiero di un intero pianeta che in qualche modo riesce a cooperare per il bene di tutti. I cicli biogeochimici esistono davvero, come esiste la capacità degli ecosistemi di resistere ai cambiamenti: non per questo, però, dobbiamo dedurre che il pianeta sia guidato da uno scopo. Negli anni, Stephen Jay Gould e altri pesi massimi dell’evoluzionismo hanno contestato Gaia proprio a partire da questo terreno. Più possibilista, anche se mai pienamente convertito, fu il genetista William Donald Hamilton. Decisamente favorevole, invece, Lynn Margulis, nota e a sua volta controversa scienziata che pubblicizzò la teoria endosimbiontica e che lavorò con Lovelock. Oggi, alcuni considerano Gaia vicina alle pseudoscienze, anche se non mancano lavori teorici che propongono invece degli aggiustamenti per poterla inserire nell’alveo della scienza mainstream. In generale si può dire però che lo scetticismo continua a prevalere.
Fuori dall’accademia, Gaia è oggi invece un’entità fortissima, molto pop. Il suo messaggio è così penetrante ed ecumenico che, annacquato e spesso deviato, è arrivato a influenzare romanzi di fantascienza di culto e blockbuster cinematografici come Avatar, riflessioni zen e saggi divulgativi, programmi scolastici e documentari. È una visione grandiosa, che spodesta ancora una volta l’essere umano dal centro dell’universo – viviamo in un complesso sistema sinergico e autoregolante –, perfetta per veicolare un certo tipo di ambientalismo. Siamo parte di un tutto più grande di noi.
La storica della scienza Leah Aronowsky ha raccontato come l’ipotesi di Gaia si sia sviluppata nell’ambito della ricerca ambientale finanziata da una compagnia petrolifera, la Royal Dutch Shell.
C’è però un particolare di questa storia che fino a poco tempo fa era ancora molto poco raccontato: riguarda la genesi di Gaia. La storica della scienza Leah Aronowsky l’ha raccontata nel suo saggio “Gas Guzzling Gaia” pubblicato a gennaio sulla rivista Critical Enquiry dell’Università di Chicago. Lì ha ricostruito le non poche ambiguità della carriera di Lovelock. Prima su tutte: l’ipotesi di Gaia si è sviluppata ed è stata sostenuta nell’ambito della ricerca ambientale finanziata da una compagnia petrolifera, la Royal Dutch Shell. E negli anni, secondo Aronowsky, ha finito per produrre un modo di fabbricare ignoranza in questo contesto: far passare l’influenza umana sull’ambiente a livello globale come un incidente riassorbibile dalle dinamiche di protezione naturale del pianeta.
È una storia lunga, impossibile da raccontare senza immergersi in qualche tecnicismo. Ma è importante ripercorrerla per comprendere la forza, a volte inconsapevole, che hanno alcune narrazioni, e le loro distorsioni e manipolazioni che rimangono troppo spesso ben nascoste.
L’alba di Gaia
In un articolo pubbliredazionale della Exxon uscito sul New York Times nel 1995 si legge:
A chi pensa che industria e natura non possano coesistere rispondiamo di mostrare un po’ di rispetto per Madre Natura. Lei è una signora tosta, resiliente e capace di rinnovarsi. L’ambiente si riprende sia dai disastri naturali che da quelli creati dall’uomo…. Questo giustifica o sminuisce l’impatto dell’inquinamento industriale? Naturalmente no. Quello che vogliamo dire è che la natura, attraverso i millenni, ha imparato a reagire. Madre Natura è piuttosto brava ad affrontare la natura umana.
Anche se il parallelo non è mai esplicitato, Madre Natura si comporta proprio come Gaia. Un sistema omeostatico capace di mantenere lo status quo. Sembra sacrilego pensare che una specie, per quanto intelligente, sia capace di alterare l’intero sistema Terra. Andrà tutto bene, diceva Exxon al pubblico, quando invece sapeva già, anche dagli studi che finanziava, che il riscaldamento globale di origine antropica era realtà.
Ovviamente di volta in volta l’industria si appropria della narrazione a lei più conveniente. Secondo Leah Aronowsky, non si tratta però in questo caso solo di opportunismo o di una fortuita affinità tra Gaia e Big Oil, visto che il percorso che portò Lovelock a Gaia cominciò proprio in una compagnia petrolifera.
Negli anni Sessanta Lovelock, che è un chimico di formazione e un geniale inventore, lavora come scienziato freelance. È noto in particolare per il suo lavoro sulla tecnica di chimica analitica chiamata gascromatografia. Nel 1957 ha inventato il rilevatore a cattura di elettroni, uno strumento che permette di trovare specifiche molecole anche a bassissime concentrazioni, e che rivoluzionerà lo studio dell’atmosfera. Per la Royal Dutch Shell lavora ad alcuni brevetti, ma nel 1966 Victor Rothschild, biologo e direttore delle ricerche della compagnia, gli chiede una consulenza: i combustibili fossili possono cambiare il clima?
A quel tempo non era solo l’ipotesi del riscaldamento globale a interessare gli scienziati. Le temperature medie dagli anni Quaranta sembravano scendere, dopo essere salite dall’inizio dell’industrializzazione. Gli scienziati avevano cominciato a pensare che fosse un effetto della torbidità atmosferica: alcune eruzioni vulcaniche e soprattutto la combustione degli idrocarburi da parte delle attività umane immettono infatti in atmosfera sostanze che schermano i raggi solari. Dovevamo a questo l’apparente raffreddamento? Nei suoi studi Lovelock risponde di sì: nel rapporto per la Shell scrive che, come ipotizzato, il riscaldamento precedente agli anni Quaranta è legato all’aumento di CO2, e che il raffreddamento degli ultimi anni è legato invece alla torbidità. E che entrambe le modifiche sono causate dalle attività umane.
Era un’ipotesi corretta: per quanto possa forse sembrare controintuitivo oggi, è vero che alcuni inquinanti, i solfati e gli aerosol in particolare, mascherano parzialmente l’aumento di temperatura che è invece guidato soprattutto da gas serra come CO2 e metano. Negli dagli anni Quaranta, e fino alla metà degli anni Settanta (complice anche l’eruzione del Monte Agung del 1963 che a sua volta aveva immesso sostanze schermanti), si assisteva così a un bilanciamento dei due effetti, dominato soprattutto però da solfati e aerosol. Per questo in quegli anni ci fu una lieve riduzione delle temperature (di circa 0,2 °C). Tanto che alcuni scienziati, compreso Lovelock, temevano che il raffreddamento delle temperature non si sarebbe fermato.
Con il tempo, però, le emissioni di CO2 – e di conseguenza il riscaldamento del pianeta – sono diventate dominanti. Anche perché – come scrive per esempio Stefano Caserini – a partire dalla metà degli anni Settanta “l’innovazione tecnologica e la richiesta di un’aria più pulita nelle città hanno portato alla diminuzione [di solfati e aerosol dannosi per la salute]”, mentre le emissioni di CO2 sono andate aumentando in maniera vertiginosa, ribaltando completamente i rapporti di forza e portando all’imponente riscaldamento globale per causa antropica che stiamo testimoniando negli ultimi decenni.
Torniamo a Lovelock. Negli anni Sessanta il chimico lavora anche per il Jet Propulsion Laboratory, il principale laboratorio della NASA, che sta escogitando modi per trovare la vita su altri pianeti. È lì che comincia a riflettere sulle proprietà dall’atmosfera del pianeta Terra, l’unico che ospita la vita. La nostra atmosfera è una conseguenza della vita stessa, pensa Lovelock: in mancanza di essa la miscela di gas che osserviamo, che è pressoché costante e mantiene “stabile” anche il clima del pianeta, non potrebbe esistere.
Da qui in poi inizia la parte ambigua di questa storia. Negli anni Settanta Lovelock torna alla Shell con una proposta: cercare fonti naturali, biologiche, per quella torbidità atmosferica che sembra raffreddare il clima. È vero, dice Lovelock, che il responsabile principale del raffreddamento è il solfato di ammonio, che si forma in atmosfera a partire dal diossido di zolfo prodotto dalla combustione. Ma è vero anche che alcune ricerche segnalano l’esistenza di alghe capaci di emettere dimetil solfuro, un’altra molecola che in atmosfera può restituire solfato di ammonio. Non può essere loro la colpa del raffreddamento climatico? A bordo della RRS Shackleton, una nave di ricerca, Lovelock scopre così che in mezzo mondo le alghe producono quel composto in abbondanza. L’inquinamento atmosferico potenzialmente in grado di cambiare il clima, allora, non era solo responsabilità umana: persino le microscopiche alghe potevano intorbidire l’aria.
E questo intorbidimento – ragionò Lovelock pensando ai suoi lavori con la NASA – non poteva a questo punto far parte a sua volta di un circuito omeostatico dove l’anidride carbonica tende a riscaldare il pianeta e i composti sulfurei a raffreddarlo, mantenendo il tutto stabile? Di certo, visto che le attività umane e il resto della biosfera producono le stesse molecole, non era possibile puntare il dito sulle prime come responsabili. Come scrisse Lovelock alla Shell:
Bisogna trattare con cautela ogni rapporto che proponga un’origine industriale per contaminanti scoperti recentemente solo perché all’apparenza non sembrano di origine naturale.
Quando ne parla sulla rivista Nature nel 1972, Lovelock tiene per sé le interpretazioni più ardite di queste scoperte: con i suoi co-autori, evidenzia il ruolo delle alghe nel ciclo dello zolfo ma non parla esplicitamente di regolazione del clima, e riconosce che i composti prodotti dalle alghe non hanno lo stesso potenziale di creare aerosol rispetto alle fonti fossili. In un altro articolo, su una rivista meno nota, però, Lovelock porta avanti le sue idee nate alla Shell: le parti della Terra non partecipano semplicemente ai cicli del pianeta, ma reagiscono, cambiano e si evolvono seguendo uno scopo: mantenere le condizioni per la vita.
Gli aspetti diretti della combustione sono i meno dannosi tra tutti tra quelli prodotti dall’uomo all’ecosistema planetario, perché il sistema potrebbe avere la capacità di adattarsi all’ingresso dei gas della combustione.
E ancora:
La falena punteggiata (la famosa Biston betularia, N.d.A.) è un confortante esempio di adattabilità; in pochi decenni ha reagito alla fuliggine che ora ricopre gli alberi nelle regioni industriali cambiando il colore delle ali. Se questa creatura può adattarsi così rapidamente alla più ripugnante delle emissioni di combustione, allora potrebbe farlo anche l’ecosistema.
Così scrive Lovelock sulle pagine di Atmospheric Environment, dove Gaia compare per la prima volta nel 1971. Ma è, qualche anno più tardi, un articolo su New Scientist, una rivista divulgativa che Aronowsky definisce “corporate friendly”, a segnare la sua ascesa. Ricordiamolo ancora una volta: non esisteva ancora il negazionismo climatico perché non esisteva ancora un consenso sul tema, e gli scienziati stavano ancora cercando di capire i motivi del calo delle temperature tra gli anni Quaranta e la metà degli anni Settanta.
Eppure già all’epoca, l’idea di uno scienziato aveva predisposto un’arma concettuale fondamentale per l’industria, che depotenziava l’idea stessa di inquinamento e metteva ai margini la specie che lo causava. Prima che le campagne di disinformazione (strategia già collaudata dall’industria del tabacco) si scagliassero contro i risultati della climatologia, e prima che i think tank finanziati dalle industrie fossili cominciassero a schermare la realtà del consenso scientifico con falsi esperti e campagne denigratorie, l’influenza degli esseri umani sull’ambiente era insomma già stata “naturalizzata”.
Gaia e i CFC
Nuovo capitolo. A metà degli anni Settanta lo stesso Lovelock scopre che i clorofluorocarburi (CFC) contenuti nei gas refrigeranti rimango a lungo in atmosfera. Alcuni scienziati lanciano allora l’allarme, perché questi composti si mangiano le molecole di ozono stratosferico che schermano la Terra da molti raggi UV. Ma Lovelock, nonostante tutto, rimane anche in questo caso scettico, e si mostra subito disponibile a usare la sua Gaia (senza nominarla) per rassicurare gli animi. Ingaggiato come esperto dalla compagnia chimica Dupont (il maggior produttore di refrigeranti), parla al congresso americano sostenendo che i timori di scienziati come Mario Molina e Sherwood Rowland sono infondati. Ancora una volta, per Lovelock, l’uomo sopravvaluta le proprie capacità trasformative rispetto all’intera biosfera, la quale comunque in qualche modo “saprebbe” cosa fare. L’assottigliamento dello strato di ozono potrebbe essere naturale e del tutto benigno, se osservato come parte di un meccanismo di feedback. La Terra, dice Lovelock, immette in atmosfera molti più composti del cloro di quelli costituiti dai CFC umani. Una delle fonti è costituita, di nuovo, da alcune alghe.
Dupont non si fa sfuggire l’occasione, e basa su questi principi la sua strategia difensiva: le fonti naturali di cloro sono molte e il pianeta probabilmente regola da solo la quantità di ozono. Per fortuna, quella volta finisce bene per il pianeta. Nel 1985 si scopre il “buco” nell’ozono antartico, non più occultabile dalla propaganda dell’industria. Grazie al protocollo di Montreal (1989) i CFC sono progressivamente banditi. L’ozono stratosferico comincia a riprendersi. I “catastrofisti” Molina e Rowland, che avevano ragione, ricevono il Nobel.
Di lì a poco, emerge anche il consenso scientifico sul riscaldamento globale. Nonostante qualche rivista sparli ancora in quegli anni di global cooling, cioè di una prossima era glaciale, la comunità scientifica ora sa che i gas serra prodotti dagli esseri umani guidano il surriscaldamento. Il raffreddamento di metà secolo era stata una parentesi dovuta in parte alla variabilità naturale e in parte proprio a un massiccio inquinamento atmosferico (non ancora regolato) dovuto all’enorme espansione industriale post bellica, un fenomeno di portata tale da schermare parte dei raggi solari (con l’aiuto di un paio di eruzioni vulcaniche). Il ruolo delle alghe e quello dell’autoregolazione atmosferica non sembrano più così decisivi. Dovrebbe essere sconfitta per l’ipotesi Gaia, almeno in teoria.
La storia è più grande di Lovelock
Nonostante tutto quello che abbiamo raccontato fin qui, Gaia diventa un simbolo ambientalista già negli anni Ottanta, riuscendo a far dimenticare i vari peccati originali del suo creatore, che nel frattempo ha iniziato a spendersi per la causa. Come raccontava Marco Ferrari sul Tascabile, Lovelock è tra i primi a lanciare l’allarme sui rischi del riscaldamento globale; lo fa già nel suo primo libro, Gaia, a New Look at Life on Earth, del 1979, dove si legge:
È stato detto che l’aumento dell’anidride carbonica agirà a guisa di coperta gassosa per tenere più calda la Terra. Si è anche discusso del fatto che l’aumento della foschia dell’atmosfera potrebbe produrre effetti di raffreddamento. È stata perfino fatta l’ipotesi che i due effetti si annullino a vicenda, ed è per questo che nulla di significativo si è verificato fino ad oggi a causa delle perturbazioni prodotte dall’impiego dei combustibili fossili. Se le previsioni di aumento sono corrette e se, col passare del tempo, il nostro consumo di questi combustibili continuerà a raddoppiare più o meno ad ogni decennio, sarà necessario stare in guardia.
Al tempo stesso, però, come dimostra la pubblicità della Exxon del 1995, Gaia influenza la strategia di comunicazione negazionista. Basta pensare a come si sminuisce l’aumento di CO2 di origine antropica. Si dice che non si può considerare un inquinante perché, si sa, la CO2 prodotta dai combustibili è la stessa molecola che espiriamo. Una molecola che è necessaria, perché fertilizza le piante, che cresceranno tanto più velocemente, rimuovendola dall’aria, quanto più è disponibile. L’essere umano è solo un semplice spettatore, ancora ignorante, del respiro di un pianeta vecchio e vivo, per così dire.
Lovelock allora si può considerare un negazionista, e in particolare un negazionista del cambiamento climatico? Probabilmente no, anche se l’aggettivo catastrofista da lui usato (anche in altri contesti) per molti suoi colleghi è senza dubbio caro a una certa retorica. E non si può nemmeno dire che Lovelock abbia tentato di nascondere i suoi rapporti con l’industria (nel suo Omaggio a Gaia, per esempio, parla esplicitamente dell’affaire Dupont).
Di certo aveva, e ha tuttora, una fama di scienziato come minimo contrarian, che l’ha portato spesso a sostenere ipotesi a volte tra loro distanti o addirittura contrastanti. Per esempio: Lovelock ha descritto nei primi anni Ottanta ipotetici meccanismi gaiani che stabilizzerebbero il clima anche a fronte dell’aumento di CO2. Ma quando alla fine è arrivato il consenso scientifico sul global warming, come abbiamo visto, non lo ha rifiutato. Si dice addirittura che, assieme ad altri, abbia convinto Margaret Thatcher a prendere sul serio la questione. Thatcher ne parlò in alcuni famosi discorsi alla fine del suo mandato, anche alle Nazioni Unite (sebbene poi, in seguito, tornerà sui suoi passi e nella sua autobiografia arriverà a citare fonti negazioniste).
Negli anni ha poi previsto ripetutamente (sulla stampa) scenari genuinamente apocalittici e irrealistici per il riscaldamento globale, solo per fare ammenda quando non si sono verificati. Ha anche avuto un rapporto problematico per, così dire, con la geoingegneria. Nel 2007 lui stesso ha argomentato che fertilizzando gli oceani sarebbe possibile aumentare la produzione primaria (alghe), che succhierebbe più anidride carbonica e allo stesso tempo emetterebbe in atmosfera quei composti dello zolfo che formano gli aerosol, schermando parte dei raggi solari. Un’altra presunta soluzione, come minimo controversa, da sempre sponsorizzata da Lovelock è l’energia nucleare, mentre non ha mai nascosto il suo disprezzo per le rinnovabili. Nel suo ufficio conserva una fotografia di una turbina eolica solo per ricordargli quanto le detesta; in compenso ha detto che il fracking era il futuro.
Quando chiedo, via mail, alla dottoressa Aronowsky un giudizio su Lovelock rispetto agli usi problematici della sua ipotesi, mi spiega che preferisce astenersi perché sarebbe anacronistico. Lovelock, che il 26 luglio compirà 102 anni, ha lavorato dopotutto in un periodo in cui la scienza climatica era ancora giovane e con poche certezze. Aronowsky pensa però che Lovelock, proprio perché è un ricercatore che si vive come un battitore libero, un contrarian, possa essere stato negli anni fatalmente “attratto da idee che giustificassero l’industria e umiliassero gli ambientalisti”. Il lavoro di studio e ricostruzione storica che Aronowsky ha portato a termine è nato, mi racconta, mentre lavorava alla tesi di dottorato (“The Planet as Self-Regulating System: Configuring the Biosphere as an Object of Knowledge, 1940–1990”, premiata nel 2019 dalla American Society for Environmental History). Aronowsky mi spiega così che Lovelock ha esplicitato il supporto della Shell nei primi lavori su Gaia e lo ha citato nelle sue prime descrizioni sulla nascita della teoria, ma che in seguito queste informazioni sono state “rimosse dalla narrazione di Gaia”. Questo ha portato la storica a dover recuperare e spulciare gli archivi di Lovelock, dai quali è stato possibile ricostruire la vicenda completa. Il contesto è quello che la studiosa chiama la “preistoria del negazionismo climatico”.
Gaia ha l’industria del gas e del petrolio nel DNA, ma non nel senso che è nata come strategia negazionista come la intenderemo oggi. L’incertezza scientifica di quegli anni e la mancanza di un pieno consenso, all’epoca non ancora maturo, hanno favorito, in parte, la sua nascita e hanno gettato le basi per quel tipo di negazionismo che vuole “naturalizzare” le emissioni. Secondo Aronowsky questa “preistoria” è importante perché va oltre l’attacco frontale al consenso scientifico più vicino a noi, e ci mostra invece quali tecniche, meno strategiche, hanno esplorato sin da subito queste industrie.
Aronofsky sta scrivendo un libro sulle scienze ambientali negli anni Settanta, l’epoca in cui cominciano a svilupparsi i regolamenti ambientali e il neoliberismo. Le chiedo quindi se ci sono altri casi simili nel suo volume. Mi spiega che gli anni Settanta e Ottanta sono stati un periodo in cui le industrie si prendevano il rischio di finanziare ricerche ambientali eterodosse e attiravano scienziati che altrimenti non sarebbero stati finanziati tramite i tradizionali enti di ricerca.
Quello di Lovelock di certo è l’esempio più famoso, ma altri scienziati hanno studiato fonti “naturali” di inquinanti con l’appoggio dell’industria. Come Reinhold Rasmussen, che studiò “lo smog prodotto dagli alberi”, un’idea poi impugnata dalla Dupont e da Ronald Reagan nella campagna presidenziale del 1979, con i famosi discorsi sugli “alberi killer”, che inquinerebbero più delle automobili. Come spiega oggi, per esempio, la NASA, il confronto non ha senso: gli alberi emettono molti composti organici volatili – VOC –, ma solo i prodotti della combustione – ossidi di azoto – portano l’ozono “cattivo” a livello del suolo nelle città. La scelta delle specie arboree in aree urbane e la loro disposizione deve tenere conto anche di questi aspetti, ma non ci sono dubbi sui benefici netti della vegetazione.
Nel frattempo, dalla preistoria di Gaia ai giorni nostri, il negazionismo ha continuato a evolversi. Nel suo ultimo paper Naomi Oreskes, storica e autrice di Mercanti di dubbi, ha analizzato assieme Geoffrey Supran la comunicazione di Exxon dal 1977. A partire dal 2000 la compagnia ha curato molte campagne per il risparmio energetico, per esempio. In questo modo da una parte ha esibito un’immagine più verde (e accettabile), dall’altra di fatto ha cercato di spostare il peso della crisi ambientale sulle scelte individuali dei consumatori. I comportamenti quotidiani virtuosi per l’ambiente sono infatti un’arma a doppio taglio. Testimoniano che individualmente abbiamo preso coscienza di un problema, è vero, ma le buone azioni non portano molto lontano senza organizzazioni collettive e senza una richiesta di nuove regole. Più recentemente un lobbista di Exxon ha spiegato che il loro supporto per la carbon tax è solo una posa. Sanno che in America non potrebbe concretizzarsi grazie all’opposizione repubblicana, ma la caldeggiano per rallentare i lavori su altre politiche e al tempo stesso far credere che la compagnia prenda il riscaldamento globale seriamente.
Gaia non è nata come strategia negazionista nel senso attuale. Ma l’incertezza scientifica di quegli anni ha favorito, in parte, la sua nascita, gettando le basi per quel tipo di negazionismo che oggi mira a “naturalizzare” le emissioni.
Pensando anche ai cambiamenti di significato di Gaia, chiedo a Luigi Pellizzoni, professore di sociologia dell’ambiente all’università di Pisa, se ci sono idee che associamo all’ambientalismo che possono essere cooptate. Pellizzoni mi spiega che ci sono state più volte forme di cattura del pensiero ecologista di questo tipo. “Il negazionismo climatico, per esempio, capovolge il principio di precauzione”. Il principio di precauzione, che è nato negli anni Settanta e costituisce il fondamento delle prime leggi tedesche contro deforestazioni e inquinamento, ci esorta ad agire in modo preventivo in presenza di un rischio reale anche se non stimabile con precisione per mancanza di dati, considerando anche la possibilità di conseguenze catastrofiche. “Il negazionismo, all’opposto, usa la stessa incertezza per opporsi a un cambiamento ritenuto troppo oneroso economicamente”.
Anche il concetto ormai tanto di moda di “resilienza” ha una storia complessa, spiega il professore, che ricorda da vicino le ambiguità di Gaia. “L’ecologo C.S. Holling introdusse il concetto di resilienza come una proprietà degli ecosistemi, che tendono a mantenere le relazioni ecologiche al suo interno e ad assorbire le perturbazioni”. Quando sono troppo profonde, l’ecosistema cambia, anche molto rapidamente. Oggi la resilienza è ovunque e include i sistemi sociali. Applicata non più agli ecosistemi ma all’unione tra società e ambiente, promuove di fatto il business as usual, cioè la volontà di mantenere la crescita economica davanti a qualsiasi difficoltà, “propugnando la capacità di adattamento rispetto ai suoi imperativi e alle sue dinamiche ineluttabili”. Resilienza, appunto, o status quo. Per molti autori i discorsi odierni sulla resilienza sono intrecciati all’ideologia neoliberista, che è stata da subito attratta dal concetto, a partire dall’economista Friedrich von Hayek. Una deriva pericolosa, se pensiamo all’enfasi posta sull’adattamento ai cambiamenti climatici, cosa comunque ormai necessaria ma che ha fatto passare in secondo piano i tentativi di evitarli o mitigarli il più possibile.
Oggi chi inquina può verniciarsi di verde finanziando interventi ambientali (per esempio la piantumazione di alberi) che neutralizzerebbero (ma solo sulla carta) il loro impatto. Sembra ancora una volta un equilibrio perfetto, degno di Gaia. Anche qui, però, siamo di fronte a un effetto ottico. Come ha scritto recentemente un gruppo di climatologi su The Conversation, infatti, anche questi interventi, nati con scopi nobili, si stanno rivelando una trappola. Prevedere la possibilità di bilanciare le nostre le nostre emissioni di CO2 con sistemi più o meno realistici per il suo sequestro (dalla piantumazione di alberi all’impiego di certe pratiche agricole che favoriscono il sequestro di CO2, fino ai sistemi artificiali di cattura dall’aria), il tutto regolato da un sistema di “crediti” e “debiti”, rischia di allontanarci ancora una volta da quello che, sempre di più, sappiamo essere l’unica via da percorrere.
Se vogliamo mettere al sicuro la popolazione, allora questo è il momento di tagliare drasticamente e in modo continuo le emissioni. Questa è la cartina da tornasole che deve essere applicata a tutte le politiche climatiche. Il tempo delle illusioni è scaduto.
L’autore ringrazia il dottor Christian Colella per le osservazioni, i consigli e i suggerimenti.