A ll’ospedale Sion di Mumbai la media, prima della pandemia, era di cinque o sei casi all’anno. Nel solo mese di aprile 2021, invece, i malati di mucormicosi, meglio noto come fungo nero, veicolato dai miceti della famiglia dei Mucorales, sono stati ventiquattro: undici hanno perso un occhio, sei sono morti. In altri tre ospedali della città i casi, sempre in aprile, sono stati quaranta, con undici asportazioni dell’occhio, mentre i report del periodo dicembre-febbraio di Bangalore, Hyderabad, Pune e Delhi hanno aggiunto un’altra sessantina di casi, con un aumento continuo, e con un chiaro legame tra micosi e diabete. In base ai dati più recenti, i malati indiani sarebbero ormai 12.000, e i numeri sarebbero in forte crescita anche in Bangladesh, Pakistan, Russia e Brasile, per un totale di 38 paesi interessati dalla nuova crisi sanitaria collaterale e collegata a quella di COVID.
Sono le cosiddette “infezioni opportunistiche” che sempre si fanno vive insieme o subito dopo le grandi epidemie, causate da microrganismi di solito non pericolosi ma che, nelle giuste condizioni – quali, per esempio, un sistema immunitario non perfettamente efficiente – magari dopo qualche mutazione prendono vigore, e diventano invincibili. Non a caso, è stata l’infezione data dal micete (opportunista) Pneumocystis carinii a svelare, oltre 40 anni fa, l’indebolimento patologico delle difese dato dal virus dell’HIV.
Se il fungo nero preoccupa l’India e il mondo, al punto che un recente articolo di Lancet invita a prendere molto sul serio la situazione, un altro fungo allarma il Brasile e gli Stati Uniti, insieme a molti altri paesi. In tutto il mondo, infatti, le micosi secondarie alla COVID hanno un aspetto ancora più inquietante: quello della Candida auris, micidiale micete contro il quale non esistono cure, che resiste al freddo e sulle superfici degli oggetti, così come a tutti i funghicidi e detergenti noti, e uccide due terzi delle persone che contagia. E in moltissimi paesi – Italia compresa – si segnala la presenza anche di altre micosi molto aggressive, non di rado del tutto insensibili ai trattamenti, che colpiscono i malati di COVID ma anche chi, all’apparenza, è guarito.
Secondo lo sparuto drappello di esperti di funghi patogeni, settore della ricerca mondiale da decenni del tutto negletto e sottofinanziato, la combinazione di riscaldamento globale (i miceti amano il tepore), crisi sanitarie e idriche, sovraffollamento, povertà, spostamenti, alterazione degli equilibri del suolo e in generale dell’ambiente per eccessi di fitofarmaci potrebbe scatenare nuove epidemie, o addirittura pandemie di micosi. Agevolate, anche, da un elemento nuovo e paradossale: se fino a un secolo fa le persone che si ammalavano di un tumore, di una patologia del sangue o di una malattia autoimmune grave non vivevano molto, oggi vivono spesso una vita lunga e quasi normale, perché esistono i farmaci. Ma vivono da immunodepresse, e diventano quindi vittime ideali di tutte le infezioni che si accaniscono su chi non ha le difese efficienti, e soprattutto delle micosi opportunistiche. Con un’aggravante: contro i funghi, l’umanità è forse ancora più indifesa di quanto non sia stata di fronte ai coronavirus.
I miceti, infatti, hanno alcune caratteristiche che li rendono quasi imbattibili, rispetto a virus e batteri, e trovare farmaci adatti è sempre stato assai complicato.Innanzitutto si trovano ovunque, dalla cute agli organi interni, così come sugli oggetti, nell’aria, nell’ambiente, ed è quasi impossibile annullarne la presenza: secondo alcune stime, ogni abitante della Terra inala ogni giorno non meno di mille spore di specie diverse. Poi sono estremamente resistenti, grazie proprio alle spore, che consentono loro di sopravvivere in una sorta di ibernazione perenne anche per centinaia di anni, anche in condizioni proibitive. Inoltre sviluppano presto resistenza ai funghicidi (sparsi con grande generosità nei terreni di tutto il mondo per decenni), aspettando pazientemente che il mondo attorno a loro torni amichevole e consenta un risveglio florido, e la ripresa della loro inarrestabile marcia evolutiva. Durante quest’ultima, poi, mutano, e si adattano a ospiti sempre nuovi.
E non è tutto. Le loro cellule, a differenza di quelle animali, hanno una parete che li difende. A differenza delle piante, non sono in grado di produrre il cibo da sé. A differenza dei batteri, poi, mantengono il loro DNA in organelli ben organizzati. Sono insomma talmente strani, e in alcuni aspetti simili agli essere umani, che capire in che punto sferrare l’attacco non è affatto banale. Ciò spiega perché ci siano così poche terapie, a fronte di una popolazione di persone sensibili e infettate in crescita costante.
Secondo lo sparuto drappello di esperti di funghi patogeni la combinazione di riscaldamento globale, crisi sanitarie e idriche, sovraffollamento, povertà potrebbe scatenare nuove epidemie, o addirittura pandemie di micosi.
Al momento le classi di farmaci efficaci sono cinque, contro le venti di antibiotici, e ognuna di esse è stata introdotta in media ogni 20 anni, a partire dagli anni Cinquanta e dal primo farmaco efficace, l’amfotericina B. Ma, attualmente, nelle pipeline delle aziende, le molecole in sviluppo preclinico o clinico sono pochissime (fino a pochi anni fa non ce n’era neppure una), mentre una sola novità, l’olorifim, sviluppato in Germania, attende ancora il via libera. Eppure, tra i sei milioni di specie note, non meno di 300 sono patogene per l’uomo, e secondo stime molto approssimative, e approssimate per difetto, le micosi, ogni anno, già prima della COVID uccidevano 1,6 milioni di persone: più della malaria, tante quante la tubercolosi.
Tutto questo era ben noto, ma lo si è capito ancora più drammaticamente sin dalle prime settimane della pandemia, con i primi resoconti che venivano dalla Cina: in diversi ospedali tra quelli travolti dalla prima ondata, dove i medici operavano freneticamente su pazienti gravissimi e immunocompromessi dalla malattia o dalle terapie, i focolai si sono diffusi in modo mai visto prima, approfittando anche dei guanti, delle visiere, dei camici, e di tutta la strumentazione delle terapie intensive come i cateteri, i kit per le intubazioni e la ventilazione, controllata e sterilizzata per il coronavirus, ma non per i miceti. Poche settimane dopo, implacabili, sono arrivate le segnalazioni dall’India, dalla Colombia, dalla Germania, dall’Austria, dal Belgio, dall’Irlanda, dall’Olanda, dalla Francia e dall’Italia. Lo stesso, poi, è puntualmente avvenuto durante la seconda ondata, nella quale alla Candida auris e ai Mucorales si è affiancato almeno un altro incubo degli ospedali, l’Aspergillus, altro fungo che provoca polmoniti spesso incurabili e letali.
Storie davvero emblematiche di ciò che è successo, ma anche di ciò che potrebbe succedere. L’infezione da Mucorales, finora, era molto rara, al punto che la diagnosi avveniva spesso post mortem, anche perché i sintomi, di solito, non erano gravi e non venivano riconosciuti. In caso di dubbio, comunque, per accertarne la natura era (ed è) indispensabile una biopsia cutanea, fatto che ha reso la diagnosi, nell’India sotto scacco da parte della variante delta, del tutto irrealistica. L’infezione sarebbe stata comunque curabile, almeno per una parte di malati, ma la terapia richiede un’infusione intravenosa quotidiana (e quindi un ricovero, o almeno l’intervento di personale specializzato) per almeno otto settimane, al costo di una cinquantina di dollari a fiala. “Lussi” che la maggior parte dei malati indiani di COVID non può permettersi. Per questo i medici hanno iniziato a vedere pazienti così gravi. E quando questi cercavano aiuto, avevano ormai infezioni talmente estese da richiedere l’asportazione dell’occhio (o, in rari casi, della mandibola) per evitare che il fungo, dalle cavità oculari, raggiungesse il cervello. Un paziente su due, comunque, non ce l’ha fatta, e ancora oggi è così.
Secondo chi sta cercando di capire perché questa micosi sia diventata così aggressiva, la situazione sta sfuggendo di mano perché l’unica terapia cui hanno accesso i malati di COVID sono i cortisonici, molto economici. I quali possono salvare dal virus, ma abbassano le difese, lasciando il campo a infezioni opportunistiche di ogni tipo, soprattutto quando il malato si trova già in condizioni precarie. Anche la crisi della Candida Auris si è sviluppata per motivi simili, come hanno raccontato sul Journal of Fungi i microbiologi dell’Università di San Paolo, descrivendo gli ingredienti della ricetta mortale: reparti sovraffollati. Personale mentalmente e fisicamente esausto. Carenza di materiali sterili monouso. Confusione ed emergenza permanente. Pazienti fragili, curati con terapie che indeboliscono il sistema immunitario. Errori nelle diagnosi.
I primi due casi sono stati individuati a Salvador, nello stato di Bahia, in dicembre. Poi una decina a San Paolo, tutti nello stesso ospedale. Ora le segnalazioni sono continue, in tutto il paese. Un allarme analogo è intanto arrivato ancora dall’India, dove un intero reparto di terapia intensiva di New Delhi – 65 letti – è stato invaso dalla Candida auris, e due terzi dei pazienti sono morti.
Poi ne sono giunti altri, da 40 paesi di tutti i continenti a parte l’Antartide. In Italia, i focolai peggiori sono stati scoperti a Genova, all’Ospedale San Martino, dove peraltro la Candida auris si era già manifestata nel 2019. Ma, anche in questo caso, la domanda è: da dove arriva questa micosi così aggressiva di cui, finora, si era sentito parlare solo sporadicamente per singoli casi? La Candida auris è sempre stata presente nell’organismo umano, dove era abituata a convivere con il resto del microbiota senza provocare infezioni, a differenza di altre specie di Candida. Ma poi, a un certo punto, per motivi mai chiariti, all’inizio degli anni Duemila (il primo isolamento è avvenuto in Giappone nel 2009), ha imparato a passare da un essere umano a un altro e a sopravvivere su molte superfici su cui prima moriva. Questo le ha consentito di farsi largo nel caos dei reparti COVID, dove tutta l’attenzione era sui coronavirus. E di dispiegare tutto il suo potenziale distruttivo.
Al momento l’efficacia delle terapie antimicotiche è prossima allo zero e i farmaci, quando riescono a fare qualcosa, devono comunque essere dati per settimane a concentrazioni 4-5 volte superiori rispetto a quelli usati per le altre micosi, anche se hanno pesanti effetti collaterali. Lo stesso vale per i fungicidi per le superfici, del tutto inutili. Infine c’è lo spauracchio di tutti gli ospedali, l’Aspergillus fumigatus, un fungo ubiquitario accompagnato da un lugubre primato, perché è ormai resistente a tutte le terapie, e nei pazienti con gravi malattie, è associato a una mortalità è del 100%. Subito, fino dai primi giorni della pandemia, l’allarme è stato altissimo, anche perché era ancora vivo il ricordo delle vittime registrate in diversi paesi durante la pandemia di influenza aviaria del 2009 decedute proprio per un’infezione opportunistica da Aspergillus. Ma è stato tutto relativamente inutile: focolai, e vittime, sono già emersi, tra gli altri, in Cina, Francia, Belgio, Germania, Olanda, Irlanda, Iran e Italia, mentre un’indagine nei cinque ospedali della rete della Johns Hopkins University di Baltimora ha svelato che un ricoverato per COVID grave su dieci aveva anche un’aspergillosi – un’infezione dell’apparato respiratorio causata dall’inalazione delle spore del fungo Aspergillus – e che questa era stata la causa di morte per la stragrande maggioranza di loro.
Ma un’altra storia che arriva dal Brasile, che non ha niente a che vedere con la pandemia, aiuta a capire verso quali rischi stia andando un’umanità del tutto impreparata, e altrettanto distratta: una storia di gatti. È il 1998 quando alcune decine di gatti a Rio de Janeiro, nei quartieri più poveri, iniziano a manifestare orribili segni di una misteriosa malattia: escrescenze alle orecchie, gonfiori e pus agli occhi, tumori alla mandibola. Nessuno se ne preoccupa, e i bambini delle favelas continuano a giocare con i gatti malati ogni giorno, nonostante i casi nel frattempo siano diventati centinaia. Nel 2001 i medici della Oswaldo Cruz Foundation si rendono conto di aver curato, in meno di tre anni, duecento persone con lesioni simili, soprattutto le mamme e le nonne di quei bambini, e ne analizzano accuratamente le biopsie. Non ci sono dubbi, il responsabile è un fungo, uno Sporothrix, fino a quel momento considerato del tutto innocuo per l’uomo ma, in tutta evidenza, mutato, e diventato capace di trasmettersi da animale a uomo, e da uomo a uomo. Per questo la variante conquista un suo nome, Sporothrix Brasiliensis, ed entra ufficialmente nel novero dei patogeni umani. Nel 2004 i casi sono poco meno di 800, nel 2011 sono già 4.100, e nel 2020 si stima siano almeno 12.000, con malati a migliaia di chilometri di distanza da Rio, mentre focolai emergono anche in Paraguay, Argentina, Bolivia, Colombia e Panama. Il fungo dei gatti, inoltre, colpisce anche i roditori che, con ogni probabilità, sono stati i veicoli dell’infezione su distanze così ampie, attraverso le merci. Perché i funghi, molto più dei batteri e dei virus, viaggiano con le persone e le merci, e resistono fino alla destinazione finale.
Le epidemie da funghi ci sono sempre state, e non di rado hanno segnato punti di non ritorno nella storia dell’umanità.
Nella storia, del resto, le epidemie da funghi ci sono sempre state, e non di rado hanno segnato punti di non ritorno. Tra le più note vi è quella da Phytophtora infestans, la peronospera artefice della catastrofica crisi della patate irlandesi del 1840. E poi quella del 1870 da Hemileia vastarix, la ruggine del caffè, che ridisegnò completamente le colture coloniali, annientando la produzione di caffè in tutto il Sud Est asiatico e causando il trasferimento delle piantagioni in Sudamerica. Oggi, più vivace e attiva che mai proprio in Sud America, e rinforzata dal riscaldamento del clima e dalla crisi del Covid, durante la quale la sorveglianza si è allentata, potrebbe far compiere al caffè il viaggio inverso, o una nuova migrazione verso rotte inedite. E poi, negli anni venti del Ventesimo secolo, quella di Cryphonectria parasitica che quasi annientò i castagni dei monti Appalachi, al punto che fu necessario abbatterne a milioni per evitare che l’epidemia arrivasse nelle città. Contro queste catastrofi agricole c’è stata e c’è ancora oggi una grande mobilitazione. Pochissimi ricercatori, però, in tutti questi anni, si sono preoccupati di un possibile spillover all’uomo, nonostante le crisi recenti dimostrino la grandissima duttilità dei miceti, e la loro capacità di espandere la propria nicchia.
La speranza, anche in questo caso, potrebbe venire dai vaccini, che stanno conoscendo un nuovo impulso anche se, dagli anni Quaranta (epoca dei primi tentativi) a oggi nessuno è mai riuscito nell’impresa. Perché anche i funghi, come gli altri microrganismi patogeni, lasciano impronte nel sistema immunitario. E ciò significa che un vaccino è possibile. Al momento c’è molta speranza per un prodotto contro un fungo dei cani che può infettare anche l’uomo, un Coccidioides un tempo endemico solo negli stati desertici degli Stati Uniti, oggi diffuso in tutto il paese, e causa di quella che viene chiamata la Valley Fever. Le sperimentazioni stanno andando bene, e presto potrebbe essere approvato per uso veterinario. In caso fosse così, il passaggio all’uomo sarebbe meno lungo del previsto. Ma per qualunque altro vaccino contro una micosi ci vorranno, secondo le stime più ottimistiche, non meno di 5-7 anni. Sperando che, nel frattempo, nessun micete capisca come mutare per farsi ulteriormente largo in Homo sapiens