I l primo agosto 2007, due batiscafi raggiunsero il fondale marino del Polo Nord, a 4261 metri di profondità. Il team, comandato dall’esploratore Artur Nikolaevič Čilingarov, vi depose una capsula di titanio contenente la bandiera tricolore bianco, blu e rosso. Era l’atto conclusivo della missione “Arktika 2007”, concepita e realizzata per dimostrare al mondo che il fondale marino artico è russo. Cinque anni più tardi, l’associazione ambientalista Greenpeace lanciò la campagna internazionale “Save The Arctic”, denunciando la volontà di multinazionali e governi di puntare alle risorse boreali, idrocarburi per lo più, attuando una vera e propria colonizzazione, militare quanto economica, dello spazio al di sopra del Circolo Polare, reso sempre più accessibile dal progressivo recedere dei ghiacci.
Il tetto del mondo sta subendo una radicale trasformazione. Negli ultimi anni due libri in particolare, Artico Nero di Matteo Meschiari (Exòrma) e Artico. La battaglia per il grande nord di Marzio G. Mian (Neri Pozza), hanno denunciato l’intensificarsi della spoliazione e dello sfruttamento delle terre, dei mari e delle popolazioni. Ma l’Artico sarà davvero lo scrigno – ricco di petrolio, gas, pesce e metalli – per cui le grandi potenze mondiali si daranno battaglia, lo scacchiere geopolitico sul quale si giocheranno le sorti del mondo?
Per comprendere ciò che sta accadendo lassù è bene partire dai dati che gli scienziati raccolgono ogni anno e che mostrano una radicale quanto drammatica trasformazione in atto.
Un artico sempre più blu
Osservando i grafici che mostrano il declino del volume del ghiaccio marino, il climatologo statunitense Mark Serreze ha definito la curva “la spirale della morte dell’Artico”. Nel libro Addio ai ghiacci (Bollati Boringhieri), l’esperto Peter Wadhams scrive che “non siamo molto lontani da un’estate artica senza ghiaccio”. La progressiva scomparsa dei ghiacci nel mar Glaciale Artico è causata dal riscaldamento globale: con l’aumentare delle temperature medie globali, il ghiaccio non solo fonde di più, specialmente in estate, ma subisce anche un pericoloso processo di assottigliamento. Inoltre, gli scienziati hanno capito che in questa zona del mondo gli effetti del surriscaldamento sono più consistenti. Si tratta di un fenomeno complesso noto come “amplificazione artica”, i cui effetti diretti vengono misurati ogni anno.
Il 2018 ha confermato gli andamenti negativi collezionati nei decenni precedenti. I satelliti hanno registrato che l’estensione di ghiaccio invernale è stata la seconda più bassa di sempre negli ultimi quarant’anni (quella estiva, la sesta). Secondo l’Artic Report Card 2018 redatto dal NOOA statunitense: “il ghiaccio marino è rimasto giovane e sottile, e ha coperto un’area minore rispetto al passato”. Gli andamenti sono allarmanti, e lo sono ancora di più alla luce del fatto che quanto avviene in quest’area del pianeta influenza le temperature globali: il variare del “sistema artico” genera una serie di retroazioni positive sul sistema stesso (cioè il sistema si autoalimenta e le condizioni si aggravano con più velocità e intensità), causando il peggioramento dello stato di salute del clima terrestre. Un Artico senza ghiacci, meno bianco e più blu, aumenta la temperatura della febbre che colpisce il nostro pianeta.
Meno ghiaccio, più spazio
Un oceano artico più blu è un oceano artico navigabile, sebbene resti una distesa d’acqua assai poco clemente. Il cambiamento climatico potrebbe favorire la nascita di nuove rotte navali, percorribili con o senza l’ausilio dei rompighiaccio, soprattutto nei mesi estivi, e l’intensificarsi del traffico marittimo lungo arterie finora non sfruttate appieno per via della loro pericolosità. Le vie sono tre: il celebre Passaggio a Nord-Ovest, che collega Atlantico e Pacifico attraverso l’arcipelago canadese (circa 35 mila isole, con canali e stretti spesso ghiacciati); la rotta marittima settentrionale (Northern Sea Route), che corre lungo le frastagliate coste russe dal mar di Barents – dove sorge Murmansk, la città più popolosa dell’Artico – allo stretto di Bering; la rotta transpolare, che taglia l’oceano polare in due ed è la più esposta ai capricci del ghiaccio, del mare e delle condizioni atmosferiche.
Il libro di Marzio G. Mian si sofferma sul consolidamento delle rotte artiche e, in particolare, sui cambiamenti che questi nuovi assetti stanno creando nei paesi interessati e nelle popolazioni locali. A fronte di spese maggiori sulle polizze assicurative (una traversata artica comporta seri rischi anche senza ghiaccio), le rotte polari permetterebbero un vantaggio temporale non indifferente, soprattutto per quanto riguarda i collegamenti eurasiatici, che potrebbero così svincolarsi dal Canale di Suez e da altri snodi pericolosi situati nell’oceano Indiano. Inoltre, l’utilizzo di nuove vie garantirebbe investimenti per le città del nord, assicurando lo sviluppo di porti e industrie, come è nei piani di diversi paesi, fra cui Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda e Groenlandia (che resta, nonostante alcune concessioni degli ultimi anni, amministrata dalla Danimarca).
Ma non sono soltanto le rotte navali, ora “facilmente” percorribili dalle gigantesche portacontainer, a far venire l’acquolina in bocca a governi e multinazionali. Anche le risorse celate nei mari e nei fondali artici sono oggetto di stime e di prospezioni da parte di numerosi attori mondiali. Gli stock ittici presenti nel mar Glaciale Artico potrebbero essere una risorsa preziosa nel mondo di domani, che nel 2050 sarà popolato da più di 9 miliardi di persone. Allo stesso modo, le riserve di idrocarburi presenti al di là del Circolo Polare potrebbero rappresentare una manna per molti paesi affamati di petrolio e gas. Le stime tuttavia sono imprecise e discordanti: si va dal 13% al 25% delle riserve petrolifere mondiali, a seconda degli studi. Per alcuni paesi affacciati sull’Artico le riserve di idrocarburi costituiscono già oggi una preziosa risorsa, su cui si basa gran parte del Pil interno.
È ovviamente il caso della Russia di Putin, che estrae gas naturale in gran quantità lungo le sue coste settentrionali, che si estendono per oltre 6000 chilometri. Le installazioni sono sempre più colossali, a partire dalla centrale nucleare galleggiante Akademik Lomonosov, posizionata nell’estremo oriente russo per fornire energia alla regione e alle attività estrattive. Allo stesso modo la Groenlandia, là dove arrivano investimenti cinesi e sovvenzioni danesi per sostenere le miniere di metalli, anche preziosi e rari, che sorgono in tutto il paese, si respira aria di cambiamento.
Una nuova corsa all’oro?
Se si osserva una mappa della zona artica, appare chiaro che a beneficiare dei previsti nuovi andamenti del traffico economico mondiale sarebbero soprattutto le grandi potenze, Russia in primis. Mosca crede fortemente nell’Artico come luogo in cui può essere nuovamente grande. Infatti non esiste altro paese al mondo così presente e così forte in quest’area (a cominciare dal numero di rompighiaccio, dalla potenza della flotta e dal completo controllo della rotta marittima settentrionale). Gli Stati Uniti hanno recentemente riattivato le proprie forze, mettendo in moto la II flotta, di base nell’Atlantico, sciolta da Obama nel 2011 a causa dell’affievolirsi della minaccia russa. Il terzo attore è ovviamente la Cina, interessata a trovare nuove vie per le proprie navi commerciali e aree in cui investire i propri capitali, come sta accadendo, per esempio, in Groenlandia e in Islanda. La “via della seta polare” (Frozen Silk Road), come è stata definita, resta un interesse di primo piano per Pechino, i cui intenti sono esplicati nel “libro bianco”, un documento pubblicato nel gennaio del 2018 in cui vengono illustrate le politiche che il gigante cinese intende attuare al di là del Circolo Polare.
A conti fatti, viste le risorse e la posta in gioco, tutto fa sembrare che sia in atto una corsa all’oro simile a quella che portò i pionieri americani a colonizzare i territori dello Yukon, i cui fiumi grondavano di pepite gialle. Non tutti si adeguano ai toni di questa narrazione, oggi dominante in quotidiani, saggi e periodici. Secondo il numero di febbraio della rivista di geopolitica Limes, dal titolo La febbre dell’Artico, le rotte polari non saranno poi così determinanti come si potrebbe pensare e la corsa ai giacimenti non sarà né immediata né caratterizzata dall’intensità di cui oggi si parla. Nel 2018 hanno percorso la Northern Sea Route soltanto 27 navi da trasporto (numero che stenta a crescere, come dimostrano i dati pubblicati dal Northern Sea Route Information Office); tanto per fare un confronto: il Canale di Suez, snodo centrale del traffico marittimo mondiale, ha registrato nel 2018 il transito record di 18174 navi. Anche la situazione dei giacimenti di idrocarburi è smentita dai fatti; scrive uno degli autori del numero: “La maggior parte dei giacimenti di gas e petrolio – tanto quelli onshore quanto quelli offshore – si trova nelle Zee [Zone economiche esclusive] degli stati artici […], circa il 90% delle risorse energetiche circumpolari è già sotto il controllo degli stati litoranei”. Nessuna corsa all’oro nero e al gas metano quindi, dato che non sarà necessario appropriarsi delle risorse altrui o di quelle che ancora non hanno un padrone, queste ultime infatti probabilmente resteranno tali perché di difficile o troppo costoso accesso.
Se i paesi sopracitati non scateneranno una guerra economico-politica per l’Artico, è comunque probabile che al di là del Circolo Polare si possano verificare degli attriti. Non una guerra per l’Artico dunque, secondo Limes, ma una guerra in Artico, laddove sarà lo scenario di frizione che si è venuto a creare a costituire un teatro adatto al verificarsi di scontri militari.
Ciò non toglie che l’oceano artico stia diventando nuovamente, a decenni di distanza, il palcoscenico in cui le potenze mondiali mostrano la propria forza, soprattutto militare e scientifica. Per la prima volta dagli anni Ottanta, la Norvegia ha ospitato un’esercitazione militare della NATO in grande stile, l’operazione “Trident Juncture”. Svoltasi nell’autunno del 2018, ha coinvolto 250 aerei, 65 navi e 10000 veicoli, appartenenti a 31 nazioni. L’obiettivo dell’esercitazione non è difficile da intuire: mostrare a Mosca lo stato di salute delle forze degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma sottomarini nucleari e satelliti militari non sono i soli a concentrarsi sull’Artico, ogni anno numerosi scienziati da ogni parte del mondo passano il Circolo Polare, partecipando a missioni nazionali e internazionali che svolgono un ruolo sia scientifico che esplorativo, garantendo la presenza di stati non artici a quelle latitudini. Anche l’Italia fa la sua parte: la base artica tricolore “Dirigibile Italia”, dove si effettuano numerose operazioni di monitoraggio e di ricerca, sorge nell’insediamento di Ny-Alesund, nelle Isole Svalbard. Inoltre, il nostro paese è una voce di primo piano, soprattutto tecnologica, dell’ARCSAR, network responsabile della sicurezza e delle emergenze nell’Atlantico settentrionale e nell’area artica.
Chi paga la colonizzazione
Il sistema che va a caccia di risorse e depaupera i territori colpisce poi anche gli esseri che animano il ricco ecosistema polare. La progressiva scomparsa del ghiaccio marino artico toglie a numerose alghe il substrato su cui possono crescere, facendo sì che lo zooplancton, la massa di organismi di piccole e piccolissime dimensioni che si muovono nelle correnti, non possa più sostenere la rete alimentare. Come veniva spiegato sul Guardian nel 2017, è un problema di sincronicità: una volta modificato un ecosistema in modo sostanziale, l’intera struttura, composta di innumerevoli cicli vitali, mutualismi e dipendenze, viene disgregata, dal microscopico crostaceo all’orso polare. Della specie simbolo dell’Artico si stima sopravvivano 26ooo esemplari, numero destinato a calare, secondo la IUNC, anche del 30% al 2050.
Ma esiste anche un tributo di vite umane. Secondo le stime, un decimo delle popolazioni artiche è considerato “indigeno”: 400.000 persone, metà delle quali sono inuit (che abitano porzioni di Canada, Alaska e Groenlandia) e sami (che vivono in Lapponia, nella Scandinavia settentrionale). Insieme ai tanti popoli che dimorano nelle regioni inospitali della Russia settentrionale e orientale – Chiukci, Jakuti, Nenet. In Artico Nero, l’antropologo Matteo Meschiari traccia un dipinto rupestre a tinte fosche di questi “racconti etnografici”, descrivendo la lunga notte dei popoli dei ghiacci, la cui storia è caratterizzata dal sopruso, dallo stupro, dal massacro e dalla marginalizzazione operata dai colonizzatori di turno. Un genocidio etnico costante, i cui risultati sono ancora oggi evidenti: bassa speranza di vita, mortalità elevata per cause quali incidenti accidentali, abuso di droga e alcol, suicidio. In Russia numerose popolazioni del nord vivono in uno stato di difficile inquadramento amministrativo, a causa di una burocrazia che separa, allontana e isola invece di impegnarsi a preservare per impedire a culture e lingue di svanire per sempre. È lecito dunque chiedersi se nel tratteggiare gli scenari futuri del tetto del mondo non stiamo dimenticando di considerare la presenza di qualcuno che sta traghettando con grande sforzo nella modernità un bagaglio di tradizioni secolari.
Verso nord
È probabile che nei prossimi anni non assisteremo alla colonizzazione militare ed economica dell’Artico. O meglio: gli equilibri a nord del Circolo Polare cambieranno, ma la situazione non sarà, almeno dal punto di vista geopolitico, una vera e propria crisi dettata dalla ricchezza della regione o dalle mire di alcuni stati assetati di idrocarburi. Gli articoli e le analisi sul destino del nord non sono mai state numerose come oggi – o forse lo sono stati poco più di un secolo fa, quando l’Artico era terra di conquiste ardite e spedizioni epiche. Quel che è certo è che lo spazio lassù sta mutando, per una ragione ben precisa. Come scrive Bruno Latour in Tracciare la rotta (Raffaello Cortina): “Se il Terrestre non è più la cornice dell’azione umana è perché esso vi prende parte. Lo spazio non è più quello della cartografia, con la sua quadrettatura di longitudini e latitudini. Lo spazio è diventato una storia convulsa di cui noi siamo dei partecipanti tra altri, che reagiscono ad altre reazioni”.
A prescindere dalle mappe geopolitiche e dal mito dell’Artico, rilanciato e ricostruito tanto dagli attori economico-militari quanto dagli intellettuali e dagli scienziati, resta la termodinamica di un pianeta che si sta radicalmente modificando. Sarebbe bene ricordare sempre, prima di ogni analisi, che il nord del futuro sarà più caldo, più accessibile e, soprattutto, più popolato. Come ricorda Laurence C. Smith in 2050. Il futuro del nuovo Nord (Einaudi): “la prima forza globale è la demografia”. Forse le generazioni a venire punteranno a nord, in cerca di nuovi spazi, scappando da territori allagati e desertici, come fanno le carovane di migranti climatici descritte da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori (Guanda). Cosa ne sarà dell’Artico, allora? E cosa ne sarà rimasto?