Centre Hospitalier, Fontainebleau, 10 gennaio 1960.
Il biologo dell’Istituto Pasteur, Jacques Monod, è accorso in ospedale per far visita all’amico scrittore Albert Camus, gravemente ferito in un incidente stradale. Camus, immobile ma lucido, fasciato in testa, dalla penombra gli aveva fatto cenno di esser pronto. Jacques Monod cominciò a leggere.
La Terra è vecchia
Così dunque anche intorno, le mura del vasto mondo, espugnate, finiranno in rovina e in corrotte macerie. Bisogna infatti che il cibo reintegri e rinnovi, che il cibo ristori, che il cibo alimenti ogni cosa, ma invano, poiché le vene non sopportano più quanto basta e la natura non somministra quanto serve. Così è ormai fiaccata la nostra era e la terra stremata stenta a creare piccoli animali, lei che ha creato ogni specie e partorito fiere dai corpi smisurati.Lucrezio, De rerum natura, libro ii, 1144–1152
Crollerà la macchina del mondo. Per tanti anni sorretta, in tutta la sua mole crollerà. I mari, le terre e il cielo andranno in rovina in un sol giorno, un sol giorno non così lontano da non poter essere prefigurato. Tra immani cataclismi, altri occhi vedranno in breve tempo sfracellarsi ogni cosa. Ecco la visione poetica di Lucrezio. Chiediamoci dunque: che ne sa la scienza al riguardo, duemila anni dopo?
Sa che la Terra è vecchia. Avendola noi ammirata pochi mesi fa nelle prime immagini satellitari dell’Explorer 6, corrugata di vortici bianchi, il profilo curvilineo stagliato sul nulla, risplendente di colori che possiamo solo immaginare, non si direbbe proprio che una tale solitaria meraviglia sia così anziana. Tuttavia, per lei si sta arrossando il tramonto, nel calendario dei pianeti. Da qui dentro, dalla bolla delle nostre illusioni di eternità, racchiusa tra due confini letali, tra un’atmosfera di poche decine di chilometri sopra di noi e un oceano di magma infuocato pochi chilometri sotto di noi, non ci viene facile pensarlo. Siamo troppo immersi nelle miserie e nelle grandezze della nostra storia.
Eppure, basta far di conto.
Il Sole, un astro di medie dimensioni perduto tra i 200 miliardi di stelle del a nostra galassia, bril a da circa 5 miliardi di anni ed è a metà della sua parabola esistenziale prefissata. Si trova nel pieno della sequenza principale, ossia la fase matura e stabile, e sta bruciando il suo combustibile, l’idrogeno, al ritmo di 600 milioni di tonnellate al secondo. La fornace di fusioni nucleari all’interno continuerà a lavorare per altri 6,5 miliardi di anni, poi l’idrogeno tramutato in elio si esaurirà, il nucleo collasserà, gli strati esterni si espanderanno e la nostra stella diverrà una gigante rossa. L’evoluzione successiva porterà ad altre fasi drammatiche durante le quali saranno sintetizzati berillio, poi carbonio, ossigeno e così via, altri elementi più pesanti. Ma noi non ammireremo il pirotecnico spettacolo alla periferia della Via Lattea, perché già non ci saremo più. Nel suo gonfiarsi da gigante rossa, il Sole avrà infatti già travolto Mercurio e Venere, e arrostito la Terra. Si compiranno così la decadenza e la caduta di un pianeta che fu vivo. Si piegheranno le ginocchia di Atlante e la Terra esploderà in un grande sconquasso. Lucrezio ha ragione.
In realtà, le nostre preoccupazioni di esseri organici saranno cominciate ben prima. Durante la sequenza principale, la luminosità del Sole aumenta gradualmente. Oggi brilla il 30% in più rispetto all’inizio. I dinosauri erano baciati da una stella più fredda. Tra un miliardo di anni brillerà il 10% in più rispetto a ora. A quel punto, il flusso di energia proveniente dal Sole aumenterà quel che basta per far evaporare più rapidamente gli oceani. Ingenti masse di vapore acqueo entreranno in atmosfera, intensificando l’effetto serra e innalzando le temperature globali. Da allora in poi il circolo vizioso sarà inarrestabile: temperature più alte favoriranno l’ulteriore evaporazione degli oceani. Una coltre opprimente graverà su una Terra sempre più calda, soffocando ogni forma di vita complessa. Noi mammiferi di grossa taglia non avremo scampo. Se già ora vogliamo farci un’idea di quel che accadrà, basta osservare un asfissiato vicino di casa apparentemente sterile, Venere, dove un processo simile è già avvenuto, data la sua sventurata prossimità al Sole.
Dunque, abbiamo ancora un miliardo di anni da giocarci, non di più. Un miliardo. La vita sul nostro pianeta dipende da un delicato e improbabile equilibrio tra una pletora di fattori interagenti, alcuni favorevoli alla vita, altri ostili. Sarebbe bastato un niente, in innumerevoli occasioni, per far saltare tutto. Quasi ovunque, là fuori, fa troppo freddo o troppo caldo per viverci. Nel ’universo, i grumi di materia sono un’eccezione; la norma è il vuoto. Le condizioni fisiche della Terra devono la loro stabilità al fortunato ambiente cosmico che la circonda, un intorno locale di per sé terribilmente avverso a ogni forma di vita.
Affinché un evento inatteso interrompa la noia mortifera, devono darsi contemporaneamente più condizioni: una stella con la massa, l’età e la luminosità giuste; un pianeta con la composizione giusta che vi orbiti intorno alla distanza giusta (nel nostro caso si suppone che siano 149 milioni di chilometri); un’atmosfera che faccia l’effetto serra al grado giusto, né troppo né troppo poco; e acqua allo stato liquido, possibilmente con una spruzzata di elementi pesanti (di preferenza un po’ di carbonio, ossigeno e ferro).
Ecco, questa fune sulla quale cammina la nostra vita da equilibristi, su questa biglia che ruota nel vuoto a 30 chilometri al secondo, si spezzerà tra un miliardo di anni e non potremo farci nulla. Sarà una fine lenta e ineluttabile, uno spettacolare crollo al rallentatore scritto nelle leggi della fisica.
Si noti che il calcolo è perfino ottimistico, perché non contempla la probabile eventualità che noi, molto prima dello scoccare del fatale miliardo di anni, ci saremo già fatti male da soli, erodendo e degradando lo scoglio cui siamo aggrappati al punto tale da renderlo inabitabile per noi e per tutti gli altri. In tal senso, oggi, grazie al brusco allenamento di due recenti guerre mondiali, gli strumenti di autodistruzione non ci mancano: dalla guerra nucleare alla devastazione ambientale, passando sempre per la miope ingordigia umana. Ammettiamo dunque, per un assurdo ottimismo, che tra un miliardo di anni avremo resistito alla tentazione nichilistica del suicidio collettivo e che, grazie al nostro spirito di conservazione, qualche nostro discendente sarà ancora nei paraggi. Non è lecito, in ogni caso, rilassarsi, perché altre dinamiche planetarie potrebbero andare storte ben prima della scadenza.
L’orbita terrestre, per esempio, potrebbe deragliare fuori controllo. I modelli fisici a disposizione non sanno infatti predire l’andamento delle traiettorie planetarie da qui a 50 milioni di anni. La docile teoria di pianeti orbitanti intorno al Sole, all’apparenza così affidabile, è in realtà un sistema fisico caotico, soggetto alle perturbazioni e alle mutue interazioni di tutti i corpi che lo compongono. I pianeti sia interni sia esterni sono già migrati più volte in passato e un giorno potrebbe capitare anche a noi, che siamo lì sballottati nel mezzo. L’orbita terrestre potrebbe così avvicinarsi o allontanarsi troppo dal Sole, uscendo dalla zona abitabile, e intonando l’addio alla vita.
E se anche ammettessimo di riuscire a rimanere stabili al nostro posto, lì tra Venere e Marte, per 50 milioni di anni, resta il fatto statistico, appurato di recente da alcuni paleontologi, secondo cui, mediamente, ogni qualche milione di anni la Terra è colpita da meteoriti o comete di dimensioni tali da mettere a repentaglio la vita di gran parte delle 15 specie animali e vegetali, soprattutto quelle, come la nostra, che soffrono particolarmente all’idea di essere travolte da tsunami giganteschi, di finire accerchiate da incendi smisurati e di passare decenni al gelo del ’inverno glaciale che deriverebbe dal ’offuscamento dell’atmosfera.
Veniamo, dunque, al calcolo sorprendente che ci porta ad affermare che la Terra è vecchia. Decidiamo di essere irrazionalmente fiduciosi. Supponiamo di essere così bravi da perpetuare la nostra stirpe per milioni di anni, imparando a controllare i nostri istinti tribali, a rispettare l’ambiente e a deviare gli asteroidi assassini prima della catastrofe.
Il Sole, però, non possiamo regolarlo a nostro piacimento. Se ne sta lì, con la sua biografia prestabilita dalla fisica. Quando tra un miliardo di anni sarà diventato più caldo del 10%, per noi sarà il fine corsa. Sarà un viaggio al termine della Terra così come la conosciamo.
Ma quanto sarà durato, quel viaggio? Se consideriamo che la vita sulla Terra cominciò all’incirca 3,5 miliardi di anni fa, età presunta dei più antichi fossili, significa che il lasso di tempo complessivo concesso per la vita terrestre sarà di 4 miliardi e mezzo di anni: i tre e mezzo trascorsi sin qui, più il miliardo che ci resta prima che il Sole faccia le bizze. Si tratta di una buona porzione della vita dell’intero universo: non male dopotutto, anche se, per i cinque sesti di tutto questo tempo evolutivo, gli unici esseri viventi ad aggirarsi indisturbati sulla Terra furono batteri e virus. Solo verso la fine, 600 milioni di anni fa, arrivarono gli organismi pluricellulari, e solo ieri l’altro su scala cosmologica, due o trecento millenni fa, fu la volta di Homo sapiens. Ne deduciamo una prima constatazione, positiva: un bel pezzo del tempo totale concesso fin qui all’universo ha visto almeno un esperimento di vita di successo, cioè i resistentissimi microbi terrestri e poi, marginalmente, alcuni mammiferi bipedi e vocianti. Seconda constatazione, meno piacevole: siamo entrati nella vecchiaia della vita sulla Terra.
Se, infatti, compariamo tutto quanto è successo sin qui sul a Terra al ’arco di vita medio di un uomo – diciamo, per eccesso, 72 anni –, scopriamo che adesso, agli inizi degli anni Sessanta del xx secolo, abbiamo compiuto 56 anni. La vita sulla Terra ha già consumato 56 anni su un totale di 72 a disposizione. Forse non ancora decrepita e stremata come la immaginava Lucrezio, ma la Terra è già vecchia!
Stiamo per andare in pensione. Ci restano soltanto sedici anni da vivere, cioè, fuor di metafora, un miliardo di anni su 4,5 totali. E a questa veneranda età abbiamo ancora problemi di rifornimento energetico, non abbiamo ancora messo il naso fuori dall’atmosfera, non abbiamo colonizzato nemmeno il nostro satellite né i pianeti più vicini, facciamo esplodere bombe nucleari sempre più potenti e alteriamo il mondo naturale a nostro pieno discapito. Meglio darsi da fare se non vogliamo essere ricordati come arzilli vecchietti un po’ rimbambiti che si sono messi a disfare il pianeta poco prima del gran botto finale.
Quindi, se non ci estingueremo prima da soli, abbiamo ancora un miliardo di anni. La Terra è vecchia. Ora guardiamo la stessa faccenda da un’altra angolazione. Il genetista, tra noi due scriventi, calcola che, dagli inizi dell’evoluzione di Homo sapiens, dovrebbero essere vissuti circa 100 miliardi di esseri umani in carne e ossa. Quindi noi, adesso, nel 1960, siamo i 3 miliardi di umani che vivono l’età della vita sulla Terra corrispondente a 56 anni su 72. Sono esistiti finora soltanto 100 miliardi di storie individuali, di fili tessuti dalle Parche e poi recisi, di sguardi umani aperti sul mondo e poi chiusi per sempre, di esperienze uniche, di pensieri segreti mai condivisi con altri, di sogni e di fugaci sentimenti. Cento miliardi di esseri umani che sono nati, hanno amato, avuto figli, compiuto imprese, e sono morti: è così semplice. Qualcosa è rimasto – le invenzioni di cui non possiamo più fare a meno, le idee importanti, gli scritti più significativi, le gesta e le opere di pochi, le rovine –, ma i contenuti di quelle vite si sono per lo più persi per sempre, come baci nel vento, senza un segno che li ricordi.
Cento miliardi sembra una cifra enorme, ma è pur sempre un numero finito, una quantità trattabile e recintabile, una gran massa di persone assembrate a perdita d’occhio in una prateria. Tutta l’umanità è su quel prato. Tutto ciò che è stato di noi. Potremmo catalogare 100 miliardi di esseri umani anche dentro un grande archivio, un’enorme biblioteca antropologica: 100 miliardi di cartellini divisi per sale, in livelli sempre più profondi, con i dati anagrafici essenziali e qualche storia, schedati a supremo omaggio della coscienza storica. Il bibliotecario di tutti i nomi che ci sono stati, di tutte le esistenze, non potrà che essere la morte.
Se ora volgiamo lo sguardo al futuro, capiremo che non ci saranno infiniti umani; soltanto un altro po’. Qualche milione di generazioni fino al termine del nostro miliardo di anni, non di più. Il loro cicaleccio resterà impresso per qualche tempo ancora nella frenesia universale; una parte di esso viaggerà nello spazio con le onde radio, ma prima o poi tutte le parole svaniranno nel nulla. Non ci saranno infiniti altri fili di Parche, infinite altre esperienze uniche; soltanto un altro po’. Non ci sarà per sempre un’altra storia, dopo l’ultima storia. Del resto, la posterità è una ridicola eternità. I posteri saranno indifferenti a noi, essendo gli umani notoriamente privi di memoria duratura. Se tutte le glorie sono effimere e i cimiteri, prima o poi, sono disertati, le nostre opere migliori, tra qualche millennio, saranno polvere, dimenticate. Forse gli archeologi ci rintracceranno sotto qualche frana, ma se così non fosse apprezzeremo ancora di più la profonda nobiltà di questa indifferenza della posterità. Non c’è una storia infinita da sobbarcarsi. Il futuro è più leggero del previsto e ci lascia liberi.
Crollerà, dunque, la macchina del mondo. La Terra è già vecchia. Quanto al resto, grazie alle capacità di previsione della scienza cosmologica, possiamo andare oltre l’orizzonte della nostra particolare finitezza e accorgerci, non senza iniziale sgomento, che anche il mondo, prima o poi, scomparirà. Tutto finisce. La galassia di Andromeda ci sta venendo addosso alla velocità di 110 chilometri al secondo; sarà qui tra 6 miliardi di anni e si fonderà con la Via Lattea. Noi non siederemo in platea per questa danza di stelle, peccato. Intanto l’universo continuerà la sua espansione, distanziando sempre più le galassie: il cosmo, visto da qui, diventerà più buio e più freddo. Non esistendo più, eviteremo l’esperienza di sentirci ancora più soli.
Forse l’universo continuerà la sua corsa espansiva fino alla morte termica, fino al Grande Freddo, al lentissimo esaurimento di tutto il combustibile stellare, tra migliaia di miliardi di anni. Questo sì, un numero quasi inimmaginabile. O forse, in un istante benedetto di sospensione cosmica da lasciare senza fiato, si fermerà e tornerà indietro, collassando di nuovo fino a un punto di inizio infinitesimale. O un punto di fine.
C’è dell’incanto, in questa finitudine di tutte le cose.
Estratto da Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, di Telmo Pievani (Raffaello Cortina Editore, 2020).